sabato 26 dicembre 2015

La penna del Greco: TESTA ‘I ROVACI

di Nino Greco
    Un nuovo inedito D.O.C. del Greco, probabilmente un nuovo tassello di quel grande affresco sulla condizione contadina  che egli sta componendo a piccole pennellate man mano che i ricordi della sua fanciullezza affiorano impetuosi nella sua mente. Racconto minimale, certo, ma per noi, contadini nel sangue, un altro "luogo" epico di tante esistenze...(Bruno Demasi)
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    Mi smarrii con le mie curiosità nella bottega del Bariaru tra cerchi di ferro di varia misura attaccati alle travi, doghe di barili, di rovaci e di botti sparsi in ogni angolo. Barilotti, assi di castagno e attrezzi seminati ovunque. Non pareva avesse il garbo giusto per tenere ordine, faticava molto anche a camminare con quel bastone sempre in mano.
    Il migliore dei dintorni diceva mio padre e forse lo era davvero. Zoppo e bravo, pensavo.
    Ecco perchè i vignoti si rivolgevano a lui.
-U timpagno ‘nci voli novu - aveva sentenziato quando venne a tirare la fezza dopo da smammatura del vino dalla botte di cinque ettolitri.
    Quel disco di legno assemblato con arte, il più largo e centrale dove c’era modellata la porteja se ne stava andando e prima del nuovo mosto bisognava aggiustarlo.
   Le doghe tenevano e non erano guastate; lo notammo quando, con mio padre la spingemmo e la portammo fino al basso della putigha di Mastru Turi; quella volta la stavamo perdendo nella pendina dopo la piazza, mio padre passò avanti per frenare la corsa e io lo aiutai con la forza che avevo.
    Mastru Turi guardò la porteja e ci jharbò dentro.
- 'A gutti voli puru bruschijata, prima di chiuderla la devo bruschjari.
    Fu corto di cerimonie, il suo odorato sentenziava sulla bontà delle doghe di castagno curvate dalle lingue di fuoco e sulle minacce nascoste tra le pieghe di quei legni.
    Seppi che per la sistemazione delle porteje ogni anno, come compenso gli si dava la fezza delle botti al momento della smammatura, poi il vino novello a ridosso del Natale era solo premura e garbo dei vignoti.
    La fezza l’insaccava nel fezzaro per farla scolare, quel sacco di zombara appeso fungeva da filtro e rimaneva lì gocciolante per giorni e giorni. Al pastaccio di risulta ci pensava il sole e quando secco le vendeva come tartaro. 

   Baratti semplici, non correvano monete, almeno per quei lavori. Sembrava non ve ne fosse bisogno e si aveva la sensazione che per tante cose non servisse denaro.
    U Bariaru preparava le botti a settembre e dei compensi ne beneficiava a Natale col vino e ad aprile dell’anno dopo con la raccolta della fezza; conosceva tutti e tutti si affidavano alla sua destrezza per la riuscita delle annate.
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    La botte di cinque ettolitri fu approntata; Mastru Turi, quando andammo a riprenderla, ci disse di sciacquarla più volte con la vinazzata bollente e di aggiungere del mosto. Aveva badato a bruciare l’interno della botte per eliminare muffe dannose, poi aveva aggiustato il timpagno.
    Mio padre era rimasto soddisfatto del lavoro, nell’altra botte di tre ettolitri c’era solo da farla girare con la vinazzata due giorni prima di riempirla, il giorno della cunsinna.
    Otto ettolitri in tutto non sarebbero stati pochi ma neanche tanti. Di quella partita di vigna era il massimo che si potesse ottenere, diceva mio padre, era un’annata di quindici o sedici ettolitri di vino. La parte nostra, poiché eravamo a mitati col padrone, si riduceva a sette o otto ettolitri, di cui metà era già ‘mparolatu.
    Spettava che i padroni dei vigneti cacciassero il prezzo del vino e si regolava di conseguenza. Era vino di Sanzo e poteva anche chiedere anche di più: gliel’avrebbero pagato lo stesso.
- Megghiju deci liri ‘i menu- diceva, come a mantenere una sorta di discrezione.
    Lui non forzava la vigna con la pota per produrre di più, diceva che ogni vite va guardata per quello che può dare e potarla il giusto.
- Le spaje che lasci – mi diceva- devono essere rejute dal fusto della vite, perché troppi grappi fanno quantità, ma vino di poca sostanza.
    Era il suo convincimento.
   Sicché il vino della nostra partita di vigna era considerato di buona produzione col forzu giusto per la tenuta e senza il fantasma dello spuntu a citu.   
    L’antivigilia di Natale mia madre allestiva le bottiglie e io iniziavo il giro. Potatori, zappatori e femmine della vendemmia, tutti quelli che avevano lavorato nella vigna; poi ancora il medico, il Notaro e a compare Ciccio, suo amico.

    Il Notaro era forestiero, si erano ritrovati dopo tanti anni e abbracciati come fratelli per aver vissuto, sul fronte greco, episodi di guerra; mio padre da servente al pezzo e conduttore di mulo e il Notaro da tenente comandante la compagnia.
    S’incontrarono davanti al tabacchino in piazza dopo circa vent’anni e da allora non si persero più di vista. Nei loro sguardi si leggeva un forte senso di fraterno affetto, me ne accorsi e chiesi più volte a mio padre sulla loro amicizia. Non dava verbo e sorvolava, solo una volta mi disse semplicemente: - E’ un galantomo.
    Di sicuro erano stati i patimenti e le paure ad accumunare i loro animi.
    Al Notaro portavo cinque litri di vino e mentre la signora svuotava la damigiana, serbavo le mie curiosità al presepe: ordinato, illuminato e cercavo sempre il volto del pastore ‘mmagatu da stija. Tornavo a casa con qualche soldo in tasca e una spasella di pittopie.
    Il Bariaru era l’unico a non darmi un soldo quando gli portavo il vino, ma era cortese. Mi chiamava col nome di mio padre, non ricordava mai il mio e mi chiedeva:
-Cenzareju, a scacciasti tu a recina a vindignu ? - sorrideva.
- Sì – rispondevo orgoglioso e non lo correggevo, tanto sapevo che l’anno dopo mi avrebbe chiamato ancora in quel modo, e a dire il vero non m’importava.
    Fu una di quelle volte che andai a portagli il vino che mi chiese:
- Sai cos’è questo? – e mi indicò un rovace su cui stava lavorando.
-Sì – risposi – un rovace.
- Bravu , ora mi sai diri chi voli diri testa i rovaci ? – 

    Riflettei un attimo e dissi – No –
    Divenne serio e chiarì: - Testa di rovaci significa che la tua testa è bona solo per portarci un rovaci sopra, hai presente le femmine che portano il rovace a vindignu?
- Sì – risposi cercando di capire dove mi stesse portando col suo ragionamento.
- Ecco, voli dire che a tua testa non è bona pe autru se non per portari nu rovaci, e invece la testa serve pe penzari, pe fari ragiunamenti, pe esseri omu ! –
    Si lasciò andare a una risata rumorosa e poi mi disse :
- Cenzareju , avoji ti mparasti n’atra cosa, e ricordatillu sempri: c’ a testa si pensa, si ragiuna, ‘i rovaci ndannu m’i portunu i scecchi. E nui simu omini !