mercoledì 21 maggio 2025

RICORDANDO “ IL PREVITOCCIOLO” OVVERO “LE PETIT PRETRE DE CALABRE” ( di Bruno Demasi )

     Quando, intorno al 1962, Carmine Ragno con lo pseudonimo di Don Luca Asprea di Oppido Mamertina, dichiarandosi sacerdote ( non lo diventò mai, perlomeno della chiesa cattolica) , inviò a Feltrinelli un'autobiografia di migliaia di pagine manoscritte che all'epoca avrebbero potuto essere considerate scandalose, l’editore temporeggiò a lungo e solo dopo una decina di anni, esattamente nel 1971, decise di pubblicare una parte del lunghissimo manoscritto, avendo fiutato l’affare editoriale. Gli ingredienti per trarne una pubblicazione con gli stigmi della morbosità in effetti c’erano tutti e la stessa copertina usata, in cui macroscopici cappelli da prete lasciavano intravvedere lascive nudità femminili, ne voleva essere l’accattivante premessa. La parte pubblicata corrispondeva ai primi quindici anni di vita del narratore, che nel romanzo dichiarava addirittura di avere iniziato pratiche sessuali all'età di soli cinque anni con bambine della sua età, ma anche con ragazze già adolescenti o addirittura con donne adulte. Ciò che però era evidentemente destinato ancora di più a stuzzicare larghi strati di lettori era la contestuale narrazione dell’entrata in seminario del protagonista all'età di undici anni e la sua lunga e presunta persecuzione all’interno di esso.
 
    Il tema dell'innocenza di fronte all'amore voleva apparire il vero filo conduttore  quasi sotto forma  di una lunga confessione, raccontata  nel libro con tutta la forza che l’immediatezza di un fanciullo poteva darle. Una narrazione impetuosa e incisiva che non mancava affatto di alti passaggi lirici, ma che tendeva a divenire soprattutto l' illustrazione  quasi etnografica delle caratteristiche  culturali malate  di una comunità mediterranea, la cronaca di un mondo in cui l'erotismo sembrava apparire ad ogni costo sovrano.  E il successo di pubblico fu davvero rapido e grande, solleticato anche dall’ammiccante presentazione di Franco Cordero e dal ricorso che l’autore nelle pagine pubblicate fece alla ridicolizzazione e alla messa sotto accusa, spesso priva di fondamento, di tante persone realmente esistite che in qualche modo incrociarono con le loro vite la sua esperienza umana prima, durante e dopo gli anni del seminario. Un successo forse direttamente proporzionale al suo declino nel ricordo letterario, se è vero che oggi , ad oltre un cinquantennio dalla prima pubblicazione, se ne parla poco e se ne ricorda pochissimo.

   Ho ripreso in mano “Il previtocciolo” in occasione del dono che  nelle settimane scorse mi ha fatto Francescoo Barillaro di una copia, fortunosamente trovata, della   traduzione francese, edita da Gallimard ad appena due anni della sua prima uscita in Italia. Un’edizione che avevo avuto modo di leggere e recensire per il “Giornale di Calabria” già nel 1973, ma che poi persi di vista. Colpisce in essa anzitutto il fatto che la prefazione all’edizione italiana fatta da Franco Cordero sia stata mantenuta integra nella traduzione di Georges Paques, ma soprattutto la presentazione dell’opera in gran parte giocata sulla vexata e morbosa quaestio del celibato sacerdotale imposto dalla Chiesa Cattolica e sul quale il dibattito negli anni Settanta del secolo scorso era assai acceso.

     C’è tuttavia nella presentazione dell’edizione francese un intendimento accattivante per la sensibilità dei nostri cugini d’Oltralpe: si voleva presentare attraverso il libro di Don Luca Asprea un mondo, quello calabro aspromontano, fondato su strutture sociali molto arcaiche nel quale le forme del cattolicesimo popolare si mescolavano alle tradizioni della magia in un contesto agricolo chiuso in se stesso, contrassegnato da una forte povertà morale e materiale in cui l’unica forza che permeava tutto era una sessualità sfrenata e morbosa.
 
    Una visione decisamente esasperata ed esasperante di questa terra, che, certo, aveva – e in gran parte conserva ancora – molti limiti soprattutto a livello sociale e molte situazioni eclatanti di religiosità svincolata dalla vera Fede, ma che forse non è mai giunta ai livelli di aberrazione , anche morale, che vengono messi in luce nella presentazione di questo romanzo al pubblico francese.

  Questo breve excursus su un libro che ha fatto tanto parlare di sé e di cui oggi si tace in maniera quasi plumbea anche qui in Calabria ( gli eccessi in un senso o nell’altro purtroppo fanno parte del nostro DNA), non potrebbe essere completo se non si citasse anche la bella edizione che nel 2003 col medesimo titolo, ma con la prefazione di Antonio D’Orrico ha curato e divulgato Luigi Pellegrini Editore di Cosenza. Rispetto alla prima e alla sua traduzione francese , questa edizione contiene intanto un numero di pagine decisamente più grande e la storia si articola prendendo in considerazione anche gli anni successivi all’esperienza seminariale dell’Autore . La stessa si pone assolutamente non come un correttivo alla prima, ma vuole fornire un quadro d’insieme decisamente più articolato dell’esperienza umana, religiosa e sociale di Don Luca Asprea.

    Non è il caso, come non lo è stato per il passato, avventare giudizi approssimativi su questo romanzo che indubbiamente, nel bene e nel male, è una testimonianza della cultura e della società aspromontane in una fase circoscritta della loro storia, vale a dire quella compresa tra le due grandi guerre del Novecento. Direi tuttavia non sia nemmeno il caso di distinguere in modo pedante , come tanti hanno fatto, tra l’esperienza umana dell’Autore, quella formativa e religiosa e la sua arte, che in alcuni passaggi della sua prosa mostra una forza narrativa decisamente pregevole sebbene inficiata dai continui e irriverenti riferimenti a persone e a fatti che , essendo in gran parte immotivati, nulla avevano da aggiungere o da togliere alla qualità della sua narrazione.
                                                                                                                        Bruno Demasi

lunedì 19 maggio 2025

QUEI “ DEMONI DELLA SANTA FEDE ” SEMPRE PRONTI A RINASCERE (di Bruno Demasi)

UN’ OPERA NARRATIVA (E PEDAGOGICA)

 IRRINUNCIABILE DI VINCENZO VILLELLA

   “Siete venuti meno ai vostri doveri – disse il cardinale - sia verso il nostro amatissimo  Sovrano sia verso la Santa Romana Chiesa. Abbracciando la odiosa filosofia dei lumi  e la satanica  rivoluzione, avete tradito la Patria e la Religione…”
   Il priore lo interruppe:
   “… Noi siamo legati e vogliamo essere fedeli tanto alle leggi della religione quanto  a quelle di uno stato democratico e non tirannico…”
    Il cardinale  lo interruppe a sua volta bruscamente e, con l’indice puntato minacciosamente quasi sulla fronte del priore, gridò:
   “La Costituzione di Francia che voi avete abbracciato è negatrice della religione…oltre che uomini di Chiesa siete sudditi di un sovrano…”
    Il priore:
   “ Voi dite, eminenza, che il giuramento che abbiamo fatto alla Chiesa con il sacramento dell’ordine ci obbliga  anche  alla fedeltà al sovrano. Io vi dico che la religione non può essere ridotta a semplice serva di interessi temporali e che, pertanto, la Chiesa deve essere libera da ogni condizionamento del potere e non puntello dell’ordine costituito.Deve educare con la testimonianza alla prima beatitudine del Vangelo che è la povertà…” 

    Magistralmente concepito e descritto  dall'Autore, quello sopra riportato è un  alterco davvero drammatico, al pari di tutta la demoniaca crociata, quella dei Sanfedisti, voluta e capeggiata in modo spregiudicato proprio alla fine del Settecento dal calabrese Fabrizio Ruffo. Era un avventuriero che in modo altrettanto  altrettanto spregiudicato era riuscito ad ottenere la berretta cardinalizia e, millantando un servizio alla Chiesa, si era  invece posto al servizio della feroce restaurazione borbonica contro i barlumi di democrazia giunti attraverso la Repubblica Napoletana instaurata dai Francesi. Ma è una pagina della nostra storia, anzi della Storia , che, pur emblematica e da ponderare attentamente, esula ormai da tempo dai libri di storia che si aprono  sempre più a stento sui banchi delle nostre scuola. 

    Vincenzo Villella  rende dunque un servizio non solo alla Storia, ma anche alla Democrazia e alla stessa Religione con questo incredibile romanzo (“I demoni della Santa Fede - Diario di un monaco giacobino del 1799” , Grafichè editore) che definire “storico” è riduttivo sebbene prenda chiaramente le distanze da tutti quei filoni editoriali di storia romanzata che oggi imperversano a vari livelli. E’ infatti un lavoro narrativo assolutamente inusuale e avvincente nell’impostazione che “racconta” la storia dal di dentro con una delineazione incalzante e suggestiva di luoghi, personaggi e fatti realmente accaduti durante la vergognosa epopea del Ruffo. Un'epopea  che avrebbe voluto essere antirivoluzionaria, ma si rivelò soltanto un calcolo vergognoso soprattutto per la Chiesa del tempo, sanguinosamente asservita agli interessi della Corte. Un rischio tutt’altro che remoto anche oggi nelle logiche di potere locali, ma anche nazionali e internazionali, che sempre più spesso , anche se  in modo per fortuna non più cruento,  assurgono agli onori delle cronache politiche. 

    C’è in questa prosa misurata e suggestiva   una folla di volti , di nomi e di eventi realmente esistiti o accaduti che si incalzano dando vita a tante storie concentriche enormemente ricche di pathos come da tantissimo tempo non era dato vedere nella nostra produzione narrativa oggi più che mai persa dietro pubblicazioni di improbabili saghe familiari che sembrano aver quasi preso il posto dei peggiori feuilleton ottocenteschi di cui erano ghiotti , e nella loro accezione moderna continuano ad essere, orde di lettrici e di lettori appassionati solo di intrecci e di interessi familiari e dinastici quasi sempre inverosimili e caricati di simbolismi economici e imprenditoriali vuoti di ogni significato.

  Raramente mi è capitato di leggere un libro con tanto coinvolgimento emotivo . Peraltro l’artificio usato dall’Autore di creare nei passaggi-chiave un io narrante attraverso le parole del monaco Francesco Butera di Conflenti ( il “notaio zoppo”), giacobino, massone, e convinto  illuminista restituisce pagina per pagina una immediatezza insolita alla narrazione che si dipana in maniera ordinata e chiara anche in tutti i numerosi intrecci, mai inventati dall’Autore, ma registrati con lo scrupolo dello storico di professione.

    Non per nulla I demoni della Santa Fede rimette in gioco in modo virtuoso le sperimentate e raffinate  competenze storiche di Vincenzo Villella insieme alla sua straordinaria capacità di analisi e di sintesi nel dipanare con maestria  tutti i nodi dei fatti e presentarli al lettore nella loro veste più veritiera e avvincente. Un esempio purtroppo ormai raro di come sia possibile raccontare la verità storica presentandola con chiarezza  in tutti i suoi eventi  anche minimali, ma non  in modo  asettico e nemmeno impersonale.

domenica 4 maggio 2025

“LUCI D’ARTE E SAPIENZA NELLA CALABRIA BIZANTINA E NORMANNA” ( di Maria Rosa Surace)

      Un titolo niente affatto casuale per un libro tutt’altro che ripetitivo, pubblicato in queste settimane da Maria Rosa Surace per i tipi di Città del sole Editore con l’ intento , come chiarisce l’Autrice, di “offrire un’alternativa agli studi specialistici sull’argomento in questione che non sempre sono di facile accesso ai più.” La grande modestia del proposito è però direttamente proporzionale al rigore della ricerca, che esula da ogni approssimazione pur raggiungendo in pieno l’obiettivo proposto : una mediazione forte tra le conquiste storiografiche in questa materia e la necessità di condividerle a strati sempre più ampi di lettori desiderosi di conoscere questi segmenti importantissimi del passato della Calabria. La chiave di tutto è  di sicuro l’esposizione estremamente chiara e scorrevole, quasi pedagogica, in ossequio ai numerosissimi anni d’insegnamento dell’Autrice, che , dopo una parte introduttiva ampia, ma essenziale sulla Calabria bizantina e normanna, va ad esaminare in maniera avvincente le migliori testimonianze  sul periodo che ancora offre con dovizia la nostra terra: dalla Cattolica di Stilo , agli imponenti manufatti custoditi a Santa Severina; dalla chiesa di Sant’Adriano a San Demetrio Corone ai resti eloquentissimi presenti nel monastero e nella chiesa di San Giovanni Theristis a Bivongi fino al Patirion di Corigliano – Rossano. Sarebbero cinque tappe irrinunciabili di cui far dono specialmente ai nostri giovani studenti sempre più digiuni, loro malgrado, della nostra storia e dell’imponenza della nostra civiltà, che dalla illuminata e illuminante dominazione bizantina, malgrado l’esosità tributaria  della stessa, trasse indiscutibili tesori non solo religiosi, ma anche giuridici, amministrativi ed artistici, anche quando l’impositiva dominazione normanna prese il sopravvento cercando di spegnere insieme al rito greco anche l’eredità culturale orientale nel suo insieme. Ne parla in questa bella  pagina, con dovizia di riferimenti, la stessa Autrice, cui va sicuramente un corale ringraziamento per questa necessaria e significativa rivisitazione critica di una  fondamentale tappa della nostra incredibile  civiltà. ( Bruno Demasi )
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  Il dominio bizantino in Calabria è durato dal VI al IX secolo. In questo periodo la regione è stata a lungo territorio di contesa per l’importanza strategica della sua posizione; per i Bizantini era essenziale mantenerne il possesso in quanto baluardo sia contro le mire espansionistiche dei Longobardi sia contro gli assalti pirateschi degli Arabi.

    I continui scontri fra Bizantin i e Longobardi e la pressione dei Saraceni,non offrivano certo tranquillità alla popolazione calabrese su cui gravava un peso fiscale molto pesante ai limiti dell’insostenibilità. Giustiniano infatti aveva imposto a tutti i territori dell’Impero le stesse leggi e le stesse imposte senza considerazione per la diversità di ogni regione; sia lui che i suoi successori, per sostenere le notevoli spese militari causate da continue guerre, imposero pesanti tasse a tutti i sudditi. I Calabresi mal sopportavano l’onere di tribuiti versati continuamente per cause che non li riguardavano pertanto riuscivano a stento ad accettare il governo bizantino, la sua amministrazione e la sua politica.

  
  Tuttavia negli anni in cui la Calabria fu sottoposta a Bisanzio per quanto riguarda la cultura e l’arte le cose andarono ben diversamente. A proposito i Bizantini lasciarono tracce ancora oggi visibili ed apprezzabili – come illustrato in questo volume – nell’architettura, nell’arte musiva, nella pittura; promossero attività culturali di alto livello tramite soprattutto il paziente e competente lavoro dei monaci provenienti dall’Oriente i quali fondarono numerosi monasteri nel territorio calabrese. Già nel IV secolo era giunto in Calabria, proveniente dall’Anatolia, San Basilio che aveva dato vita a molte comunità monastiche che seguivano la sua regola.

    Lauree eremitiche, cenobi, monasteri diventarono nel tempo sempre più numerosi, moltiplicandosi a dismisura dall’VIII secolo in poi quando,in seguito alle persecuzioni iconoclaste scatenate da Leone III Isaurico, molti monaci approdarono in Calabria. Essi, come già detto, giungevano in questa regione perché territorio ricco di luoghi naturali confacenti ad una tranquilla vita eremitica ed anche perché l’eco dell’antica colonizzazione greca non si era ancora spenta.

 
   Sorretti da grande fervore mistico ed amore per il sapere, monaci amanuensi, calligrafi, miniatori conservavano e tramandavanoi inestimabili tesori d’arte e di sapere. Possedevano una vastissima cultura,soprattutto teologica e filosofica, e dedicavano tutta la loro vita allo studio oltre che alla preghiera e alla meditazione. Nella quiete dei loro monasteri copiavano e miniavano codici antichi; senza il loro paziente lavoro noi non avremmo mai potuto conoscere le opere degli autori greci e latini, i testi fondamentali della religione cristiana.

    La Calabria divenne luogo di produzione e diffusione di cultura a tal punto che Barlaam da Seminara, maestro di greco del Petrarca, consigliava a chi voleva apprendere la lingua greca di non andare nella lontana Costantinopoli, ma di recarsi nella più vicina e colta Calabria.

    Quasi sempre nella vita dei monaci il lavoro intellettuale veniva associato a quello manuale; i monasteri infatti erano centri fecondi di attività agricole ed artigiane, in essi si produceva di tutto; erano importanti motori di un’economia attiva e fiorente. In Calabria in particolare i monaci ebbero il merito, tra l’altro, di aver introdotto la coltivazione del gelso e l’allevamento del baco rendendo prospera una delle più rinomate attività artigiane della tradizione calabrese: la produzione e la lavorazione della seta.

     Certamente i secoli in cui la Calabria fu sotto la dominazione bizantina hanno lasciato segni indelebili nella storia della regione. Fu a quel tempo che questa terra assunse il nome di Calabria, termine con cui fino ad allora veniva indicato il Salento; fu in quegli anni che la regione, attraverso il grande movimento del monachesimo greco, sviluppò arte e cultura di notevole livello.

    Legata al filo delle sue antiche radici magnogreche, la Calabria continuò a guardare a Oriente nei secoli della dominazione bizantina sia nelle sue espressioni linguistiche – a quel tempo la lingua più diffusa era il greco – sia nella religione. La Calabria, infatti, allorquando i contrasti tra la Chiesa di Roma e quella di Bisanzio si fecero dopo l’Iconoclastica più aspri del solito, scelse di stare con la chiesa di Oriente riconoscendo sua autorità suprema non il Papa, ma il Patriarca di Bisanzio.

    E così nella Regione venne adottata una liturgiua diversa da quella romana e si usò il greco come lingua ufficiale mentre il resto della cristianità occidentale usava il latino. La Chiesa di Roma fu costretta a rinunciare ai suoi diritti sul territorio calabro dove tornò ad esercitare la sua influenza solo molti secoli dopo quando, per l’instaurarsi della signoria noprmanna, il dominio bizantino ebbe fine.

    Ma le tracce del passato bizantino non si cancellarono, come la ragione di questo volumetto vuole dimostrare. Lo testimoniano molti elementi: in primis l’inconfondibile stile orientale di alcune chiese che hanno retto alle ingiurie del tempo, l’architettura di alcuni edifici di città calabresi, la sopravvivenza in alcune aree della regione della lingua greca e di culti e riti greco- ortodossi.

      Possiamo dire che in un lontano passato la Calabria si illuminò delle luci d’Oriente e, dopo tanti secoli, qualche raggio di queste luci brilla ancora.

                                                                                                                   Maria Rosa Surace