UN GRANDE NARRATORE D'ASPROMONTE E DEL MONDO
TROPPO PRESTO DIMENTICATO
di Michele Scozzarra e Bruno Demasi
E’ morto a Firenze Savero Strati, uno
scrittore vero che ha conosciuto l’Aspromonte sul serio, e non solo per esserci
nato e vissuto, ma per avere amato e odiato visceralmente questa terra sublime . La misura
della palude in cui siamo caduti è l’indifferenza
davanti a questo evento, l’ignoranza pressochè totale delle giovani generazioni
di uno scrittore che ha aperto nuove vie alla letteratura calabrese e, con le
sue opere, ha onorato la Calabria intera e tutto il Meridione, dando al contempo grandi
lezioni di umanità e di umiltà.
Nelle nostre scuole superiori, dove si
consumano orrendi crimini quotidiani di
voluta ignoranza della nostra cultura locale, forse
pochi docenti hanno proposto ai loro allievi le sue stupende pagine e pochissimi
sono riusciti a farli innamorare della nostra letteratura, di cui Strati è un
pilastro.
Con lui infatti la letteratura Calabrese ha aperto nuove vie
perché è diventata più oggettiva e concreta, e meno attaccata al
sentimentalismo e al “campanile”, così come lui stesso ebbe a dire: “Per
quanto mi riguarda credo che nei miei libri, soprattutto da “Noi lazzaroni” in
poi (e sono tanti ormai), non esista per niente il piagnisteo, ma c’è una
convincente presa di coscienza dei poveri; inoltre c’è la spinta e
l’incitamento a operare da noi, a non aspettarsi che verranno gli altri a
salvarci, a risolvere i nostri drammatici problemi”.


Saverio Strati è stato in grado di gettare
un ponte tra la letteratura calabrese e quella italiana, che lui definiva
“nazionale” perché riteneva che ogni calabrese è anche italiano: “Anzi
– sosteneva Strati – ogni calabrese
è calabrese, italiano, europeo e, soprattutto, mediterraneo. Quando un’opera
d’arte è opera di poesia, non è opera calabrese o italiana: ma è opera d’arte,
opera di poesia…”, ma ha tentato soprattutto di fare i conti con la realtà calabrese,
sempre più inquieta, riuscendo ad afferrarla e esprimerla, nonostante la
trasformazione della società che avveniva sempre in maniera più rapida. E il
suo dire sulla Calabria non era da lui ritenuto un impegno o un costume, e
tanto meno un bisogno nostalgico così come lui stesso ha voluto più volte
rimarcare: “Il mio dire sulla Calabria è un peso che ho dentro, un bisogno
fortissimo di raccontare; e racconto infatti per liberarmi del peso che mi sta
dentro l’essere. Se poi nelle storie, che ormai sono tante, c’è qualcosa di
valido tanto meglio per me e anche per la Calabria. Ma una cosa voglio
sottolineare, forse orgogliosamente: in nessun momento, in nessuna circostanza
gli scrittori italiani mi hanno fatto sentire scrittore marginale, scrittore di
una regione depressa…”.
Il 16 agosto prossimo avrebbe compiuto novant'anni, e ci si stava preparando nel suo paese di origine
(Sant’Agata del Bianco) al giusto riconoscimento, benché tardivo. Beneficiario
dal 2009, perché povero, del sussidio
della Legge Bacchelli (un assegno vitalizio «alla luce degli speciali meriti
artistici riconosciuti»), Saverio Strati nel 1977 aveva vinto il premio
Campiello con il romanzo "Il selvaggio di Santa Venere”.
A lui anche la cultura della Piana di Gioia Tauro
deve molto: certi affreschi palpitanti della realtà contadina abbiamo potuto
gustarli e farli gustare negli anni Settanta del secolo scorso ai nostri
ragazzi attraverso la lettura di “Tibi e Tascia”, un capolavoro narrativo in
seguito inspiegabilmente trascurato, o addirittura dimenticato, nelle scuole a
favore di romanzetti futuribili e insipidi di dubbio valore artistico…oltre che
etico.
Una
studiosa tedesca dell’opera di Strati ha sottolineato che basta leggere una
sola pagina di uno dei suoi romanzi, per rendersi conto dell’inquietudine delle
popolazioni dell’Europa meridionale e dei calabresi in particolare… Ci
auguriamo che questa inquietudine ci spinga a ribellarci al torpore in cui
vegetiamo e a rileggere o a leggere la narrativa di questo grande calabrese…senza
aspettare i soliti concorsini a premi, in memoria, banditi nelle scuole con scarso senso dell’umorismo
prima ancora che con difetto assoluto di
conoscenza della nostra realtà
culturale.