domenica 2 maggio 2021

L'ANARCHICO DI OPPIDO (di Santa Maria Marvici Martelli)


   Nel giorno del suo commiato al paese e alla terra che ha tanto amato, voglio ricordare con semplicità e commozione Santa Maria Marvici Martelli, che amava molto la poesia, quasi quanto la “ sua” Scuola e l’umiltà appartata e dignitosa. Era però nella prosa breve che riusciva senz’altro a condesnsare una seria e composta vena di narratrice che vale la pena ricordare e di cui questo racconto è eloquente testimone insieme a tanti altri riuniti , insieme alle liriche, in più volumi ( “Riflessi di vita”; “Incontro con la poesia!”; “Fra realtà e sogno”;”Raggio di sole”; “Voci nel creposcolo”; “L’eterno vagare”; “Il piacere di raccontare”; “Oltre il buio”; “Incantesimi al Sud”; “Ove gli ulivi fioriscono”; “Nel mio pianeta”).
    Ha scritto molto Santa Maria Marvici Martelli e i suoi versi numerosi sono come altrettante tessere non scontate di un mosaico aspromontano  inedito e da scoprire. A me , come dicevo, piace ricordarla però per la sua smisurata riservatezza, pari solo al suo amore per questa terra scabra e difficile nella quale è voluta tornare a vivere dapo una breve parentesi cittadina. Ed è proprio qui che sono fioriti anche i suoi  suggestivi racconti che aggiungono molto a una storia inedita dell’Aspromonte dimenticato e mistificato, e lo fanno con garbo e misura, in punta di piedi, senza le attuali grancasse mediatiche pagate di narratori e poeti fini a se stessi di cui abbonda il panorama letterario attuale... (Bruno Demasi)


   Don Alfonsino si dimostrava più vecchio dei sessant’anni che aveva.
   Un po’ curvo, d’altezza media, volto scarnito, occhi scuri ma lucidi, indossava sempre il solito cappotto, copriva il capo con cappello a falde larghe, unte di grasso, per ovvie ragioni,di solito nelle stagioni fredde o semifredde.
   Apparteneva a una famiglia moralmente sana ed eccessivamente religiosa, economicamente salda. Ma dopo la morte della moglie, dieci anni più giovane di lui, e del fratello, stimato saqcerdote che, per un grave equivoco, era morto ammazzato in piazza da un padre geloso, dimenticato, secondo lui, dalla giustizia di Dio e da quella degli uomini che avevano superficialmente creduto a falsi testimoni, manifestò la sua ribellione allontanandosi sia dalla sua unica sorella che dai pochi amici che aveva, per poi condurre una grama vita.
    La figlia, coniugata con un ferroviere prima che la madre morisse, si era trasferita in una lontana città. Tentò di convincerlo a stabilirsi presso di lei, ma lui non volle lasciare il suo paese, forse per amore alla sua terra o a dispetto dei suoi avversari. Sciupati i pochi beni che aveva che l’aiutavano a vivere, s’era ridotto ad abitare in una casupola costruita sul suolo comunale e, in tempo passato, adibita ad alloggio per la capra di un impiegato municipale. Per scaldarsi dal freddo durante l’inverno o per dimenticare le sue disgrazie incominciò a bere vino, ogni giorno aumentandone la dose fino a ragfgiungere e superare il litro. Rimasto nella più completa indigenza, era stato costretto a chiedere l’elemosina, ma l’alcool non aveva bruciato completamente la sua personalità dignitosa: all’angolo del municipio dove di solito si appostava ad allungare la mano ai passanti per chiuedere l’elemosina, quando qualcuno, impietosito, si mostrava troppo generoso nel dargli più di una lira ( a quei tempi tanto bastava per una razione di pane e un litro di vino) si rifiutava di accettare l’offerta, facendo capire che gradiva ricevere solo quanto gli era necessario per vivere in una giornata. 
   Era veramente un eccezionale povero! Certamente voleva conservare integra la sua granitica dignità e non confondersi con gli sfruttatori. Però, secondo il giudizio di molti, si comportò male quando la sorella mandò da lui la serva con un cesto colmo di vivande, avvolto in un ricamato tovagliolo, ed egli rifiutò d’accettarlo: lo aveva già pregato inutilmente di recarsi a casa sua a pranzo in quel giorno di festa! Aveva agito in tal modo, don Alfonsino, per non assoggettarsai al cognato che detestava; lo giudicava un ipocrita bigotto, adulatore di arricchiti ladri.
   A lui bastavano soltanto un’aringa, un pezzo di pane, un litro di vino e molta dignità. Non pretendeva altro. Qualche piatto dei calda minestra l’accettò soltanto da donna Elisa che abitava a poca distanza dal suo rifugio. Quella donna, sì, era veramente religiosa e buona, secondo lui: non sperava in ricompense paradisiache, nel dare qualcosa, nè in lodi sociali; si avvicinava con garbo e sorriso amichevole alla porta di lui, discretamente bussando, chiamandolo e chiedendogli il favore di accettare ogni tanto qualche cosa.
   “L’uomo deve rispettare il suo simile perchè fa sempre parte della sua stessa natura” pensava e ripeteva don Alfonsino, “Non peer ricompense divine o umane”.
   Era stato sempre un idealista acceso e, s’intende, con un modo di pensare molto diverso della sua stessa famiglia e della piccola società agricola-borghese in cui era vissuto e viveva. “Libertà e dignità”, aggiungeva, “ sono qualità naturali d’ogni umana vita, soltanto il dono degli affetti e l’equità possono aiutarle a crescere: bisogna proteggerle dalla falsità e dall’egoismo di taluni ricchi, dalle autorità di regimi totalitari che possono presentarsi sotto forma politica o religiosa”. 
 
    Il fratello prete, in verità, era l’unica persona che riuscisse a frenare il suo linguaggio critico contro tanti personaggi di quei tempi. Il podestà era fascista e non lo poteva comprendere e il vescovo non si sentiva certamente di approvare i suoi principi liberali, ma non cattolici. Don Alfonsino, dopo avere bevuto e brindato a Bacco, esprimeva più infuocata ribellione, cantando versi che egli stesso aveva composto o improvvisava. Divenne libero poeta, cantore di libertà e di amori. A volte alzava il tono d’una bella voce inneggiante pezzi del Nabucco a favore degli Ebrei perseguitati. Nelle baracche non lontane dal suo misero alloggio sentivano quella voce che, amplificata dal silenzio della sera avanzata, giungeva sgradita a qualche suo avversario, ma diradava il gelo in tanti tuguri col suo umano calore, specialmente dopo che il ceppo al focolare s’era già bruciato e la fiamma del lume s’era spenta in anticipo per mancanza di petrolio.
   Fu trovato morto dopo una nottata di vento e di neve. Donna Elisa non lo sentì cantare quella sera nè durante la notte; premurosa si recò a controllare in quel covile appena spuntato il giorno e il vento si fu calmato. Quando vide la porta spalancata e lui steso al suolo stecchito, addolorata disse:
   “Nemmeno un cane si lascia morire così”. Ha avuto un brutto destino, poveretto!”.
    Ma forse erano state le sue idee e tanto odio contro la società bigotta a preparargli quella brutta fine...

Capodanno 1999

( da “Il piacere di raccontare” Calabria Letteraria editrice, 1999, pagg.82-85)