giovedì 25 novembre 2021

LEA GAROFALO E LE ALTRE...

Lea Garofalo
di Bruno Demasi

     Nella giornata in cui si commemorano i sacrifici di parecchie centinaia di donne sopraffatte dalla violenza maschile, ma soprattutto dal silenzio in cui in Calabria siamo maestri, vale la pena ricordare alcune donne vittime non di violenza comune, ma di mafia, che hanno insanguinato i nostri paesi. E' uno steep piccolo, ma significativo per la presa di coscienza della situazione in cui si vive nella nostra provincia, dove le cronache giornalistiche non sempre riescono a configurare esattamente il caleidoscopio di grovigli nei quali viviamo... Ma lasciamo a Francesca Chirico qualche breve nota tratta dalla sua stessa introduzione al  libro prefato da Michele Prestipino intitolato  "Io parlo".
    
"I codici della ’ndrangheta ignorano differenziazioni di genere, e non certo perché rispettosi delle pari opportunità: la presenza delle donne, semplicemente, non è contemplata e il loro silenzio mansueto – nonostante l’imprevedibilità della natura femminina «cantata» da tanta tradizione popolare – è presupposto dentro e fuori la famiglia-cosca. È un dato culturale, consegnato da un mondo contadino di poche parole che alle donne affidava la casa e precludeva la polis. Tuttavia qualche codice non rinuncia a richiamare il concetto, fornendo veri e propri consigli di bon ton: «La donna di un affiliato non manifesta mai curiosità sulle discussioni o attività del suo uomo ma tacitamente si adegua al proprio ruolo» La ’ndrangheta, però, prevede anche il riconoscimento di benefit, come l’assegnazione del titolo di «sorella d’omertà», l’unico che il mondo maschile e maschilista della criminalità organizzata calabrese conceda in via ufficiale alle esponenti dell’altro sesso. Il messaggio è chiaro: la
Francesca Chirico
caratteristica più 
importante di una donna di ’ndrangheta, non importa quanto sia scaltra, spietata o a quali importanti compiti dirigenziali sia stata cooptata, resta il silenzio. Nel dettaglio: non proferire parola quando le scelgono il marito, stare zitta durante gli interrogatori di Carabinieri e Polizia, restare muta di fronte alle decisioni di morte degli«omini».

     Infrangendo il silenzio assegnato dalla tradizione e preteso dalle cosche, combattendo paura e pudore, raccogliendo, non in misura uguale, disprezzo e solidarietà, in Calabria ci sono donne che hanno parlato. Madri, figlie, sorelle che negli ultimi trent’anni hanno socializzato il dolore, per socializzare l’ingiustizia, rimanendo spesso sole o isolate e pagando, in troppe, un prezzo altissimo. Vittime di ’ndrangheta che, senza vittimistica rassegnazione, hanno trasformato la ricerca privata di giustizia in una battaglia collettiva di civiltà, «il pathos della traged  ia in ethos della democrazia»
     Le prime infrazioni arrivano negli anni Ottanta. Marianna Rombolà, a cui hanno ammazzato il marito a pochi metri dal portone di casa, nel 1988 decide di confidare nella giustizia dei tribunali: alcuni concittadini di Gioia Tauro le spediranno lettere di solidarietà, ma senza firma; hanno un nome e un cognome, invece, i tantissimi che le levano il saluto. E poi ci sono due «forestiere» – una ragazza innamorata e una madre disperata– che la Calabria la incrociano per loro sventura, donne cresciute stando zitte solo quando non avevano niente da dire. Il 22
Rossella Casini
febbraio 1981 Rossella Casini comunica al padre che sta per partire da Palmi e tornare a casa, a Firenze. Non ci arriverà mai.

     La giovane fiorentina è stata uccisa e fatta a pezzi per avere spinto alla collaborazione il fidanzato calabrese, coinvolto in una sanguinosa faida. Per la ’ndrangheta Rossella era un’infame. Quando nel 1989 la «nordica» Angela Casella si rivolge alle donne di Ciminà, chiedendo aiuto e solidarietà per il figlio Cesare,sequestrato da Pavia, trova chi le ribatte un po’ stizzita: «Che ti dobbiamo fare, noi?». Di tragedie, nel paese aspromontano con oltre quaranta
Angela Casella
morti di faida, le donne ne avevano sopportate per vent’anni, tenendo la bocca chiusa e stando al loro posto: sotto il velo del lutto, pensando alla vendetta, se facevano parte delle famiglie coinvolte, o dietro le imposte, in attesa della prossima vittima, se ne erano estranee. In entrambi i casi, in silenzio. Qualcosa comincia a scricchiolare.    
    La cappa si incrina, impercettibilmente, e dalla fessura rifluiscono parole. Nasce nel 1989 il comitato Donne contro la mafia e, quattro anni dopo la «missione» di Angela Casella, sarà la figlia di un sequestrato calabrese, Deborah Cartisano, ad animare il comitato Pro Bovalino
Deborah Cartisano
Libera, promuovendo una catena del digiuno e trascinando in Calabria il capo della Polizia e la Commissione parlamentare antimafia. In quegli stessi giorni davanti al Tribunale di Reggio Calabria staziona un’altra donna che ha deciso di portare in piazza la sua battaglia contro il clan Mammoliti: si chiama Teresa Cordopatri, ha visto il fratello ammazzato sotto i suoi occhi, ed è calabrese.

     Storie che diventano segnali. Come quella, dirompente, degli undici commercianti di Cittanova che nel 1991 hanno denunciato, presentandosi insieme in commissariato, le richieste di mazzetta dei Facchineri. Saranno due ragazze poco più che ventenni – Maria Concetta Chiaro e Maria Teresa Morano – a dare voce e volto alla loro ribellione. La strada è aperta, insomma. Ma resterà non abbastanza battuta. Le voci faticano a diventare coro. Quando non sono le minacce, le querele o, peggio, la morte, arrivano l’alone di scandalo, le accuse di esibizionismo e il fastidio mal dissimulato ad accogliere chi ha deciso di parlare chiaro, magari come la maestra Liliana Esposito Carbone, con la foto del figlio ammazzato perennemente al collo. Perché, in Calabria, la donna che parla lancia una doppia sfida: punta l’indice contro i «nemici» ma
Maria Concetta Cacciola
anche verso un mondo che tace.  
     Diventa, insomma, un atto d’accusa ambulante che disturba sul piano criminale e imbarazza su quello sociale. E allora ecco scattare i vecchi e consolidati meccanismi di difesa e delegittimazione: Teresa Cordopatri è «buttana» per gli uomini dei Mammoliti, e «pazza» per i loro avvocati. Rossella Casini «era brava ma tornava tardi la sera». Liliana Carbone l’ha resa pazza il dolore. La tendenza vale, naturalmente, anche per le donne di ’ndrangheta che hanno scantonato: Concetta Managò era «imbottita di psicofarmaci», Lea Garofalo era «fuori controllo», Concetta Cacciola era «depressa psichica», Rosa Ferraro è «pazza perché parla troppo» e a Giuseppina Pesce «serve lo psichiatra». Proprio quello della fragilità emotiva femminile, sbandierata come «prova contro», come inconveniente di genere che priverebbe di valore scelte e parole, è un tema che vedremo ritornare costantemente: depresse, instabili, pazze – come la Cassandra dolente e furiosa di Christa Wolf – lo saranno considerate un po’ tutte, le ribelli che parlano.

«Oggi le donne calabresi piangono ancora chiuse in casa», dice Marianna Rombolà. Negli ultimi anni, invece, da certe case le donne hanno scelto di uscire,
Giuseppina Pesce
facendosi nemiche di «famiglia». Collaboratrici di giustizia come Giuseppina Pesce, cresciuta all’interno della cosca più potente di Rosarno, e Rosa Ferraro. Testimoni come Lea Garofalo, il cui esempio di coraggio risplende oggi nella figlia Denise, o come Maria Concetta Cacciola e Tita Buccafusca che, ritornate sui propri passi, hanno preferito l’acido a una vita tra quattro mura «onorate». Una scelta di rottura, la loro, che ha infranto muri considerati impenetrabili e potrebbe addirittura abbatterli, se diventasse contagiosa. La condizione è che la loro voce non risuoni solo nelle aule dei tribunali e che ad ascoltarla non ci siano solo i magistrati."

    E intanto a Roma si fanno vere e proprie acrobazie politiche per discutere  di commissari e di commissioni sanitarie e  distogliere l'opinione pubblica anche da questi problemi....!