Domenica 11 luglio 1677 si trovava nella chiesa matrice di Terranova a servire Mons Vescovo che,
in cotta e barretta bianca, stava celebrando la messa cantata quando è stato arrestato. Nell’immediato il di lui padre è accorso in aiuto ed è riuscito a ferire lo sbirro Francesco Chatti. I due si sono dati subito alla fuga e Barone figlio è riuscito a rifugiarsi nella chiesa di S. Maria del Soccorso, che apparteneva ai Padri Agostiniani. Questi al momento erano tutti presenti. C’erano il priore generale Fr. Francesco da Terranova e fra Girolamo da Reggio, quindi d. Domenico Morabito e Domenico Lauria. Ma è risultato tutto vano in quanto nella stessa mattinata è stato posto agli arresti dal
Barricello laicale un varapodiese di nome Domenico Capoferro alias Giaccale o Giacchettella e condotto a Oppido. Tra gli sbirri figurava presente anche un oppidese, Giuseppe
alias lo murco, cioè il monco. Il malcapitato è rimasto due giorni nelle carceri del palazzo vescovile dette “La Speranza”, quindi dagli stessi sbirri uniti ad altri è stato
“posto nella fossa di un carcere sotterra dove si cala con una fune trenta braccia in circa sotto terra e quivi sepellito con manette e ferri e ceppi a piedi”. In tal luogo, dove è stato ritenuto ben 15 giorni, il cibo gli veniva calato con una corda azionata da un argano. Trascorso il segnalato periodo, si è presentato un caporale conosciuto come
Andrea (?) Tigane e sempre a mezzo di corda e argano è stato tirato fuori. Lasciato con la sola camicia e un paio di calzoni, scalzo e privo di cappello, gli sono state legate le mani dietro la schiena e in tal guisa lo si è avviato a Santa Cristina. Qui erano presenti l’abbate Ven. Clemente
[2], D. Carlo Mazzapica
[3] e Antonio Musitano. Da tal luogo è stato portato a Oppido e fatto passare dalla strada pubblica fino a giungere alla casa del Vicario Generale, che al tempo era d. Marcello Zerbi
[4]. Erano presenti D. Lorenzo Grillo
[5], Francesco Grillo
[6], Cello (di certo Marcello) Zerbi, Michele Grillo, Francesco Grillo e tutta la città di Oppido. È rimasto esposto sotto il portico della stessa per un’ora, quindi con un paio di scarpe dategli per carità lo si è indirizzato di bel nuovo a Terranova. Sul luogo c’erano D. Orazio Spina
[7], Scipione Papalia, Blasio Garonfolo, Antonio Moretto, Antonio Luvarà, d. Giovan Andrea Rossi e tutti i padri celestini. Prima di entrare in paese si è provveduto a togliergli le scarpe e lo si è fatto transitare davanti al monastero di Santa Caterina, luogo di residenza del vescovo. Il popolo ha protestato per sì inumano e indegno trattamento, vero e proprio affronto a un sacerdote, ma il Ragni, ch’era al balcone e ha visto tutto, non ha battuto ciglio. Fatto riposare una mezzora sulla pubblica piazza, per ordine di quegli dagli stessi sbirri è stato spogliato, legato e indirizzato a Monteleone.
In cammino per questa città, superate le due miglia, gli sono stati concessi un
giuppone, scarpe e calze, quindi il cappello. La notte lui e la folta scorta l’hanno trascorsa in aperta campagna nella cosiddetta piana di Sant’Antonio. L’indomani mattina, ritrovandosi a sei miglia dal luogo di arrivo, si è fatto avanti un uomo a cavallo. Detto era stato inviato dal cognato Luigi Drago. Dato il caso, il Caporale ha permesso anche a lui di cavalcare, quindi gli ha legato le mani davanti, mentre prima le portava dietro. Che ti fa allora il nostro Barone? Subito ne approfitta e parte lancia in resta. Riavutisi dalla sorpresa, i birri, intimandogli di fermarsi, gli hanno tirato addosso due colpi di archibugio. Non dandosene per inteso, il malcapitato ha continuato nella corsa fino a raggiungere Francica, nella cui chiesa dell’Annunziata si è rifugiato. Non era ancora ora di pranzo e gli sbirri, intanto sopraggiunti, hanno chiesto ai francicani di acciuffarlo, ma, come dice,
“hebbero delle buone mazziate”. Per combinazione in atto si trovava ad effettuare la sacra visita il vescovo diocesano (era allora Ottavio Paravicino), che subito ha inviato il proprio
Barricello per arrestarlo e tradurlo a Mileto. Il povero Barone in due giorni aveva coperto 35 miglia di strada a piedi. Trovandosi in Mileto, si era fatto ormai il 28 luglio, ha fatto tenere al vescovo di quella diocesi un memoriale con il quale lo veniva a supplicare a fine di farlo restituire alla propria chiesa. Il tramite è stato il cognato Drago e il prezzo da pagare lo si è fissato in 25 ducati, ma, nonostante il versamento di 11 zecchini e la consegna di 5 libbre di seta al fratello dell’Ordinario, che n’era garante, non si è addivenuto ad alcunchè di fatto. Il presule ha dichiarato che non poteva farci nulla e che il suo collega di Oppido lo aveva avvisato che quegli era stato arrestato per fatti che rientravano nella competenza del Sant’Ufficio. A Mileto purtroppo non è che si mostrassero più umani. Il poveretto è rimasto nelle locali carceri per tutto agosto, settembre e parte di ottobre
“con ceppi e ferri, et una notte col collare di ferro”, quindi con la scorta di 40 uomini armati, tutti preti di Messa eccettuatine 4 o 5 ch’erano secolari, è stato riportato nella fossa di Santa Cristina. Qui è rimasto altri cinque mesi e, dice lo stesso,
“Dio solo mi ha mantenuto per miracolo vivo, poiché non vi era ne letto, ne paglia, anzi vi nasceva l’acqua e senza veder luce e con i ferri a piedi in pane et acqua”. Il vescovo aveva fatto affiggere alla porta del castello una scomunica riservata al Papa indirizzata a colpire quanti avessero rivolto la parola all’arrestato o gli avessero fornito robbe da mangiare.
Giudicando un tale comportamento una vera crudeltà è allora intervenuto il padrone dello stato, il Principe di Cariati Spinelli. Era Carlo Filippo I (1641-1728) V° conte di Santa Cristina e dal gennaio 1678 I° di Oppido. Tolto dalla fossa proprio all’inizio della quaresima del 1678, il povero prete è stato trasferito, come dice, con l’accompagnamento di 30 uomini a cavallo e con una fune quasi si fosse trattato di un cane ad Arena, posto che distava 50 miglia, dopo aver attraversato montagne e fiumi. Ad Arena
“con ferri e ceppi d’ordine del Vescovo”, è stato tradotto nelle carceri laicali dette
Il Carbone. Si sono intanto fatti i primi di agosto e, avendo supplicato il Duca d’Atri principe di Arena a causa che gli erano
“venute le gambe talmente grosse che pareva che i ferri si fossero incastrati nella carne, et ero tutto gonfio come una botte per i gran patimenti fatti nella longa, e crudel prigionia”, a dorso di cavallo è stato riportato a Oppido. Qui è rimasto 15 giorni, nel qual tempo ha scritto al proprio vescovo pregandolo di metterlo in libertà o di confinarlo in galera se lo avesse trovato colpevole perchè in 26 mesi ch’era durato il fermo nessuno lo aveva interrogato e ancora non era in grado di conoscere per qual motivo
“abbia sofferto si lunga e crudel prigionia”. Presentatore della lettera al vescovo, che si trovava a Terranova, è stato il canonico oppidese d. Stefano Leale. Il risultato si è configurato che per essere rimesso in libertà avrebbe dovuto pagare 1000 scudi agli sbirri che lo avevano trasferito di carcere in carcere e ulteriori 200 a mo’ di
“compensazione”. Comunicatogli il risultato della missione è andato su tutte le furie perché non si ritrovava alcuna possibilità di aderire, avendogli peraltro sequestrato due vigne e una casa. Che fare? Non restava che tentare di nuovo la fuga! E il buon momento si è verificato tra le ore 4 e 5 del 18 agosto 1679 e dell’occasione hanno approfittato altri due preti.
Conosciamo i particolari della fuga da un memoriale officiato dal vescovo Ragni. Autore della trama sarebbe stato l’oppidese Agatio Antonio Grillo, che a notte ha inviato per l’operazione il figlio Gio. Leonardo unitamente ad Antonio Iannello di Tresilico e Michele d’Agosta di Varapodi. Tali, armati di tutto punto, a notte hanno scalato il palazzo vescovile e subito catturato il carceriere sacerdote d. Ottavio Potitò, molto probabilmente lo stesso che nel 1670 era stato parroco di Sitizano e, messogli una fune al collo, gli è stato imposto di consegnare le chiavi e in tal guisa trattenuto fino a che, con lui stesso, non si fossero allontanati due miglia, per giungere nel luogo dove lo hanno poi rilasciato. Il carceriere, istigato dal medesimo Grillo, ha dichiarato che a liberare il Barone era stata una squadra di banditi che lo aveva forzato ad aprire la prigione. Informata del fatto la Regia Udienza di Catanzaro, questa ha spedito un Regio Auditore onde assumere informazioni. L’inviato ha accertato come realmente si erano svolti i fatti e messo agli arresti il Iannello, ma anche l’altro in successione è incappato nella stessa fine.

Che autorità e cittadini mordessero il freno contro simili comportanti da parte del potere ecclesiastico ce lo segnala chiaramente un documento stilato poco più di un annetto dopo l’arresto del Barone. Il 3 maggio 1678, nel Sacro Regio Monte di Pietà di Oppido si è venuta a svolgere una riunione al cospetto del Governatore Mag. Giacomo Grimaldi. In quel frangente si è proceduto all’interrogazione di Agazio Antonio Grillo, che ha relazionato sui fatti. Erano presenti i Magnifici Sindaci di Oppido e dei Casali: Francesco Grillo di Gio. Leonardo e Giacomo Zerbi
[8] e l’eletto Gio. Pirano (?) per Oppido, Leonardo Scullino sindaco e Domenico Laganà eletto per
Messignade nonchè tutta una serie di cittadini indicati per nome e cognome. Appartenevano alle famiglie Luca, Maitano, Santopolo, Fossari, Vergara, di Jacomo, Jannello, Albanese, Maiolo, Pasqualino, Naso, Spadaro, Minasi, Girace, Gallano, Collagiure, Campanella, Ierace, Iannello, Oliva, Girardis, Rijtano e Martello. In tale seduta i sindaci nomati hanno inteso informare le autorità di quanto accaduto e proporre di avviare i provvedimenti che più urgevano. Dichiaravano essi
“come dal giorno dell’ingresso in questa sede vescovale e come insino ad esso Mons. Ill.mo D. Vincenzo Ragni nostro odierno vescovo si sono germinati e fatti tanti, e tanti aggravj manifesti, e pure si continuano da detta sua Corte Vescovale in più e diverse maniere non solo contro questa Città ma anche di questo stato: laonde è parso ai detti Mag.ci Sindici di proporre alle Signorie Vostre affinchè si possa riparare a detti aggravij etiam con pubblico dispendio. Pertanto pare espediente e convenevole a detti Mag.ci Sindici per il pubblico utile di eleggere due persone cittadini quali vogliono riconoscere detti aggravj e quelli proporli a nome di questo Stato in presenza di qualsisia tribunale ecclesiastico così ordinario, come Delegato, quanto temporale, alli quali si dasse potestà non solo di quelli proptare (?), ma anche di spendere qualsisia somma di denaro in qualsivoglia di detti tribunali, et assistere app.li med.mi a presentare qualsisia scrittura, e di promovere…”. A questo punto si viene a chiedere la nomina di più Procuratori e all’uopo si propongono i due maggiorenti Francesco e Agatio Antonio Grillo. E ti pareva! I presenti dal canto loro non possono che accettare all’unisono con una sola parola. Infatti,
“a viva voce di tutti fu risposto bellissimo”.
Sfuggitogli dalle mani il prete terranovese, il Ragni non ci ha pensato due volte e ha denunziato fatti e persone a chi di dovere. Nel memoriale inviato a Roma, oltre a riepilogare i fatti, si è dato ad accuse pesanti e nei confronti del Barone e del Grillo. Al primo, oltre ad aver commesso qualcosa che ineriva al Sant’Officio, imputava di essersi
“dato in campagna”, aver effettuato saccheggio e ucciso
“l’oratore?”, quindi di risultare
“persona di pessima espettatione”. Ad Agazio Grillo in particolare di odiarlo a motivo che aveva ottenuto dalla Sacra Congregazione un provvedimento contro di lui. Nientedimeno peraltro tutti gli esponenti della famiglia pretendevano che le loro donne tenessero in Cattedrale le proprie sedie
“con le braccia”. Probabilmente, si trattava di sedie di tipo nobiliare con i braccioli, che quindi si distinguevano da quelle sulle quali prendevano posto le donne del popolo. Liti per questioni del genere non erano rare nell’antica Oppido, ma anche in altri paesi. Nobili e clero restavano sempre gelosi delle loro prerogative o ne pretendevano anche delle altre. Nel 1740 nella chiesa di Santa Maria della Porta in Santa Cristina è successo qualcosa di simile. Il Maestrato aveva preteso di addobbare con
“panni di velluto” il banco al quale di solito accedevano i suoi componenti. Qualche mese dopo, nella stessa Oppido, il sindaco dei nobili D. Lorenzo Amato Grillo, a conoscenza del parto della regina (era nato Filippo figlio di Carlo III), ha indetto un ciclo di feste con un triduo da celebrarsi nelle chiese degli Osservanti e dei Paolotti e ha preteso che nelle tre serate della cerimonia si facessero suonare le campane della cattedrale. Il suo desiderio ha incontrato però viva opposizione nel vescovo Vita e nei suoi immediati sottoposti
[9].
Passato il tutto nelle mani dell’Uditore d. Antonio da Ponte, questi ha proceduto all’arresto del Iannello e dell’Agosta. Con loro sono finiti dentro vari altri, tra cui uno dei due preti involatisi, Diego Laganà e lo stesso carceriere Potitò. Ciò fatto, il funzionario ha trasferito il tutto alla Regia Udienza di Catanzaro. Dai documenti fatti conoscere dal Pesavento è risultato che, mentre all’Agosta assestavano delle
mazziate durante l’interrogatorio, il Laganà
“stette tre giorni con pane e acqua e manettato di mani e piedi”. Nonostante ciò, tali non hanno tenuto a coinvolgere il Grillo, cosa per cui l’imperterrito presule ha fatto ricorso contro lo stesso e altri presso il Vicerè a Napoli ed al suo Collaterale. Questi ha dovuto inviare il tutto alla Regia Udienza di Catanzaro. Il fiscale regio, che si trovava in quel di Monteleone, ha incaricato il capitano di campagna dell’arresto del Grillo, in atto a Seminara in casa di uno zio ammalato. Tradotto a Catanzaro il nobile oppidese ha dovuto sborsare cento scudi. Peraltro, ritenuto falso l’esposto del vescovo, è stato poi rilasciato, ma con obbligo di non allontanarsi dalla città. Trascorsi cinque giorni, era il 9 dicembre 1678, è stato rimesso in libertà, ma con l’obbligo della presentazione ad ogni richiesta a pena del pagamento di 300 scudi. A conoscenza degli eventi, il mai domo Ragni ha inoltrato nuovo ricorso al Vicerè con preghiera di voler trasferire la causa alla Gran Corte della Vicaria. Questa ha dato subito ordine all’Udienza di Catanzaro di rimettere in carcere il Grillo, che risultava essere stato scomunicato dal vescovo sin dal mese di novembre, ma quegli, che in atto si era portato a Napoli, ha pensato bene di recarsi a Roma per dimostrare la sua innocenza direttamente al tribunale del Santo Officio.

Dalla deposizione avanti al Padre Mugiasca espressa dal Grillo, figlio di Leonardo e di età di circa 50 anni, avvenuta il 29 aprile del 1680 apprendiamo quanto segue. Essendo stato delegato, come abbiamo visto, dall’università oppidese, si era rivolto alla Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari esponendo i noti fatti. All’uopo detta appena l’1 giugno successivo è venuta alla determinazione d’incaricare il vescovo di Gerace di assumere informazioni in merito a 79 capi. Appreso tutto ciò, il Ragni non ci ha pensato due volte a querelare il nobile oppidese e il figlio riepilogando quanto, secondo lui, accaduto in precedenza. Dopo tante vicissitudini la Sacra Congregazione decideva di affidare il tutto all’arcivescovo di Santa Severina Carlo Berlingieri, ch’era in carica solo dall’anno precedente. Intanto appena il 13 luglio susseguente gli si comunicava che la causa contro il vescovo di Oppido era stata affidata al nuovo vescovo di Nicastro Francesco Tansi, cui occorreva inviare quanto già spedito da Roma. L’11 agosto il Tansi poteva comunicare che le scritture erano già in suo possesso.
Non sappiamo come si sia evoluta la vicenda in generale, ma il Ragni non ha dovuto sicuramente trascorrere a Oppido anni felici. Difatti, preferiva starsene spesso in quel di Terranova. Non è che qui fosse tutto rose e fiori. N’era motivo sicuramente il fatto che in quella città dimorasse il fratello Giacinto, peraltro chierico, che era pervenuto ad essere affittuario dello stato. Svolgeva il carico di amministratore della giustizia e faceva il bello e il cattivo tempo, quindi aveva ogni occasione per litigare con i cittadini. In una circostanza lo vediamo avversare la nomina di un revisore dei conti al monte di pietà. In altra, risultando creditore, ha mosso lite alla stessa Università, ma, uscitone vincitore e rimborsato, si è inimicato diversa gente, che a sua volta si è messa contro lo stesso vescovo. Ad avercela erano elementi delle famiglie Tutino, Strivere, Bruno, Pillare, Messina, Cavallaro, Sforza, Papalia, Solaro. Tra l’altro, nel 1695 verrà a trattenere in carcere più tempo l’abate Marc’Antonio Cavallari
[10]. Nel 1706 comunque risulta deceduto
[11].
Da una testimonianza anonima di quel 1680 emerge ancora un bruttissimo episodio che coinvolge il vescovo. Nel mese di febbraio il Ragni si è fatto raggiungere nel convento dei celestini in quel di Terranova, dove peraltro all’epoca abitava, da tre banditi siciliani accoliti di Francesco Capoferro alias Giacchettella e con loro si è stipulato accordo di recargli il giorno dopo le teste di Domenico Capoferro anche lui detto Giacchettella, Michele Dromi e un suo fratello. Il premio in palio consisteva in 300 ducati. Detto fatto. Oltre al premio pattuito gli scherani hanno ricevuto altri regali e danaro a fine dell’acquisto di polvere da sparo. Compiuto il misfatto avrebbero dovuto fare festa recando le teste degli assassinati, depositarle avanti al convento stesso e dare luogo a
“molte archibugiate et festini”. All’uopo ha pregato il Governatore di farli dimorare in una casa privata. Ma era tutto un trucco e alle due di notte furono allertati uomini a fine di assedio. Sono stati della partita un paio di ore dopo molti terranovesi e altri abitanti dello stato, i quali ne hanno avuto ben presto ragione. Risultato: sono state tagliate altre tre teste di siciliani, mentre due persone, ferite, sono state catturate. Lo stesso caporale del vescovo, tale Bernardo Carlo d’Oppido, che dal canto suo aveva troncato la testa a uno di quei malcapitati, si è impadronito di una
“carta piena di danaro”. Mostratala al vescovo, questo subito ha affermato che spettava a lui dato che esso, era chiaro, era sistemato sopra una busta indirizzatagli dal fratello da Napoli, dove al momento si trovava. Nella testimonianza seguono varie altre accuse.
I tempi erano quelli che erano e la litigiosità soprattutto a motivi di pecunia anche nelle varie istituzioni era all’ordine del giorno. Ancora nel 1685 il Ragni risultava avercela a morte con i preti di Terranova. Stavolta si trattava di d. Marcantonio Cavallaro, abate, che risulta deceduto nel 1706 e d. Giuseppe Gerardis, con questo debitore di alcune somme al cardinale Ginetti, ch’erano scappati anche loro dal carcere e si trovavano fuori diocesi. A conoscenza che i due si erano diretti a Napoli, con lettera del 29 settembre pregava il Nunzio di procedere al loro arresto, anche se lui era in grado di poter
“giungerli, e farli castigare in ogni luogo”. Guarda tu che iattanza! Essendo riuscito ad arrestarli, quegli stesso provvederà di conseguenza a rispedirli a Roma. Del pari ostile al vescovo era un fratello del Cavallaro, d. Diego, che l’anno prima aveva rivestito la carica di sindaco e in mezzo si ritrovava sempre il d. Giacinto predetto, che all’epoca risultava affittuario dello stato e a tal uopo in lite con l’università a causa di certi crediti non soddisfatti
[12].
Del Vescovo Ragni sappiamo poco. Solo che di famiglia oriunda da Gravina di Puglia, era nato a Napoli nel 1635. Nominato vescovo in una delle sedi richieste, a Oppido (l’altra era Santa Severina) nel 1674, risulta essere deceduto nel 1693.
La Terranova del 6-700 era spesso un focolaio di delinquenza e i cosiddetti
diaconi selvaggi e guidati la facevano da padroni. Per conoscerne abbastanza basta scorrere l’Epistolario del Governatore Lorenzo Cenami che relaziona sui tanti personaggi che all’epoca infestavano il territorio tra Terranova e Seminara
[13]. Altre notizie si ricavano variamente. Nel 1647 un terziario agostiniano di Varapodi, fr. Pietro, è stato soggetto a fustigazione per ordine dell’affittuario dello Stato d. Fulvio Caracciolo. Al 1775 rimonta altro caso. Per l’uccisione del mag. Antonio Locchese di Tresilico il subalterno d. Antonio Barba
“maltrattò con battiture una donna“ testimone con altri, tanto che l’ha fatta cadere a terra
[14]. Era tutta gente che operava in quel di Terranova. Per rendersi conto di tante situazioni basta scorrere le
relationes ad limina, che gli Ordinari diocesani inviavano periodicamente a Roma.
[1] Un Giuseppe Barone diacono della diocesi di Oppido è dispensato per età nel 1669. Francesco Russo,
Regesto Vaticano per la Calabria, VIII, Roma 1985, p. 259.
[2] Era di certo un’appartenente alla famiglia nobile dei Clemente.
[3] Faceva parte della famiglia nobile omonima.
[4] Nel 1669 un Marcello Zerbi era stato provvisto della chiesa di San Nicola di Santa Cristina. Lo stesso nel 1705 concederà a Carlo Zerbi il permesso per la stampa del libro intitolato
“Gemma Episcopalis”. Nel 1714 risulta defunto e gli subentra altro Zerbi, Alessandro. Russo,
Regesto VIII, p 253; IX, 1986, p. 444; X-1990, p. 89. Sugli Zerbi di S. Cristina ved. Liberti,
Santa Cristina (d’Aspromonte), Quaderni Mamertini, 7, 1998,
passim.
[5] Nel 1700 risulta infermo, per cui gli ottiene il permesso di celebrare messa nell’oratorio privato. Nel 1664 viene provvisto del protonotariato, Nel 1709 appare deceduto. Russo,
Regesto, VIII, p. 99; IX, p. 340; X, p.25.
[6] Ha ricevuto gli ordini nel 1692, è stato nominato penitenziere nel 1712 ed è deceduto nel 1716 Russo,
Regesto, IX p. 182; X pp.73, 135.
[7] Nobile geracese, nel 1671 è sciolto dall’impedimento della consanguineità di III grado per poter sposare Eleonora Grillo. Russo,
Regesto, VIII p. 301.
[8] Giacomo Zerbi nel maggio del 1677 aveva avuto la dispensa dal secondo grado di consanguineità per unirsi a Giovanna Musitano. Russo,
Regesto, VIII, pp. 435-436
[9] Liberti,
Diocesi di Oppido-Palmi, I Vescovi dal 1050 ad oggi, Virgiglio, Rosarno 1994, passim.
[10] Ivi.
[11] Russo,
Regesto, VIII, pp 339, 380; IX pp. 81, 464.
[12] Liberti,
Fede e Società nella Diocesi di Oppido Mamertina-Palmi, II, Quaderni Mamertini, n. 43 (2003), pp. 3-4. Il chierico Diego nel 1672 aveva goduto dell’assoluzione e della dispensa perché
“medicinam exercuit”. Russo,
Regesto. VIII, p. 332.
[13] L. Volpicella,
Epistolario ufficiale, del Governatore di Calabria Ultra Lorenzo Cenami, Archivio storico della Calabria, 1912-13 ecc, annate varie.
[14] Liberti,
Zibaldone calabrese, Briciole d’archivio, Quaderni Mamertini, 2, passim.