giovedì 21 agosto 2014

STELIO PANDOLFINI E PIMINORO : DUE "STRANIERI" DELLA VERA POESIA


di Bruno Demasi
 
      Era un cammino segnato quello di Stelio Pandolfini e quello di Piminoro (il villaggio di montagna che sovrasta la Piana): incontrarsi e condividere poi per sempre una storia di stranieri (alla Camus) che mal si adattano alla convenzione del tempo o a quella geografica nella quale sono costretti a vivere.

     Nella nebulosa sempre più fitta di  poeti che spesso  producono industrialmente parole in libertà, e si nutrono di scritti e di premi e di occasioni che passano inosservati ai più, Stelio Pandolfini, nonostante la sua umiltà e il suo ricercato silenzio, potrebbe stagliarsi come un gigante. Una dimensione di gigante e di “straniero” nei panni stretti di borghese nella sua Oppido, che lo vide nascere e crescere educato spontaneamente al culto dell’impegno civile, all’ideologia votata agli ultimi , a quei lavoratori d’Aspromonte maciullati dalla storia, al gusto del bello e del buono impastato quotidianamente sulle pietraie e i rovi di queste
strade. “Straniero” più che mai anche in quella Roma dove consumò ardentemente la seconda parte della sua esistenza, conclusa il 10 giugno del 2011. “Straniero” infine , perché mal disposto a piegarsi agli interessi commerciali e pubblicitari quando pubblicava due veri capolavori: “La fiumara va così” e “Il sogno. Ogni uccello nel suo bosco”. Non per nulla il primo dei due è dedicato a Rocco Scotellaro , il poeta contadino lucano, la cui parabola umana ed artistica per tanti versi è vicina a quella di Stelio Pandolfini.

     E poi Piminoro, il paese dei miei avi, a sua volta “ straniero”, perché costretto a nascere lontano dalla patria lontana di Fabrizia/Serra/Mongiana, a crescere su un’anonima balza rocciosa frustata dal Levante per tre quarti dell’anno. “Straniero” anche per il suo orgoglioso dialetto che in due secoli e mezzo è rimasto quello dei padri , testardemente impermeabile persino alle suggestioni dei media. “Straniero” in questa provincia e nel mondo perché geloso della sua povertà e del dono della fatica silenziosa per strappare alla terra il nulla quotidiano , solo per non morire.

    Ecco! Due stranieri nel corpo e nell’anima che si sono incontrati. Probabilmente le prime volte quando Stelio osservava dal basso della sua casa oppidese le bianche pietre riarse del villaggio montano, che via via veniva divorato dall’emigrazione, e ne restava avvinto. E soprattutto quando iniziò d’estate ad affittare qualche povero e fresco basso nel paese del suo sogno, per trascorrervi quasi in solitudine la sua insolita e bellissima vacanza estiva lontano dai posti e dai locali alla moda e da tanto vociare insulso e interessato dei nostri paesi.

    Questa simbiosi di due stranieri mi ha sempre commosso, tanto che, quando già Stelio viveva ormai da anni a Roma, dopo tante percosse subite dalla vita, gli chiesi tramite la sua carissima nipote Teresa, a suo volta finissima e vera poetessa, qualche verso da lui dedicato a Piminoro. Erano gli anni ’90 del secolo scorso!

    Mi rispose mandandomi quattro piccole cartelle dattiloscritte con altrettante e stupende liriche, in gran parte inedite, che conservo gelosamente e che oggi pubblico qui, accompagnate da questo biglietto autografo:

“ Caro professore,
eccoVi le composizioni promesse. Prendetele per quello che sono, un affettuoso omaggio alla nostra dolcissima Piminoro, e accoglietele quale gesto di simpatia che ora m’induce a darvi del voi e nel contempo a sperare possa in seguito venire ricambiata con un tu più appropriato.

Cordialmente
Stelio Pandolfini”


     L’ho ringraziato allora. Lo ringrazio ancora quest’oggi col cuore traboccante di gratitudine, come Oppidese e come Piminorese.



FRESCURA

Sentieri di felci

e pergole verdi

rossi pomodori

gialli fiori di zucca

nere more

Bambini ruzzolanti

sulla strada

Il gorgogliare bianco

del ruscello

Una capra sul tetto

danza e bruca


Terra di Piminoro

dall’aria imbalsamata



NOTTURNO

Sc sc sc sc sc sc sc !:

Comincia il concerto dei grilli

Gli ultimi campanacci son passati

è stanco il giorno

Saliremo l’una o l’altra viuzza

fra porte spalancate

Deschi luminosi

e file di santini e di ritratti

Qualche invito ad entrare

assaggiare un bicchiere

parlare dell’oggi e del domani

Il solito scalino

Echi di feste lontane

tarantelle in sordina

Il sonno

chiaro

Ci desteranno voci di campagna

Canti di gallo

e voli di colombi mattutini


CALVARIO


Ogni paese di Calabria

ha il suo Calvario

Ma di tutti

o piccolo borgo

è tuo il più bello

indorato del bianco silenzio

voce di questa terra forte e cruda

ove fatica a crescere la spiga

Eppure nei dirupi s’apre il seme

e amica è diventata la brughiera

La tua storia su un cocuzzolo

sbattuto dal Levante

Ovili accanto al letto

cuori velati di pena

donne nere

Respiri lontani

carezze di ore

ti preparano nuova sorte

Hanno un bivio tutte le strade

sospeso fra quiete e dolore

A me piace pensarti

coi gipponi sgargianti della festa

vedere al di là del calvario

gioiose bandiere



RIMPIATTINO


Sono un uomo che gioca a nascondino

tutto il giorno

come quando portava i calzoncini

Ho compagni i paesi

i monti e le fiumare

trovati e ritrovati ad ogni passo

Capo Vaticano Sant’Elia l’Aspromonte

Oppido Santa Cristina Piminoro

Son rincorso Rincorro

per luoghi lontani i ricordi

Giro rigiro la memoria

fra sembianze sopite vecchi amori

Fanciullezza che torni

da dietro un sasso un cespuglio

Bello dopo il meriggio ribagnarsi

dentro i sogni dell’alba

prima che il sole rosso

beffardo te li rubi