martedì 2 gennaio 2024

LA SANTITA’ E LA STORIA DELL’ ULIVO NELLA PIANA DI GIOIA (di E. Perri, P. Inglese, G. Gullo, B. Demasi)

   Il rigoglioso paesaggio ulivicolo in quella che oggi viene comunemente chiamata “Piana” di Gioia Tauro, corrispondente lato modo all’attuale territorio dell'antichissima diocesi di Oppido, recentemente rimodulata e rinominata “ Diocesi di Oppido Mamertina-Palmi”, nell’ultimo ventennio ha subito drastiche manipolazioni che lo hanno quasi snaturato dopo secoli di incontaminata floridezza. Urge dare insegnamenti ed esempi alle nuove generazioni, ma urge anche  fermarsi per capire il lungo travaglio attraverso  cui è nato e si è sviluppato questo bene ancora assai prezioso fino a costituire un unicum al mondo sia a livello botanico e produttivo sia a livello paesaggistico e socioculturale.
    Domenico Grimaldi, Accademico dei Georgofili, cui va il merito di aver rinnovato profondamente l’olivicoltura della Piana di Gioia Tauro alla fine del XVIII secolo, fa un’ipotesi assai verosimile sull’origine della coltivazione dell’olivo in Calabria: “Non andrebbe per avventura lungi dal vero chi credesse che le colonie greche, le quali in gran numero si stabilirono nella Calabria, avessero ivi per la prima volta piantato l’Ulivo e introdotta quell’eccellente maniera di coltivarlo, che nella Grecia si adoperava, ch’eglino riguardano come sacro, e che con somma diligenza coltivavano”.
    L’olivicoltura calabrese nasce, presumibilmente, sulla costa ionica, dove fiorirono, a partire dall’VIII secolo a.C., le grandi colonie di Sibari (708 a.C.), Crotone (708 a.C.) e Locri (673 a.C.). Che l’olivo fosse coltivato nella colonia di Locri Epizefiri è ampiamente provato da ritrovamenti archeologici, incisioni, studi sulla dieta ellenica, citazioni sull’uso dell’olio d’oliva da parte degli atleti per tonificare i muscoli e per abbellire esteticamente la figura; inoltre, il più importante tempio locrese fu dedicato a Minerva, alla quale, come è noto, l’albero era consacrato. L’espansione dei coloni locresi portò alla nascita di alcune sub colonie lungo le coste del mar Tirreno: Metauria, l’odierna Gioia Tauro, Medma, oggi Rosarno, e  la città ancora innominata (verosimilmente Mamertion) i cui resti sono leggibili in contrada Mella, nei pressi dell’attuale Oppido Mamertina, alle propaggini dell’Aspromonte.
 
    Con la fondazione dei nuovi siti si rese necessario creare vie di comunicazione che agevolassero gli scambi commerciali tra le popolazioni e soprattutto con la grande Locri, la quale fu collegata all’Occidente per mezzo di due strade che attraversavano l’Aspromonte su due direttrici principali, una attraverso lo Zomaro, giù fino a Medma, e una seconda attraverso Zervò, giù verso la città oggi  denominata superficialmente  Mella, seguendo il corso del Petrace fino a Metauria. Per secoli lungo queste direttrici si effettuarono i traffici economici e all’epoca dell’insediamento sul versante tirrenico dei coloni provenienti da Locri è facile supporre che attraverso queste vie l’olivo sia giunto lungo le coste del mar Tirreno. Qui fu, per lungo tempo, una coltura secondaria, essendo il fabbisogno alimentare ampiamente soddisfatto dalla cacciagione e dalla pesca e, nell’ambito delle colture agrarie, dai cereali.
    Durante la successiva dominazione romana la coltura fu intensificata tanto che il prodotto veniva anche esportato fuori regione come testimoniato dai numerosi ritrovamenti archeologici nel territorio e dalle anfore di creta utilizzate come contenitori per l’olio, rinvenute nel tratto di mare antistante Taureana. All’inizio del nuovo millennio si ha notizia di fiorenti oliveti anche nel comprensorio di Mammola. Dall’analisi degli atti notarili di cessione delle proprietà alla Cattedrale di Oppido, negli anni 1000-1050, si ha notizia di gelseti, con nuovi impianti, vigneti e coltivazione dei cereali. C’è da dire inoltre che, fino ad allora, l’entroterra era scarsamente popolato e solo successivamente, per sfuggire alla scorrerie saracene concentrate sulle città costiere, le popolazioni si spinsero nei luoghi interni, più nascosti e protetti e presero origine i numerosi paesi pedemontani.
 
   Solo a partire dal Cinquecento è possibile, con supporti storici molto attendibili, studiare l’evoluzione della coltivazione dell’olivo nella Piana. Intorno al 1550 il frate Leandro Alberti scrive del suo viaggio in Calabria e dalla descrizione dei luoghi può essere fatta una prima ricostruzione che riguarda la Piana di Gioia Tauro, che egli percorse da nord verso sud. Così descrive Rosarno: “Ha questo castello buon e grosso paese ove sono giardini pieni d’aranci, limoni, e altri alberi fruttiferi colle pareti di rose che da ogni lato se ne veggono”. Prosegue, quindi, per raggiungere l’attuale Gioia Tauro, “passato Rosarno comincia una molto larga e lunga pianura, detta la pianura di S. Giovanni quasi tutta inculta, e piena di cespugli, e di boschi. Più avanti procedendo dal lito discosto, vedesi Gioia, il cui territorio è molto bello e pieno di vigne, d’aranci e d’altre fruttiferi alberi. Et non meno è producevole di grano e d’altro biade”
      L’Alberti percorre la Piana di Gioia sul basso litorale e non incontra olivi; la gran parte del territorio, in quest’epoca, è incolta oppure coltivata a frumento e pochi altri fruttiferi. Immediatamente successiva a quella dell’Alberti è l’opera del Barrio (1550), che offre una descrizione molto dettagliata del territorio dalla quale è possibile mappare le diverse colture e in particolare quella dell’olivo. Anch’egli attraversa la Piana da nord a sud e così la descrive: “Ci sono i villaggi Meliclochia e Dinami (…) Si produce un vino e un olio ottimo (…) Più lontano c’è il piccolo Castello di Caridà. Qui si prodoce un vino generoso e un olio lodatissimo (Hic generosum vinum nascitur, fit, & oleum, laudatissimum)”.    
     Per ritrovare l’olivo bisogna salire nuovamente in collina, alle falde dell’Aspromonte, fino a Oppido, sede episcopale. Qui, infatti, “si producono oli, vini, e stoffe di cotone ottime”. Dalle notizie riportate dal Barrio emergono elementi a supporto della via locrese d’introduzione dell’olivicoltura nella Piana di Gioia Tauro. Si distinguono, infatti, due centri di diffusione olivicola, posti agli antipodi della Piana. Il primo che si localizza a sud-est, nel territorio degli odierni comuni di Varapodio, Oppido, Santa Cristina, Cosoleto, Delianuova, Sinopoli, San Procopio, Melicuccà, Seminara, Palmi, l’altro, a nord-est, nel territorio dei comuni di Feroleto della Chiesa, Maropati, Galatro e Melicucco. I due centri, pur geograficamente separati da selve, pianure coltivate a grano, ortaggi, vigne e da numerosi altri fruttiferi, hanno in comune molti aspetti, in particolare la morfologia dei luoghi, che si presenta speculare, l’altimetria, il tipo di suolo e ancora le popolazioni di lingua greca. Soprattutto si trovano lungo le due antiche vie verosimilmente percorse dai coloni greci dall’uno all’altro versante della Calabria meridionale. 
    Ciò fa supporre che gli antichi Greci avessero impiantato, in questi precisi luoghi che presentavano, e ancora oggi presentano, le migliori condizioni pedoclimatiche, i primi olivi necessari ai modesti fabbisogni locali. Barrio ci riferisce della presenza, proprio a Sinopoli e in tanti altri comuni adiacenti, di “olive, grosse come le mandorle e carnose, preparate in botti, sono ottime a mangiarsi”. Dunque, appare verosimile affermare che solo dopo il Seicento le antiche varietà introdotte in età greca siano state del tutto soppiantate da varietà a frutto piccolo quali sono le odierne Sinopolese e Ottobratica. Le diverse varietà di olive saranno successivamente citate dal Pasquale (1863), che nella sua relazione scrive: “Oltre ciò, provato in molti punti dello stesso circondario ad allevare gli olivi domestici dello Ionio, non vi danno che scarsissimo prodotto in frutto; onde si levano via quei pochi che si trovano ab antico”. Successiva al Barrio è l’opera di Girolamo Marafioti da Polistena (1601), che attraversa la Piana da sud a nord e inizia dalla descrizione di Seminara e "Parma", l’odierna Palmi, confermando, sostanzialmente, la descrizione di Barrio che vede una Piana assolutamente libera da olivi, confinati in due areali ben distinti e geograficamente separati, caratterizzati dal fatto di essere posti nelle zone salubri della collina pedemontana.
       A novant’anni di distanza dalla stampa dell’opera del Marafioti è l’Abate Giovanni Fiore (1691) a descrivere i luoghi della Calabria. Gran parte delle descrizioni del territorio sono simili a quelle forniteci dal Barrio non essendovi novità di rilievo rispetto alle varie colture, in particolare per l’olivo, ancora localizzato quasi del tutto in collina. Un dato importante riguarda la produzione olivicola a Seminara nel 1624, “pari a misure napolitane 130.000 di rotola quindici l’uno”, che equivalgono a circa 1200 tonnellate. Se fino al XVI secolo gran parte del prodotto era consumato come “companaggio di tanti et tanti poveri che sono in Napoli et per lo regno”, questa situazione comincia a cambiare nel corso del XVIII secolo. È in questo periodo che avvengono fatti destinati a cambiare il paesaggio agrario della Piana. La lenta ma inesorabile scomparsa del gelso e dell’industria serica, l’aumento del consumo d’olio sia nell’illuminazione pubblica sia nell’industria tessile e nell’alimentazione dei ceti urbani in tutta l’Italia, la riduzione della vessatoria politica fiscale, e quindi del dazio sull’olio, imposto dagli Spagnoli prima e dai Borboni poi, le innovazioni tecnologiche nella fase estrattiva ed eventi naturali come il grande cataclisma del 1783, tutto questo contribuisce a un’espansione così straordinaria che all’inizio del XIX secolo vedrà la Piana di Gioia Tauro talmente trasformata da essere irriconoscibile.
    Di questo secolo abbiamo le testimonianze del Giornale di Viaggio di Galanti (1792), d’Arnolfini (1768) e soprattutto di Grimaldi (1777). È in questo secolo che l’olivo scende effettivamente nella Piana e che gli investimenti si fanno regolari e costanti, con pratiche agronomiche che, nella fase di propagazione e impianto, sono finalmente ispirate a criteri di razionalità. Non meno disastroso era fino a quel periodo il metodo di estrazione dell’olio. Anche in questo settore il Grimaldi, forte delle proprie esperienze in Provenza e Liguria, descrive in maniera analitica il processo estrattivo adottato in Calabria, che aspramente critica, e indica le necessarie innovazioni che devono essere introdotte al fine di ottenere una migliore resa e soprattutto una migliore qualità dell’olio. La coltura dell’olivo aveva cominciato, dopo la metà del Settecento, a espandersi per merito, soprattutto, delle innovazioni introdotte con i frantoi alla genovese; l’olivo poi continua a diffondersi, anche se lentamente, oltre i confini dei territori collinari, dove era stato relegato per secoli. Il dato viene confermato da Giuseppe Maria Galanti nel suo viaggio effettuato in Calabria nel 1792, che attraverso la descrizione dei luoghi ci presenta la Piana di Gioia Tauro ancora molto simile a quella descritta dal Barrio e dal Marafioti, ma ci segnala già a Drosi la presenza di alberi di olivo, così, infatti, scrive: “Vicino Drosi si veggono pochi ulivi, ma nel resto della Piana che attraversammo è tutto macchioso e inculto. Generalmente le coltivazioni d’ulivi estese sono sulle pendici delle colline e vicino ai luoghi coltivati. La maggior parte della Piana è deserta”. Galanti (1792), a proposito di Seminara, ci conferma che le innovazioni del frantoio alla genovese proposto dal Grimaldi erano state seguite, ma non i suggerimenti agronomici, perché così egli scrive: “gli olivi non si putano, ma si diradano solamente. Qualcheduno ha cominciato a putarli. L’olio è buono. (…) I trappeti alla genovese vi sono comuni. L’olio si conserva dentro vasi di creta”.  Evidentemente l’olivo comincia a essere coltivato a ridosso dei centri abitati anche della pianura, mentre ancora resistono le zone paludose e i boschi di Gioia Tauro, su verso il Petrace, e di Rosarno. 
  
  Un’altra testimonianza dell’inizio dell’espansione della coltura ci è fornita dall’Arnolfini (1768) che, percorrendo i feudi della Principessa di Gerace, descrive il fenomeno nel suo pieno svolgimento: “Le piantagioni che ora si fanno nel territorio di Terranova sono regolari e belle. Si pongono gli olivi in distanza di 60 o 70 palmi, onde per ogni tomolata di terreno si contengono nove o dieci piante”. Arnolfini indicava ancora nelle basse pianure di Gioia la presenza considerevole, lungo il corso del fiume Budello, di boschi e macchie, così sui rilievi collinari di Terranova. Il Bevilacqua (1988) riferisce che nel 1687-89 furono esportate in media annuale 3232 salme di olive dalla Calabria. Un secolo più tardi la media corrispondente degli anni 1785-94 era stata di 27.424 salme, la produzione era aumentata di ben nove volte.
    Nei paesi oleari della Piana, ci riferisce Grimaldi, la coltura dell’olivo “si era sempre più venuta estendendo a danno dei boschi e delle macchie che la popolazione vedeva scarseggiare sempre più diffusamente la legna per il fuoco domestico”. In quegli anni il consumo dell’olio d’oliva cresce enormemente, così come la popolazione e il lusso crescono in Europa. L’aumento della domanda e gli investimenti olivicoli furono per alcuni anni frenati dalle guerre napoleoniche, ma subito dopo il mercato europeo diede maggiore slancio all’olivicoltura, favorita dalla riduzione dei dazi sulla produzione dell’olio. Nella Piana di Gioia Tauro, la specializzazione dell’olivicoltura si era ormai affermata. Il processo riprese con ancora maggiore vigore e andò a occupare i boschi, i terreni sabbiosi e quelli umiferi, dove, come a Rosarno e nella bassa Piana, l’olivo rimpiazza, ci fa sapere il Moschitti: “Gli antichi boschi e le belle terre da semina. Ci ha ora sterminati oliveti dove non erano che foreste vergini”, e ancora Bevilacqua: “Le terre di pianura, anche laddove si erano insediate fiorenti masserie cerealicolo-pastorali, vennero progressivamente e sistematicamente invase dagli alberi: ulivi in primo luogo. Per rispondere alla crescente domanda del mercato internazionale le terre di piano venivano consacrate alle piantagioni specializzate”.
    Nell’Ottocento Norman Douglas riferiva della produzione di 200.000 quintali d’olio d’oliva nella Piana. Nel 1812, dalla statistica murattiana si può notare che, se pur cominciavano a essere utilizzati numerosi accorgimenti agronomici nelle colture, si soleva ancora raccogliere le olive molto tempo dopo la caduta spontanea e ancora si facevano fermentare in cumuli, tanto che l’olio estratto emanava un cattivo odore di rancido che lo rendeva praticamente immangiabile. Tra il 1822 e il 1825 fu fatto erigere a Cannavà, per volere della principessa Serra di Gerace, un gran frantoio polifunzionale, destinato a trappeto, deposito, abitazione per gli operai e casino padronale. La ricercatezza dei particolari utili alla migliore funzionalità degli spazi, alla comodità dei locali di lavoro, alla riduzione delle superfici degli edifici da adibire ad abitazione signorile, l’essenzialità dei locali lavorativi rappresentano una grande innovazione che differenzia in meglio Cannavà sia dai Siti Reali sia dalle Ville Vesuviane.
 
  Ci avviamo così all’epoca del Risorgimento italiano e dell’impresa dei Mille con una crescente espansione del territorio della Piana di Gioia Tauro investito dall’olivo e con la continua costruzione di frantoi. Fino a quest’epoca non è ancora possibile stabilire con precisione il totale degli ettari coltivati a questa coltura, supponiamo che sia presente, più o meno intensamente nella quasi totalità dei comuni che da qui a poco saranno annessi al Regno dei Savoia. Proprio a ridosso dell’unificazione del Regno, De Pasquale (1863) indica in 18.500 gli ettari coltivati a olivo nella Piana. Solo alla fine del XIX secolo l’espansione sembra frenarsi e su questo abbiamo la testimonianza di Bracci, Direttore del Real Oleificio Sperimentale di Palmi, che nel 1893 riporta 150.000 quintali di olio prodotto nella Piana su 24.375 ettari coltivati, e in generale sottolinea le condizioni di precarietà colturale delle piantagioni: “Questa imponente vallata è ricoperta (…) da estesissimi oliveti (…) ci sentiamo invadere da un senso di malinconia nel vedere l’abbandono in cui è lasciato l’albero prezioso di Minerva. Se poi si fa capolino nei locali destinati alla manipolazione delle olive, lo spettacolo è in generale davvero desolante”.
 
    Figlia, quindi, di “una delle più straordinarie e intense trasformazioni del paesaggio agrario che nel corso d’alcuni decenni a cavallo del XVII e XIX secolo interessò il mezzogiorno d’Italia”, l’olivicoltura della Piana di Gioia Tauro è certamente uno degli esempi più straordinari e complessi di monocoltura arborea di grande estensione che abbiamo in Italia. Gli oliveti della Piana, per il particolare vigore delle cultivar, Ottobratica e Sinopolese, pongono il dilemma del rinnovamento o del mantenimento, perché, seppur spettacolari dal punto di vista paesaggistico, non si prestano alla produzione di un olio di qualità con costi contenuti. Scrive Fardella nel 1995 che tra il “piglio quasi punitivo nei confronti della ragione economica” e la “speculazione più oltraggiosa”, rimane un vuoto di idee che la ricerca non riesce a colmare. Il dato economico indica con chiarezza la dipendenza dal contributo comunitario e un’economia assistenziale legata al collocamento di interi nuclei familiari durante il lunghissimo periodo della raccolta, con i conseguenti oneri pubblici legati all’indennità di disoccupazione. Ancora  non molto incisiva sul mercato dell’olio extravergine, la produzione della Piana è in larga misura destinata al mercato di olio lampante .  In termini di investimenti, si .passa dai 27.422 ha censiti nel 1925 ai 31.611 ha del 1970 e, più recentemente, ai 29.325 ha che riporta Nesci e ai 23.600 ha indicati da Fardella. Certamente qualcosa deve essere conservato di questo straordinario paesaggio rurale e ciò andrebbe fatto seguendo le linee storiche che si leggono sul territorio. L’olivicoltura in collina, per esempio, può e deve essere in qualche modo preservata e così pure i diversi manufatti che del sistema olivicolo hanno, per secoli, costituito parte integrante. Ma non si può e non si deve pensare di consegnare all’immobilismo tutti i 24.000 ettari di oliveti, perché il costo economico e sociale diverrebbe insostenibile