“Il nostro Dio non è un Dio 'spray', è concreto, non è un astratto, ma ha un nome: ‘Dio è amore’. Non è un amore sentimentale, emotivo, ma l’amore del Padre che è all’origine di ogni vita, l’amore del Figlio che muore sulla croce e risorge, l’amore dello Spirito che rinnova l’uomo e il mondo. Pensare che Dio è amore ci fa tanto bene, perché ci insegna ad amare, a donarci agli altri come Gesù si è donato a noi, e cammina con noi”.
lunedì 21 ottobre 2024
NEL GIORNO DELLA SUA FESTA, ANCHE LA PIANA E L'ASPROM0NTE NEL SEGNO DI PINO PUGLISI? ( di Bruno Demasi)
“Il nostro Dio non è un Dio 'spray', è concreto, non è un astratto, ma ha un nome: ‘Dio è amore’. Non è un amore sentimentale, emotivo, ma l’amore del Padre che è all’origine di ogni vita, l’amore del Figlio che muore sulla croce e risorge, l’amore dello Spirito che rinnova l’uomo e il mondo. Pensare che Dio è amore ci fa tanto bene, perché ci insegna ad amare, a donarci agli altri come Gesù si è donato a noi, e cammina con noi”.
sabato 19 ottobre 2024
PER IL DUE NOVEMBRE A PIMINORO ARRIVAVANO GLI ZINGARI (di Francesco Barillaro)
In tempi in cui ancora non erano iniziati i grandi esodi da un continente all’altro, ma imperversava il flagello dell’emigrazione che spopolava questa terra impoverendola inesorabilmente, c’era chi era più povero tra i poveri ed erano i nomadi, gli zingari. Nell’immaginario popolare essi, oltre a costituire il simbolo della precarietà della vita, impersonavano con la loro astuzia e la loro vita fatta di continui espedienti l’appartenenza a una non meglio definita dimensione magica, manifestata spesso nella pretesa della chiaroveggenza . Come osserva Francesco Barillaro in questa bella pagina, la gente diffidava di loro e proteggeva le proprie case da possibili furti, ma al contempo non aveva remore ad aiutarli, specialmente a ridosso della festa dei defunti nella quale a Piminoro essi apparivano emblemi di un valore antico, trasmesso dai padri e dalle madri antiche di Fabrizia e del Serrese, in cui povertà e carità costituivano un binomio forte e di forte valenza religiosa per la comunione dei vivi con le anime dei defunti, a torto oggi trascurato o forse dimenticato del tutto. (Bruno Demasi)
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Era già buio quando, sistemata l’ape dalla parte opposta dal muro, una fiamma azzurrognola prodotta dal carbone di “forgia” illuminava la famigliola disposta a cerchio. Subito la voce correva nei vicoli freddi e bui del paese: “vinniru li zingari...”, si controllavano gli usci se erano stati chiusi bene…, si rimaneva svegli fino a tardi... (in verità non hanno mai rubato niente). Mia madre, e le altre donne della piazza, quando era ora di cena portavano qualcosa da mangiare, qualche coperta e un dolcetto per i bambini e il vino. Loro non chiedevano niente, ringraziavano e promettevano in regalo un “tripode”. Non ho mai capito come facevano a sistemarsi per la notte, sul piccolo cassone dell’ape…
Quasi sempre il loro arrivo coincideva con i primi freddi, accompagnati spesso dalla pioggia, le folate del levante facevano ondeggiare la tenda della moto. Da bambino credevo che fossero loro a portare il freddo e la pioggia . La prima e inaspettata neve, sui piani di “Livernà”, mostrava il suo candore e le folate gelide del levante arrivavano impetuose ad annunciare una fredda e lunga notte.
Aspettavano il due novembre, quel giorno qualcuno portava loro il cibo che veniva cucinato e distribuito in paese in suffragio de defunti. Questa tradizione, come l'incanto della statua della Madonna Divina Pastora nella seconda domenica di luglio, proveniva da Fabrizia, e nei primi anni degli anni Settanta, del secolo scorso, attirò l'attenzione dell'antropologo Luigi Lombarti Satriani che così scrisse: “ Su invito della RAI, andai a Piminoro, piccolissimo centro dell'Aspromonte calabrese, per consigliare a una troupe radiotelevisiva cosa fosse più importante riprendere, da un punto antropologico, nei rituale del 2 novembre, dedicato, come si sa alla commemorazione dei defunti. Sia io che l'intera troupe televisiva fummo invitati a pranzo da una signora del luogo ( nel paese non esistevano né ristoranti né trattorie per rifocillarsi) e ci fu servito dalla stessa padrona di casa un pasto abbondante. Ai miei ringraziamenti, che sottolineavano anche il rammarico perchè si era presa tanto disturbo, la signora mi rispose che ogni anno preparava un pranzo abbondante che mandava ai poveri del paese. Quell'anno la nostra presenza di forestieri l'aveva indotta ad offrire a noi il pranzo, sempre in suffragio dei propri defunti. Tutto ciò era coerente con la cultura folklorica tradizionale secondo la quale i bambini, i poveri, i mendicanti, i forestieri possono costituire, proprio per la loro relativa invisibilità sociale, i vicari dei morti, assumere cioè il ruolo di morto e divenire così destinatari dei gesti realistici che altrimenti non potrebbero essere compiuti. In poche parole, attraverso il rapporto fra cibo e sacro è possibile approfondire quel confronto tra culture sempre più necessario data la progressiva multietnicizzazione della nostra società. Ciò che mi preme rilevare è che il cibo è essenziale alla nostra sopravvivenza, sia in senso realistico, pragmaticamente realistico (se non ci alimentiamo moriamo), sia in senso simbolico, di un diverso livello di realismo , essendo i simboli necessari per l'ancoraggio dell'uomo nella sua esistenza, nella sua società”. Di recente anche l'antropologo Vito Teti, nel suo libro “ Terra Inquieta”, Rubbettino 2015, riprende questo scritto di Satriani.
Chi scrive faceva parte della frotta di bambini che quel giorno senza posa portavano il cibo nelle case. Inutile sottolineare che questa meravigliosa e particolare forma di “contatto” con le persone care defunte, da tempo non esiste più e ha lasciato il posto all'indifferenza e al nulla.
mercoledì 9 ottobre 2024
L’ABSIDE “DEI CAPPUCCINI” A TAURIANOVA NEL PENNELLO E NEL CUORE DI NICK SPATARI ( di Bruno Demasi)
« A Parigi Il primo che incontrai fu Cocteau, andava in giro con un lunghissimo mantello grigio. Alla mia prima mostra rubò un quadro, una testa di Cristo tutta rossa, se lo mise sotto la palandrana e lasciò al suo posto un biglietto “Ho dovuto prenderlo, era troppo bello”». Era destino che il pennello di questo artista giocasse coi volti pieni di pathos della fede popolare o anche della fede colta… Ed è forse l’unica volta in cui Nick Spatari ( 1929 - 2020 ) elogia indirettamente la propria arte, che è pittorica e scultorea, che è soprattutto simbiosi con la luce e le atmosfere plastiche della sua terra di Calabria, dove nella piena maturità fa ritorno insieme alla moglie, l’olandese Hiske Maas, tuttora vivente, per realizzarvi un sogno “ Il sogno di Giacobbe” sul cocuzzolo di una collina brulla di Mammola, intorno alla quale, grazie a loro due, esplode un’ incredibile creazione artistica, il “Musaba” che il mondo intero ci invidia mandando e rimandando migliaia di persone a pardersi nelle suggestioni di un luogo irreale eppure profondamente “nostro”, profondamente radicato nel vecchio conventino abbandonato sui cui ruderi sorge.
Quando nel 1984 i Cappuccini di Taurianova chiamarono Nick Spatari a realizzare questo affresco, quasi un ponte ideale con un’altra casa cappuccina calabra, quella di Chiaravalle, dove egli stesso aveva realizzato pochi anni prima un imponente ciclo pittorico mutuato dalla Bibbia, egli aveva già al proprio attivo un’imponente e profonda esperienza artistica anche in quella che sarebbe riduttivo definire solo “decorazione” dei luoghi di culto: basti pensare al poderoso ciclo pittorico realizzato appunto nell’ antico convento di Chiaravalle, agli affreschi, ai mosaici o alle vetrate nel monastero di San Domenico a Reggio Calabria, ai numerosissimi dipinti realizzati nel santuario di San Nicodemo a Mammola, fino ai due grandi capolavori recanti significativamente i titoli di “Ultima cena” e “Golgota”, oggi mete di migliaia di visitatori nella Galleria di Arte Contemporanea di Assisi.
Opere tutte riconducibili a una smagliante bibbia dei poveri, esaltata dall’impeto pittorico di un artista che già a nove anni di età aveva vinto forse il più prestigioso premio pittorico internazionale dell’epoca e che negli anni Cinquanta e Sessanta , continuando nella sua formazione di autodidatta, si imponeva solidamente sulla scena artistica internazionale, prima di tornare a vivere nella sua amata Calabria, in quella Mammola che lo aveva visto nascere e gli aveva regalato l’amore per i sospiri di una terra stupenda e sempre fiorita nelle sue lunghissime estati annuali.
L’affresco di Taurianova , che in questo 2024 compie il suo quarantesimo anno di età, mantiene intatte le suggestioni intense della visione biblica che l’Autore ha voluto imprimergli con il suo pennello come fotografia realistica della visione descritta in Apocalisse 12: la donna e il drago. Una delle scene più maestose di questo libro conclusivo della Bibbia. La donna incinta che ha appena partorito un figlio ancora quasi avvolto nella placenta, mentre un drago rosso sangue infuria contro di lei e il suo bambino, è Maria, la madre di Cristo, secondo una tradizione artistica che in vario modo ha confermato questa interpretazione. Ma la donna può personificare anche il popolo di Dio, la Chiesa, all’interno della quale è generato il Messia. Il drago incarna invece Satana e il male, con particolare rimando forse a quelle “strutture di peccato” di cui spesso era ed è ancora impregnata la sofferente terra di Calabria.
Le atmosfere rarefatte di cielo, acque e terre mirabilmente colte dall ‘ Artista fanno il resto, completano la scena composita di quest’affresco incredibile che nelle sue volumetrie , anche prospettiche, vorrebbe quasi riunire in un solo flash sintetico tutta la complessità della visione dell’interà Apocalisse e del suo messaggio lanciato ai semplici, agli umili, ai puri di cuore e forse anche al visitatore distratto e smaliziato che, entrando in questa chiesetta quasi di campagna, resta senza fiato dinanzi a tanta bellezza inattesa.
martedì 1 ottobre 2024
SOLO LA CALABRIA DEI SANTI PUO' RISCATTARE LA TERRA DEL MALAFFARE (di Bruno Demasi)
Probabilmente pochi si sono accorti che siamo quasi giunti alla boa dei dieci anni dall'apertura del processo di beatificazione di Padre Vincenzo Idà, avvenuta in una freddissima sera di dicembre del 2014 nella cattedrale santuario di Oppido Mamertina con grande concorso di gente proveniente da Gerocarne, Anoia, Terranova Sappo Minulio e da tanti altri paesi specialmente dell’entroterra.
I dieci anni trascorsi dal suo inizio sono un soffio appena per un processo di beatificazione che costituisce, o dovrebbe costituire, una grande e commossa soddisfazione per questa terra esposta ai disonori della cronaca e allo sciacallaggio dei media. Terra capace di grandi nefandezze, ma anche di mille virtù ed eroismi Tra questi proprio la santità...!
Il processo di beatificazione di Padre Idà, dopo la santità riconosciuta in questi anni a Padre Gaetano Catanoso di RC, a Fra’ Umile da Bisignano e, più recentemente, a Fra’ Nicola Saggio da Longobardi, si aggiunge infatti a quelli in corso di Don Francesco Mottola, di Tropea, di Rosella Staltari , dei coniugi Franco Bono e Maria De Angelis, nella Locride, a quello di Natuzza Evolo e presto anche di Irma Scrugli, ancora nella diocesi di Mileto, Nicotera, Tropea.
giovedì 26 settembre 2024
ANTONIO DELFINO: UN GIORNALISTA CALABRESE MOLTO SCOMODO (di Francesco Barillaro)
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Totò Delfino si spegne il 22 settembre del 2008, dopo una lunga malattia, lasciando in eredità innumerevoli articoli, varie pubblicazioni, ma soprattutto il ricordo vivo di una persona coerente, un giornalista mosso dalla passione e dalla dignità, senza padroni, che voleva e sapeva camminare sempre a testa alta con il vento dell'Aspromonte che gli accarezzava i sogni e i capelli.
lunedì 16 settembre 2024
IL J’ACCUSE DI SALVATORE FILOCAMO : “LU PREPOTENTI NCATASTAU DINARI…” (di Bruno Demasi)
E, di rimando, chi non sa rubare , ‘ u spagnusu' – dice Filocamo, che ho avuto il grande onore di conoscere – si accontenta di vivere o di sopravvivere solo con l’odore del denaro che a stento arriva alle sue narici abituate al sudore e al tanfo della fatica che non paga e che non appaga…
Una concezione estremista – si dirà – probabilmente antitetica ai tanto decantati valori di democrazia e di divisione “ legale” della ricchezza cui lo stesso poeta della Locride aveva creduto in una stagione della sua vita.
Sicuramente una concezione disperata della nostra gente che nel corrotto o nel prepotente di turno – e a tutti i livelli – non vede tanto il disvalore da rigettare o da abbattere, quanto forse il modello da imitare, o almeno da vagheggiare e invidiare e ancora oggi…magari da votare, malgrado tutto, nel silenzio ovattato e promettente dell’urna…
Stu mundu chi criau nostru Signuri
cu la so’ menti chi non d’avi uguali,
fu criatu cu li reguli e misuri:
lu cielu, a terra, l’omu e li nimali.
Prima li beni eranu an cumuni
ca l’omini n’tra iddi eranu uguali
prìncipi non d’aia, mancu baruni
non patruni, non do’, non principali.
Lu prepotenti ‘ncatastau dinari
senza cuntu, non pisi e non misuri
e lu spagnusu, chi non seppi fari,
si cuntentau mi campa cu l’aduri.
E mo’ pi chissu nui simu spartuti
e simu ricchi e poviri chiamati:
li ricchi ‘ngurdi e di novu vistuti
li poviri addiunu e spinnizzati.
Poviri e ricchi non simu ‘cchiù frati
comu na vota nenti ‘cchiù ndi liga
non paura i diu e non caritati
lu riccu mangia e u povaru fatiga.
E vui Signuri, chi tuttu viditi
pirchi sti cosi storti i suppurtati?
Dui sunnu i cosi: o vui non ci siti,
oppuru vui di ricchi vi spagnati!
La passione per la poesia dialettale si manifestò sin dall’adolescenza, affondando le radici in una tradizione di cultura popolare che allora, molto più di oggi si respirava nell’aria. Le sue prime composizioni furono di carattere giocoso e satirico, traendo origine e spunto da episodi di vita vissuta. La prima raccolta di poesie “Ricchi e povari” è stata pubblicata nel 1975 dalla Frama Sud di Chiaravalle Centrale con la prefazione di Saverio Strati, riscuotendo un immediato successo di pubblico e di critica.