sabato 19 ottobre 2024

PER IL DUE NOVEMBRE A PIMINORO ARRIVAVANO GLI ZINGARI (di Francesco Barillaro)


     
In tempi in cui ancora non erano iniziati i grandi esodi da un continente all’altro, ma imperversava il flagello dell’emigrazione che spopolava questa terra impoverendola inesorabilmente, c’era chi era più povero tra i poveri ed erano i nomadi, gli zingari. Nell’immaginario popolare essi, oltre a costituire il simbolo della precarietà della vita, impersonavano con la loro astuzia e la loro vita fatta di continui espedienti l’appartenenza a una non meglio definita dimensione magica, manifestata spesso nella pretesa della chiaroveggenza . Come osserva Francesco Barillaro in questa bella pagina, la gente diffidava di loro e proteggeva le proprie case da possibili furti, ma al contempo non aveva remore ad aiutarli, specialmente a ridosso della festa dei defunti nella quale a Piminoro essi apparivano emblemi di un valore antico, trasmesso dai padri e dalle madri antiche di Fabrizia e del Serrese, in cui povertà e carità costituivano un binomio forte e di forte valenza religiosa per la comunione dei vivi con le anime dei defunti, a torto oggi trascurato o forse dimenticato del tutto. (Bruno Demasi)
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    Tra il 30 e il 31 ottobre di ogni anno, all’imbrunire, il rumore di una moto ape che entrava sbuffando nella piazzetta di Piminoro annunciava l’arrivo degli zingari. Il piccolo veicolo si fermava davanti alla chiesa: provenivano da Gioia Tauro. Oltre al conducente dalla piccola cabina scendeva una donna formosa con vesti larghe dai colori sgargianti, difficile immaginare come ci fosse salita… Quattro o cinque testoline spuntavano da una tenda verde e rattoppata posta sul minuscolo cassone dell’ape , occhietti neri e ciglia grandi, capelli scuri, sorridevano; una bambina più grande 10-11 anni aveva gli occhi belli e tristi, accudeva i fratellini. L’uomo, grandi baffi bianchi ingialliti dal fumo, aveva un’età indefinita tra i cinquanta e i settanta anni: pantaloni e gilet neri di velluto , cappello scuro con un vistoso nastro rosso, scrutava il tempo guardando la direzione del fumo della “esportazione senza filtro” che stringeva tra dita le giallastre e in base al vento sceglieva il posto dove sistemarsi. Se il vento proveniva dal mare, il muro della casa di Giusi Porcaro era l’ideale, mentre se i cirri minacciosi del levante adombravano il Serro della Guardia, il posto sicuro era lo spiazzo all’angolo della fontana.

  La data del loro arrivo non era casuale: tra pochissimo sarebbe giunta la festa di Tutti i Santi e subito dopo la ricorrenza della commemorazione dei defunti e ogni persona in paese era più generosa ad offrire un dono “pi ll’anima di li muarti”. Altro particolare non trascurabile i raccolti erano terminati e nei “catoja” vi era il ben di Dio: patate, fagioli, zucche, noci, castagne vino e olio, alimento ricercatissimo.

    Era già buio quando, sistemata l’ape dalla parte opposta dal muro, una fiamma azzurrognola prodotta dal carbone di “forgia” illuminava la famigliola disposta a cerchio. Subito la voce correva nei vicoli freddi e bui del paese: “vinniru li zingari...”, si controllavano gli usci se erano stati chiusi bene…, si rimaneva svegli fino a tardi... (in verità non hanno mai rubato niente). Mia madre, e le altre donne della piazza, quando era ora di cena portavano qualcosa da mangiare, qualche coperta e un dolcetto per i bambini e il vino. Loro non chiedevano niente, ringraziavano e promettevano in regalo un “tripode”. Non ho mai capito come facevano a sistemarsi per la notte, sul piccolo cassone dell’ape…

  L’indomani, la mamma, con i bambini più grandi faceva il giro del paese scambiando i piccoli arnesi: palette, tripodi, attrezzi necessari per il camino con i prodotti che la gente offriva. Al ritorno del giro disponevano quanto raccolto in sacchi di iuta, l’olio veniva sistemato in un capiente recipiente di latta. All’imbrunire la famigliola si riuniva, attorno al fuoco, per la cena, quasi sempre a base di patate, non mancavano le regalie per i fanciulli: latte, zucchero e biscotti.


     Quasi sempre il loro arrivo coincideva con i primi freddi, accompagnati spesso dalla pioggia, le folate del levante facevano ondeggiare la tenda della moto. Da bambino credevo che fossero loro a portare il freddo e la pioggia . La prima e inaspettata neve, sui piani di “Livernà”, mostrava il suo candore e le folate gelide del levante arrivavano impetuose ad annunciare una fredda e lunga notte.

   Aspettavano il due novembre, quel giorno qualcuno portava loro il cibo che veniva cucinato e distribuito in paese in suffragio de defunti. Questa tradizione, come l'incanto della statua della Madonna Divina Pastora nella seconda domenica di luglio, proveniva da Fabrizia, e nei primi anni degli anni Settanta, del secolo scorso, attirò l'attenzione dell'antropologo Luigi Lombarti Satriani che così scrisse: “ Su invito della RAI, andai a Piminoro, piccolissimo centro dell'Aspromonte calabrese, per consigliare a una troupe radiotelevisiva cosa fosse più importante riprendere, da un punto antropologico, nei rituale del 2 novembre, dedicato, come si sa alla commemorazione dei defunti. Sia io che l'intera troupe televisiva fummo invitati a pranzo da una signora del luogo ( nel paese non esistevano né ristoranti né trattorie per rifocillarsi) e ci fu servito dalla stessa padrona di casa un pasto abbondante. Ai miei ringraziamenti, che sottolineavano anche il rammarico perchè si era presa tanto disturbo, la signora mi rispose che ogni anno preparava un pranzo abbondante che mandava ai poveri del paese. Quell'anno la nostra presenza di forestieri l'aveva indotta ad offrire a noi il pranzo, sempre in suffragio dei propri defunti. Tutto ciò era coerente con la cultura folklorica tradizionale secondo la quale i bambini, i poveri, i mendicanti, i forestieri possono costituire, proprio per la loro relativa invisibilità sociale, i vicari dei morti, assumere cioè il ruolo di morto e divenire così destinatari dei gesti realistici che altrimenti non potrebbero essere compiuti. In poche parole, attraverso il rapporto fra cibo e sacro è possibile approfondire quel confronto tra culture sempre più necessario data la progressiva multietnicizzazione della nostra società. Ciò che mi preme rilevare è che il cibo è essenziale alla nostra sopravvivenza, sia in senso realistico, pragmaticamente realistico (se non ci alimentiamo moriamo), sia in senso simbolico, di un diverso livello di realismo , essendo i simboli necessari per l'ancoraggio dell'uomo nella sua esistenza, nella sua società”. Di recente anche l'antropologo Vito Teti, nel suo libro “ Terra Inquieta”, Rubbettino 2015, riprende questo scritto di Satriani.


    Chi scrive faceva parte della frotta di bambini che quel giorno senza posa portavano il cibo nelle case. Inutile sottolineare che questa meravigliosa e particolare forma di “contatto” con le persone care defunte, da tempo non esiste più e ha lasciato il posto all'indifferenza e al nulla.
                                                                                                          Francesco Barillaro