domenica 9 maggio 2021

"PICCIO', COSA VI HO FATTO?" (di Bruno Antonio Demasi)

Con questa domanda il giovanissimo magistrato il 21 settembre 1990 guardava negli occhi i suoi carnefici che gli stavano assestando il colpo di grazia e in un solo minuto spariva dalla scena terrena un uomo consapevole di ciò a cui andava incontro nel suo breve e intensissimo impegno al sevizio non solo della Giustizia, ma soprattutto dei poveri, degli affamati, degli assetati di Giustizia, al servizio di quegli ultimi per lo Stato che abbondano ancora , come trentuno anni fa, non solo nella Sicilia dei Puglisi, dei Falcone, dei Borsellino e di tanti altri, ma anche nelle Calabrie degli Scopelliti e delle centinaia di vittime di ndrangheta coperte da oblìo.

   Oggi più che mai, quando la Chiesa per la prima volta eleva agli onori degli altari un giudice, c’è un cordone ombelicale fortissimo che lega appunto “le Calabria”, cioè quella terra indefinita di mezzo che configura il Sud più povero alla Sicilia. E le coincidenze, i simboli di questa assonanza misteriosa sono tanti. Mi piace ricordarne almeno due. 

   E’ un vcescovo di Calabria il postulatoree della causa di beatificazione del gikudicve Livatino, mons. Vincenzo Bertolone, vescovo di Catanzaro- Squillace, che a proposito di questo disegno speciale della Provvidena per tutto il Sud e l’Italia intera, a proposito del martirio di questo giovane uomo, ricorda “...ha saputo armonizzare il servizio alla comunità civile, alla Carta costituzionale e alle leggi con l’obbedienza alla sua coscienza di laico cristiano, alla Chiesa. In sintesi, si può ben dire “Consummatus in brevi explevit tempora multa” (Sap 4,13), grazie all’amore per Gesù Cristo fino al sacrificio della vita. Fu san Giovanni Paolo II, nel corso della sua visita pastorale in Sicilia nel 1993, a usare l’espressione, poco dopo l’incontro, favorito dal vescovo di Agrigento, mons. Carmelo Ferraro (che ben conosceva la testimonianza eroica di Livatino), con i genitori del Servo di Dio. Rosario fu perciò additato dal Papa come “martire della giustizia e indirettamente della fede”.

    Una frase testuale che, in seguito, anche Papa Francesco riprenderà e quasi ‘consacrerà’ il 29 novembre 2019. 
 
     E’ dalla terra di Calabria che Papa Francesco pronuncia senza mezzi termini la scomunica nei confronti dei mafiosi il 21/6/2014 a Cassano all’Jonio. Essa va spiegata innanzitutto alla luce della precedente condanna del 9/5/1993 ad Agrigento, a opera di Giovanni Paolo II. Prima e dopo, nessun pontefice aveva mai preso una altrettanto inequivocabile e paradigmatica posizione nei confronti del fenomeno mafioso. Sotto questo profilo, tuttavia, è bene rilevare una differenza tra papa Wojtiła e papa Bergoglio. Giovanni Paolo II si era rivolto ai mafiosi, li aveva considerati suoi interlocutori in un appello a convertirsi rammentando loro l’inderogabilità del «giudizio di Dio». Francesco invece, scomunicandoli, di fatto esclude i mafiosi dallo spettro dei suoi destinatari.
 
    La mafia si mostra, nelle parole di Francesco, come un vero e proprio ordinamento, operante in modo uguale e opposto rispetto allo Stato, che ne risulta il solo legittimo interlocutore secolare della Chiesa.

   E non è nemmeno un caso che la Calabria er la Sicilia siano oggi accomunate nel nome del “giudice ragazzino” da una sete di riscatto sociale e legale che non conosce confini e mezze misure.