mercoledì 12 aprile 2023

La penna del Greco: A N’ATR’ANNU MEGGHIU ! (di Nino Greco)

    Neanche una goccia di mosto doveva andare perduta, neanche una goccia di sudore doveva scivolare a vuoto dalle fronti inzuppate di fatica e di preoccupazioni dei contadini nelle vigne sterminate, suddivise dai pigri e pretenziosi padroni fra tanti coloni, i partitari. Era il tempo del redde rationem dopo un’annata di fatica durissima che, dopo la lunga cura della terra, culminava nell’arte antica della vinificazione.
   Nino Greco di questa sapienza costruita pazientemente per secoli e spazzata via dall’ignavia dei tempi nuovi, del momento denso di apprensione in cui, dividendo il mosto schiumoso, si attendeva il premio di un’altra scommessa annuale, ci offre uno spaccato splendido.
    E ritorna per un attimo, insieme con il rituale augurio conclusivo "A n'atr'annu megghiu", che serviva ad ersorcizzare le difficoltà dell'inverno che doveva arrivare e gli interrogativi per l'annata successiva, il profumo di una civiltà intrisa di fatica e di oppressione scandalose, ma anche di silenzio e di religioso rispetto per i frutti della terra.
    Un’altra pagina da gustare con commozione e gratitudine anche per l’abituale dono di un lessico altrimenti perduto. (Bruno Demasi)

   Per i partitari di vigna la “cunsinna” restava il momento più atteso dell’annata; dopo tutti i lavori di un anno si raccoglievano i frutti. Era la giornata che chiudeva i tre giorni dedicati alla vendemmia. Raccolta e pigiatura il primo, poi ventiquattrore di fermentazione delle vinacce lasciate a ammollare nel mosto dentro la cascia, poi la “sgarrata”e infine la consegna.

   E il rituale si ripeteva ogni anno. Per tutti i coloni delle vigne era come sostenere una prova d’esame e i palmenti vivevano giornate frenetiche, fatte di fatica senza orario, e non si trovava il tempo per guardare nemmeno la levata del sole. La bontà dell’esito era tutto nel tino. Nella quantità di mosto che colava fino all’ultima goccia e che sboccava nel tino dopo che i colpi di ferla, la leva di ferro atta alla stringitura del torchio, che avevano aperto il canale della cascia tappato con un grosso sughero avvolto in pezzi di sacco di zombara e sigillato con la terra cretosa delle costereje.
   La notte che precedeva il giorno della consegna era la più pesante perché non si dormiva e la più gravosa. Si caricava il torchio con le vinacce pigiate e lasciate a macerare e si andava avanti fino a all’ultima torchiata.
   La “sgrappatura” era la parte meno divertente. Quando si “sferrava” il torchio bisognava tirare giù la vinaccia premuta e separare i grappi dagli acini per poi preparare il torchio per la prossima torchiata, e lasciare tutto in un angolo da parte pronto per procedere alla seconda premitura di tutto il vendemmiato. Dopo i vari passaggi tutto il lavoro di una annata si riduceva a poco più di mezza torchiata. 

   Erano notti di veglia e di primi freddi. Il silenzio dei vigneti veniva di tanto in tanto rotto dal rumore delle “chiavi del torchio”, provenienti dai palmenti della zona, che muovevano il cricco e che cadendo nella sede successiva scandivano il passaggio da un foro all’altro con un suono inconfondibile.
   Io mi muovevo con agilità all’interno delle sporte, affondavo a piedi nudi come se fossi risucchiato dalle sabbie mobili; e mentre giravo e pigiavo il mosto usciva a fiotti dalle fessure delle sporte e andava a ingrossare il canale del piatto.
   Mio padre mi raccomandava di distribuire bene la vinaccia e renderla uniforme in maniera che le mezze lune che dovevano coprire la torchiata scendessero, spinte dai “pezzotti” del castello e dall’avvitamento del cricco, parallele al piatto.
   Mi diceva pure che quel lavoro era importante per una buona riuscita della premitura e che il mio corpo esile agevolava quei movimenti. Lui sarebbe stato molto più bravo di me, ma era alto e grande di corporatura e avrebbe faticato molto. Poi contava le torchiate e dalle quantità riusciva a stimare la resa della partita di vigna: ogni torchio carico valeva dai cinque ai sei ettolitri di mosto.
   Quell’anno facemmo due torchiate e mezza. La sua stima fu precisa: quindici ettolitri di mosto. Sette e mezzo sarebbero stati i nostri. Aveva azzeccato la previsione e in ragione di ciò aveva fatto approntare al Bariaro la botte da cinque ettolitri e quella da tre.
   La scuola era cominciata da poco e come ogni anno mi assentavo dai due ai tre giorni. Quando la vendemmia capitava di sabato o di domenica riducevo le assenze a due giorni.
   Dopo la pigiatura a piedi scalzi sul tavolato parato sulla “cascia” e dopo la notte della premitura arrivava il giorno della consegna. Era il più atteso anche per me. 

   Caciagna arrivò col motocarro con sopra una botte di otto ettolitri legata con delle corde alle sponde e parcheggiò davanti al palmento e di fianco alla resta di “pittare” che faceva da cornice allo spiazzo, ma non ostruiva la vista e l’occhio poteva arrivare a intravedere il tracciato dell’autostrada che collega Gioia a Palmi: un tratto di Calabria e una fetta di cielo che al calar del sole si riempiva di tinte accese e sfumate che solo a quell’ora e da quel punto si potevano ammirare.
   Arrivò anche il camion del padrone: Don Carlo.
   A me faceva sorridere quando anziché pronunciare camion diceva “camolo”. Mi chiedevo se fosse per la sua parlata radicinisa oppure per altro. Non ebbi mai modo di scoprire il motivo. Lui, Don Carlo, entrava nel palmento, si sedeva su una di quelle sedie, la meno ridotta male, accanto alle braci rimaste ancora ad ardere nel focolare di fortuna; tirava fuori un blocchetto e una penna e si preparava ad annotare i barili che sarebbero stati caricati nel motocarro e nel camion. Celestino lo seguiva come un’ombra, era il fattore dei suoi poderi e il suo compito era di controllare che tutto avvenisse secondo i criteri stabiliti negli anni.
   Nato, il guardiano, usci fuori prese due legnetti li nascose tra le dita lasciando in vista solo le cime, si portò davanti al fattore e gli chiese di prendere uno, tirò fuori quello più lungo.
- Comincia il padrone! – urlò Nato.
   Il protocollo, mai scritto, tramandato negli anni prevedeva che i primi cinque barili di 32 litri fossero caricati nella botte del camion del padrone, poi si sarebbe passati a caricare altri cinque per il colono, per noi.
   Mio padre scese i primi gradini della scala calata nel tino e con un secchio cominciò a tirare su il mosto che Nato versava nello “scifo” per riempire il barile.
   Il barile, utilizzato come strumento di misura comune, era stato posizionato in una conca di cemento appositamente sagomata a bordo del tino pronta ad accogliere e a far ricadere nel tino il mosto in eccesso. 

   Io e Nato prendevamo dai bordi il barile pieno e lo alzavamo a favore di spalla di mio cugino Cenzo il quale si avviava verso la scaletta del camion e urlava i numeri di carico che faceva, scaricava il mosto nello scifo preparato sulla botte del camion o del motocarro.
   Don Carlo annotava, mio padre faceva la stessa cosa e segnava un’asta con un pezzo di carbone sulla parete del tino; anche mio cugino lasciava un segno con un straco di ceramida sulla parete esterna del palmento.
   Si andò avanti fino a quando mio padre non stimò che per il mosto rimasto nel tino occorreva passare al decalitro. La sequenza di chi doveva caricare rimaneva invariata, ma cambiavano i contenitori per la misurazione: dal barile al decalitro fino ad arrivare al litro.
   L’ultimo litro raccolto, rompendo la sequenza, venne per tradizione donato al padrone, e mentre mio padre porgeva a Nato il contenitore disse:
- A n’atr’annu megghju!
   Tutto finì così.
   Finirono quelle giornate di fatica che chiudevano un’altra annata costellata da preoccupazione e timori legati al maltempo e non rimaneva altro che attendere l’inverno per ricominciare con la pota proprio da lì, dall’ultimo litro di mosto.

Nino Greco