martedì 11 agosto 2015

La penna del Greco: I CAPPONI DEI PADRONI

di Nino Greco
    Un altro inedito di Nino Greco che ci si augura  possa essere  solo l’incipit di qualcosa di più ampio e articolato, in un panorama narrativo ormai affollatissimo di invenzioni e di eventi di ogni genere quanto povero di veri prodotti letterari ...
    Un’altra prova di quella prosa singolare e inconfondibile che all’arte della rievocazione minimale e immediata di un vissuto lontano e ancora opprimente associa una geniale reinvenzione del dialetto riversato nell’italiano corrente con tutte le sue ridondanze, le sue ellissi, la sua sintassi composita e antica e perfino con  le sue stranezze morfologiche e ortografiche che lo rendono unico e irripetibile. (Bruno Demasi)

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    Il cappone, a occhio e croce, pesava più di sei chili. Mia madre aveva legato le zampe con il lazzo e aveva fatto in modo che la mia mano le potesse afferrare facile.
- Vai da Don Vicenzino – mi disse.
- Cosa gli devo dire?
- Niente ..
   Don Vicenzino, il padrone degli uliveti che tenevamo in affitto, sapeva, e ogni anno sotto Natale gli portavo il cappone.
   Mia madre lo aveva comprato al mercato del martedì, e lo avevamo tenuto nel basso, legato a una zampa, per qualche giorno tra le botti del vino. Prima delle feste bisognava portarglielo vivo.
    Ero cumandivoli, già capace di fare quel tratto di stradone che veniva su dalla Ferrandina, toccava il paese in un lato e correva dritto fino ai Nuciari per poi cominciare a scalare, sinuoso, la montagna.
   Io ci andavo da Don Vicenzino. La sua casa, padronale, era dove finiva il paese, vicino all’Orfanotrofio. Ci tornavo anche il giorno prima di Natale, gli portavo la fiasca del vino del vino di Sanzo. Mi pesava portare il cappone, la sventurata bestia torceva il collo per alzare la testa, mi guardava e frullava le ali, sospettavo del suo becco aguzzato e mi guardava minaccioso.
   “Perché regalarlo vivo? Sarebbe stato meglio morto e anche più comodo da portare” pensavo. Bisognava essere capaci di sgozzarlo e mia madre forse non lo era. O rinunciava?
   Quella mano di ferro, come battente del portone, m’impressionava; sembrava sbucasse dal legno di noce,  Percuotevo e il rimbombo riempiva il patio che apriva alla casa. La scala, in cemento liscio, portava sopra al primo piano. 

- ‘Nchiana! – rispondeva alla mia bussata. Era il tempo dei capponi e del vino: in quei giorni aspettava tutti i gabellanti. E di affitti ne aveva in giro. Non era scritto da nessuna parte che bisognava regalare il cappone a Natale, ma ormai lui, come tanti atri padroni, lo arrogava.
   Salivo quella scala, era l’ultimo sforzo, col cappone a testa in giù.
- Mettilo là – schiudeva la porta di uno stanzino accanto alla cucina. Non diceva altro. Sua moglie si era riseduta dopo aver posato sul tavolo due biscotti. Lui allungava la mano:
- Teni cca’-
   Tutto concordato tra loro, tutto previsto, era la regalia di Natale. La solita scena e si ripeteva ogni anno. Quei biscotti secchi non m’incantavano, avevo osato mangiarli più di una volta, ma s’incollavano al palato. Perché mi offriva sempre due biscotti che lui usava inzuppare nel latte? Forse non meritavo nulla di più per qualche motivo a me sconosciuto. O forse pensava che due biscotti secchi fossero liccardie per un ragazzo, di otto anni, figlio di un gabellante? Avrei preferito una poglia di torrone, una di quelle in bella vista là, nella cristallera.
-Vai, vai! Vai!
   Mi ‘mpresciava. Non potevo rubare un secondo in più del tempo che serviva per posare il cappone, dovevo avviarmi alla scala. Uscendo davo occhiate intorno. Era tutto in penombra, balzava agli occhi la meraviglia dell’orologio a colonna e il pendolo che ne scandiva il tempo con le sue oscillazioni. -Tempus Fugit! - Riportava il quadrante incorniciato tra i ricami di legno scuro. Ci pensavo a quelle due parole strane, ripetendole nella mente veniva fuori come un suono: il tempo fugge. Come fa a fuggire il tempo? Non ha le gambe. Mah! Smettevo di arrovellarmi la testa con parole di cui sconoscevo il senso, ma se fosse stato per me, sarei rimasto lì a guardare ogni particolare. E poi il pendolo: lo guardavo e mi chiedevo il perché del dondolio perfetto volendo trovare il nesso tra il suo oscillare e le lancette. Mistero! Dovevo andare via e mi portavo dietro quella curiosità, così come l’anno prima e quello prima ancora. Mi era capitato di essere lì al quarto o alle mezz’ore e avevo udito la sonanza dei rintocchi. 

   Me ne andavo. Forse lui m’immaginava contento per via dei biscotti; li tenevo in mano. Appena riprendevo lo stradone, per tornare a casa, morsicavo uno, masticavo e mi prosciugava la saliva. L’acqua della fontana del Camposanto sgombrava il palato e i biscotti rimasti in mano li sfarinavo mentre tornavo e nella mente passava l'immagine recente dell'avaro e della  sua mano furtiva che contava  soldi nell'ombra....
- C’era Don Vicenzino?-.
- Sì –
- Cosa ti ha detto?-
- Niente –
- Mi dà due biscotti ogni volta che gli porto il cappone, ma quei biscotti non mi piacciono. Perché non mi dà il torrone che c’è dentro la cristallera?-
    Me lo domandavo e lo chiedevo anche a mia madre, ma lei non aveva una risposta. Io portavo un cappone e lui mi donava due biscotti secchi.
   Tanti capponi, tutti vivi; gli affittuari si disobbligavano così. Lui donava affitti e lavoro con gli uliveti. Prima delle annate arrivava lo stimatore.
   Quell’anno c’ero anch’io quando arrivò ammantato di soverchieria.Pipa in bocca sguardo sempre perso tra le cime come un rabdomante dell’aria; tutti dietro in religioso silenzio, ogni tanto si abbassava prendeva un sassolino e per ogni sarma che stimava lo metteva in tasca. Finito il giro, dette eloquio della sua conoscenza in fatto di stime e di olive. Si riempiva la bocca e s’impettiva parlando di sé.
    Io stetti sempre dietro mio padre, anche lui muto davanti al fattore e allo stimatore, fino a quando:
- Ho fatto il giro del fondo, ho guardato tutto con scrupolo e sono pronto a darvi la stima – Si fermò, svuotò la tasca e cominciò a contare i sassolini.
- Ciò che dirò sarà accettato da voi ? – rivolgendosi al fattore, in vece del padrone, e a mio padre.
-Sì – da entrambi.
-Stimo venticinque sarme di olive! parola ditta e corpu minatu !- proclamò.
   Da quel momento, sia mio padre sia il fattore, ebbero gli elementi per formulare una proposta e una controproposta. Venticinque sarme significavano settecento misure di olive; che, con una resa, dal primo all’ultimo, di circa due chili e mezzo a misura, avrebbe dovuto dare una produzione di olio, di poco, oltre i diciotto quintali. 

   Poi l’annata era scivolata in modo disgraziato. Le pietre del trappito giravano ma il pastacciao rimaneva sempre più asciutto. Maiolo guardava e diceva: - sembrano senza anima queste olive!-. Mio padre scurava il viso mentre votava le sporte delle presse. Il separatore emetteva sentenza. Tutto l’olio era lì, nei catoni e sul bilico:
-Un quintale e ottanta!- Maiolo bloccò il braccio del bilico, strabuzzò gli occhi e attivò il calcolo nelle sua mente.
-Non jimmu boni . Erano centoventi misure, ogni misura ha dato un chilo e mezzo -.
   Anche mio padre s’era fatto il conto. Perdeva un chilo a misura. Due quinti: dieci sarme della stima iniziale. Ne rimanevano quindici, tre quinti, di cui due e mezzo erano di Don Vicenzino. Col mezzo quinto rimanente, mio padre doveva pagare le femmine, la decima del trappito e ciò che rimaneva era il guadagno: niente.
   L’annata era stata mala e mio padre gli aveva lasciato Marino, aveva tenuto le costere di l’Acquavona e Scriva. In casa sentivo dire che le olive erano nozzuli e venivano giù anche dal crivo, inoltre le venticate le avevano tirate giù prima che divenissero mature e grosse.
   Don Vicenzino non aveva voluto accettare ragioni per diminuire l’affitto di Marino, mio padre gli aveva portato un litro di olive par fargli notare che non avevano resa.
- Le hai cernute apposta, non tutte le olive sono così a Marino, quelle sono il frutto di una livara sciragghiata-
   Mio padre ‘mpuzzunò. Era ingenuo, non disonesto e doveva rispettare i patti così come concordato: cinque quintali di olio con meno di due gradi.
   Quell’anno, gli ulivi di Marino sputarono poco: solo sei quintali. Molto meno della media dei quindici delle annate precedenti.
   Lo scirocco aveva fatto la sua parte. Ci rimise l’osso del collo. Le femmine furono pagate facendo debito e prestandosi i soldi.
- Teniamo l’Acquavona per l’olio nostro, quello che facciamo a Scriva lo vendiamo –
   Così mio padre non volle più Marino. Mio nonno approvò. Aveva principiato lui le colonìe e gli affitti con Don Vicenzino, poi aveva ceduto il passo a mio padre.                                                               . . .

 Anche le castagne quell’anno furono povere, perfino le ‘nzerte. Grande abbondanza ma piccole. Cogliemmo le quattro misure e le portammo a Don Vicenzino. Cosa ne faceva di un sacco di castagne curce? Erano soli, marito e moglie.
   Il castaneto di Marino era annesso all’uliveto, chi prendeva in carico le olive si segnava: doveva zappare anche il castaneto. Fatica inutile, almeno due giornate per due uomini. Coglievamo giusto il bastevole per noi e il resto lo lasciavamo lì a roditori di ogni genere e ai rovi.
   Forse il preludio di quel rapido abbandono a cui erano destinate le balze dell’Aspromonte la cui avarizia produttiva era però niente di fronte a quella dei piccoli e pigri padroni terrieri che pretendevano di spremere olio, vino e oro anche dal piombo, ma solo col sudore e col sangue altrui.
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