lunedì 21 ottobre 2024

NEL GIORNO DELLA SUA FESTA, ANCHE LA PIANA E L'ASPROM0NTE NEL SEGNO DI PINO PUGLISI? ( di Bruno Demasi)

    Rischia di passare ancora una volta in assoluto silenzio  la memoria festiva del Beato Pino Puglisi, ucciso il 15 settembre 1993. Passarono venti anni prima che la Chiesa e la società civile prendessero piena coscienza del significato epocale costituito da quell'omicidio in un grande evento rappresentato dalla commovente beatificazione di questo martire a Palarmo. Una beatificazione  che rappresentò indubbiamente una pietra miliare nel cammino di affrancamento di un intero Sud ( e non solo) dal cancro della mafia e della mafiosità di cui sono ancora intrise le coscienze  di tanti, forse tantissimi nei nostri paesi e nelle città del Meridione. Un cancro sommerso dalle diatribe pseudopolitiche verso il quale si registra sempre di più un opprimente silenzio bipartisan.
     Quel giorno  a Palermo, tra centomila e oltre persone accorse da ogni dove si respirava questo impaccio di restare ancora  impastoiati in un modo di pensare e di agire apparentemente innocuo e spontaneo eppure ancora sotto molti aspetti caratterizzato per noi meridionali da tanti schemi pseudomafiosi.
   
    Ci si chiede se la Piana di Gioia Tauro  il contesto aspromontano, dove questi schemi sono ancora più che mai tenaci, dove i piccoli respirano e succhiano ancora  insieme al latte materno una strana concezione della libertà e del rispetto, sia possibile formare generazioni veramente libere, capaci di impegnarsi nel lavoro e per il lavoro, nella pace e per la pace, nell'operosità e per il bene comune.
    E' quanto andava predicando con l'esemio e con pochissime parole Pino Puglisi, è quanto dopo un giorno dalla beatificazione  ribadì con coraggio Papa Francesco all'Angelus:

“I mafiosi e le mafiose si convertano a Dio”.  “Non possono fare di noi fratelli schiavi”. “Io penso a tanti dolori di uomini e donne, anche di bambini, che sono sfruttati da tante mafie, che li sfruttano facendo fare loro un lavoro che li rende schiavi, con la prostituzione, con tante pressioni sociali. Dietro a questi sfruttamenti, dietro a queste schiavitù, ci sono mafie. Preghiamo il Signore perché converta il cuore di queste persone. Non possono fare questo. Non possono fare di noi, fratelli, schiavi! Dobbiamo pregare il Signore! Preghiamo perché questi mafiosi e queste mafiose si convertano a Dio”.


      “Don Puglisi è stato un sacerdote esemplare, dedito specialmente alla pastorale giovanile. Educando i ragazzi secondo il Vangelo li sottraeva alla malavita, e così questa ha cercato di sconfiggerlo uccidendolo. In realtà, però, è lui che ha vinto, con Cristo Risorto”.
      “Il nostro Dio non è un Dio 'spray', è concreto, non è un astratto, ma ha un nome: ‘Dio è amore’. Non è un amore sentimentale, emotivo, ma l’amore del Padre che è all’origine di ogni vita, l’amore del Figlio che muore sulla croce e risorge, l’amore dello Spirito che rinnova l’uomo e il mondo. Pensare che Dio è amore ci fa tanto bene, perché ci insegna ad amare, a donarci agli altri come Gesù si è donato a noi, e cammina con noi”.


     E' lecito sperare, dunque,  senza un impegno serio e aperto delle istituzioni, della Scuola, della Chiesa, di tutte le coscienze libere un cambiamento  anche per la Piana di Gioia Tauro, per i paesi aspromontani, dove tutto, o quasi, sembrerebbe ormai immutabile, dove tutto in questi ultimi anni  sembra tornato agli anni di piombo e al silenzio più divisivo e opprimente?

sabato 19 ottobre 2024

PER IL DUE NOVEMBRE A PIMINORO ARRIVAVANO GLI ZINGARI (di Francesco Barillaro)


     
In tempi in cui ancora non erano iniziati i grandi esodi da un continente all’altro, ma imperversava il flagello dell’emigrazione che spopolava questa terra impoverendola inesorabilmente, c’era chi era più povero tra i poveri ed erano i nomadi, gli zingari. Nell’immaginario popolare essi, oltre a costituire il simbolo della precarietà della vita, impersonavano con la loro astuzia e la loro vita fatta di continui espedienti l’appartenenza a una non meglio definita dimensione magica, manifestata spesso nella pretesa della chiaroveggenza . Come osserva Francesco Barillaro in questa bella pagina, la gente diffidava di loro e proteggeva le proprie case da possibili furti, ma al contempo non aveva remore ad aiutarli, specialmente a ridosso della festa dei defunti nella quale a Piminoro essi apparivano emblemi di un valore antico, trasmesso dai padri e dalle madri antiche di Fabrizia e del Serrese, in cui povertà e carità costituivano un binomio forte e di forte valenza religiosa per la comunione dei vivi con le anime dei defunti, a torto oggi trascurato o forse dimenticato del tutto. (Bruno Demasi)
                                                                              ______
 

    Tra il 30 e il 31 ottobre di ogni anno, all’imbrunire, il rumore di una moto ape che entrava sbuffando nella piazzetta di Piminoro annunciava l’arrivo degli zingari. Il piccolo veicolo si fermava davanti alla chiesa: provenivano da Gioia Tauro. Oltre al conducente dalla piccola cabina scendeva una donna formosa con vesti larghe dai colori sgargianti, difficile immaginare come ci fosse salita… Quattro o cinque testoline spuntavano da una tenda verde e rattoppata posta sul minuscolo cassone dell’ape , occhietti neri e ciglia grandi, capelli scuri, sorridevano; una bambina più grande 10-11 anni aveva gli occhi belli e tristi, accudeva i fratellini. L’uomo, grandi baffi bianchi ingialliti dal fumo, aveva un’età indefinita tra i cinquanta e i settanta anni: pantaloni e gilet neri di velluto , cappello scuro con un vistoso nastro rosso, scrutava il tempo guardando la direzione del fumo della “esportazione senza filtro” che stringeva tra dita le giallastre e in base al vento sceglieva il posto dove sistemarsi. Se il vento proveniva dal mare, il muro della casa di Giusi Porcaro era l’ideale, mentre se i cirri minacciosi del levante adombravano il Serro della Guardia, il posto sicuro era lo spiazzo all’angolo della fontana.

  La data del loro arrivo non era casuale: tra pochissimo sarebbe giunta la festa di Tutti i Santi e subito dopo la ricorrenza della commemorazione dei defunti e ogni persona in paese era più generosa ad offrire un dono “pi ll’anima di li muarti”. Altro particolare non trascurabile i raccolti erano terminati e nei “catoja” vi era il ben di Dio: patate, fagioli, zucche, noci, castagne vino e olio, alimento ricercatissimo.

    Era già buio quando, sistemata l’ape dalla parte opposta dal muro, una fiamma azzurrognola prodotta dal carbone di “forgia” illuminava la famigliola disposta a cerchio. Subito la voce correva nei vicoli freddi e bui del paese: “vinniru li zingari...”, si controllavano gli usci se erano stati chiusi bene…, si rimaneva svegli fino a tardi... (in verità non hanno mai rubato niente). Mia madre, e le altre donne della piazza, quando era ora di cena portavano qualcosa da mangiare, qualche coperta e un dolcetto per i bambini e il vino. Loro non chiedevano niente, ringraziavano e promettevano in regalo un “tripode”. Non ho mai capito come facevano a sistemarsi per la notte, sul piccolo cassone dell’ape…

  L’indomani, la mamma, con i bambini più grandi faceva il giro del paese scambiando i piccoli arnesi: palette, tripodi, attrezzi necessari per il camino con i prodotti che la gente offriva. Al ritorno del giro disponevano quanto raccolto in sacchi di iuta, l’olio veniva sistemato in un capiente recipiente di latta. All’imbrunire la famigliola si riuniva, attorno al fuoco, per la cena, quasi sempre a base di patate, non mancavano le regalie per i fanciulli: latte, zucchero e biscotti.


     Quasi sempre il loro arrivo coincideva con i primi freddi, accompagnati spesso dalla pioggia, le folate del levante facevano ondeggiare la tenda della moto. Da bambino credevo che fossero loro a portare il freddo e la pioggia . La prima e inaspettata neve, sui piani di “Livernà”, mostrava il suo candore e le folate gelide del levante arrivavano impetuose ad annunciare una fredda e lunga notte.

   Aspettavano il due novembre, quel giorno qualcuno portava loro il cibo che veniva cucinato e distribuito in paese in suffragio de defunti. Questa tradizione, come l'incanto della statua della Madonna Divina Pastora nella seconda domenica di luglio, proveniva da Fabrizia, e nei primi anni degli anni Settanta, del secolo scorso, attirò l'attenzione dell'antropologo Luigi Lombarti Satriani che così scrisse: “ Su invito della RAI, andai a Piminoro, piccolissimo centro dell'Aspromonte calabrese, per consigliare a una troupe radiotelevisiva cosa fosse più importante riprendere, da un punto antropologico, nei rituale del 2 novembre, dedicato, come si sa alla commemorazione dei defunti. Sia io che l'intera troupe televisiva fummo invitati a pranzo da una signora del luogo ( nel paese non esistevano né ristoranti né trattorie per rifocillarsi) e ci fu servito dalla stessa padrona di casa un pasto abbondante. Ai miei ringraziamenti, che sottolineavano anche il rammarico perchè si era presa tanto disturbo, la signora mi rispose che ogni anno preparava un pranzo abbondante che mandava ai poveri del paese. Quell'anno la nostra presenza di forestieri l'aveva indotta ad offrire a noi il pranzo, sempre in suffragio dei propri defunti. Tutto ciò era coerente con la cultura folklorica tradizionale secondo la quale i bambini, i poveri, i mendicanti, i forestieri possono costituire, proprio per la loro relativa invisibilità sociale, i vicari dei morti, assumere cioè il ruolo di morto e divenire così destinatari dei gesti realistici che altrimenti non potrebbero essere compiuti. In poche parole, attraverso il rapporto fra cibo e sacro è possibile approfondire quel confronto tra culture sempre più necessario data la progressiva multietnicizzazione della nostra società. Ciò che mi preme rilevare è che il cibo è essenziale alla nostra sopravvivenza, sia in senso realistico, pragmaticamente realistico (se non ci alimentiamo moriamo), sia in senso simbolico, di un diverso livello di realismo , essendo i simboli necessari per l'ancoraggio dell'uomo nella sua esistenza, nella sua società”. Di recente anche l'antropologo Vito Teti, nel suo libro “ Terra Inquieta”, Rubbettino 2015, riprende questo scritto di Satriani.


    Chi scrive faceva parte della frotta di bambini che quel giorno senza posa portavano il cibo nelle case. Inutile sottolineare che questa meravigliosa e particolare forma di “contatto” con le persone care defunte, da tempo non esiste più e ha lasciato il posto all'indifferenza e al nulla.
                                                                                                          Francesco Barillaro

mercoledì 9 ottobre 2024

L’ABSIDE “DEI CAPPUCCINI” A TAURIANOVA NEL PENNELLO E NEL CUORE DI NICK SPATARI ( di Bruno Demasi)

  Taurianova deve molto ai suoi Padri Cappuccini. Certamente non soltanto la vita di un convento, e della chiesa annessa, impregnati della  fede e del commovente attaccamento di tutta la gente , ma anche un' imponente e struggente opera artistica poco conosciuta che all’ epoca della sua realizzazione  suscitò il mecenatismo di tanti: l’affresco dell’intera parete di fondo dell’abside ad opera di Nick Spatari, uno dei più significativi artisti calabresi e internazionali del Novecento e dei primi due decenni di questo secolo, formatosi, tra l’altro, nella Parigi dei Cocteau, dei Picasso, di Max Ernst.

   « A Parigi Il primo che incontrai fu Cocteau, andava in giro con un lunghissimo mantello grigio. Alla mia prima mostra rubò un quadro, una testa di Cristo tutta rossa, se lo mise sotto la palandrana e lasciò al suo posto un biglietto “Ho dovuto prenderlo, era troppo bello”». Era destino che il pennello di questo artista giocasse coi volti pieni di pathos della fede popolare o anche della fede colta… Ed è forse l’unica volta in cui Nick Spatari ( 1929 - 2020 ) elogia indirettamente la propria arte, che è pittorica e scultorea, che è soprattutto simbiosi con la luce e le atmosfere plastiche della sua terra di Calabria, dove nella piena maturità fa ritorno insieme alla moglie, l’olandese Hiske Maas, tuttora vivente, per realizzarvi un sogno “ Il sogno di Giacobbe” sul cocuzzolo di una collina brulla di Mammola, intorno alla quale, grazie a loro due, esplode un’ incredibile creazione artistica, il “Musaba” che il mondo intero ci invidia mandando e rimandando migliaia di persone a pardersi nelle suggestioni di un luogo irreale eppure profondamente “nostro”, profondamente radicato nel vecchio conventino abbandonato sui cui ruderi sorge.

  Quando nel 1984 i Cappuccini di Taurianova chiamarono Nick Spatari a realizzare questo affresco, quasi un ponte ideale con un’altra casa cappuccina calabra, quella di Chiaravalle, dove egli stesso aveva realizzato pochi anni prima un imponente ciclo pittorico mutuato dalla Bibbia, egli aveva già al proprio attivo un’imponente e profonda esperienza artistica anche in quella che sarebbe riduttivo definire solo “decorazione” dei luoghi di culto: basti pensare al poderoso ciclo pittorico realizzato appunto nell’ antico convento di Chiaravalle, agli affreschi, ai mosaici o alle vetrate nel monastero di San Domenico a Reggio Calabria, ai numerosissimi dipinti realizzati nel santuario di San Nicodemo a Mammola, fino ai due grandi capolavori recanti significativamente i titoli di “Ultima cena” e “Golgota”, oggi mete di migliaia di visitatori nella Galleria di Arte Contemporanea di Assisi. 


   Opere tutte riconducibili a una smagliante bibbia dei poveri, esaltata dall’impeto pittorico di un artista che già a nove anni di età aveva vinto forse il più prestigioso premio pittorico internazionale dell’epoca e che negli anni Cinquanta e Sessanta , continuando nella sua formazione di autodidatta, si imponeva solidamente sulla scena artistica internazionale, prima di tornare a vivere nella sua amata Calabria, in quella Mammola che lo aveva visto nascere e gli aveva regalato l’amore per i sospiri di una terra stupenda e sempre fiorita nelle sue lunghissime estati annuali. 

    L’affresco di Taurianova , che in questo 2024 compie il suo quarantesimo anno di età, mantiene intatte le suggestioni  intense della visione biblica che l’Autore ha voluto imprimergli con il suo pennello come fotografia realistica della visione descritta in Apocalisse 12: la donna e il drago. Una delle scene più maestose di questo libro conclusivo della Bibbia. La donna incinta che ha appena partorito un figlio ancora quasi avvolto nella placenta, mentre un drago rosso sangue infuria contro di lei e il suo bambino, è Maria, la madre di Cristo, secondo una tradizione artistica che in vario modo ha confermato questa interpretazione. Ma la donna può personificare anche il popolo di Dio, la Chiesa, all’interno della quale è generato il Messia. Il drago incarna invece Satana e il male, con particolare rimando forse a quelle “strutture di peccato” di cui spesso era ed è ancora impregnata la sofferente  terra di Calabria.

   Le atmosfere rarefatte di cielo, acque e terre mirabilmente colte dall ‘ Artista fanno il resto, completano la scena composita di quest’affresco incredibile che nelle sue volumetrie , anche prospettiche, vorrebbe quasi riunire in un solo flash sintetico tutta la complessità della visione dell’interà Apocalisse e del suo messaggio lanciato ai semplici, agli umili, ai puri di cuore e forse anche al visitatore distratto e smaliziato che, entrando in questa chiesetta quasi di campagna, resta senza fiato dinanzi a tanta bellezza inattesa.

Bruno Demasi

martedì 1 ottobre 2024

SOLO LA CALABRIA DEI SANTI PUO' RISCATTARE LA TERRA DEL MALAFFARE (di Bruno Demasi)

                  IL PROCESSO DI BEATIFICAZIONE DI PADRE VINCENZO IDA'
 
    Probabilmente pochi si sono accorti che siamo quasi giunti alla boa dei dieci anni dall'apertura del processo di beatificazione di Padre Vincenzo Idà, avvenuta in una freddissima sera di dicembre del 2014 nella cattedrale santuario di Oppido Mamertina  con grande concorso di gente proveniente da Gerocarne, Anoia, Terranova Sappo Minulio e da tanti altri paesi specialmente dell’entroterra.
 
      Fu un'occasione rarissima per la chiesa e per la società  della piana di Gioia Tauro, onorate e premiate da tanta grazia impalpabile,  di fermarsi a riflettere a lungo sul binomio santità - austerità che esclude a priori ogni forma di compromesso, di vanità e  di esibizione, ogni uso magniloquente e ambiguo della parola in cerimonie fini a se stesse che poco o nulla hanno a che fare con l'evangelizzazione, sempre più urgente, di questo territorio.  Padre Vincenzo  fu l'antitesi, appunto, di ogni forma di esibizione e fece dell'umiltà silenziosa e operosa  la bandiera del suo ministero. Fu  sacerdote! E con molti anni di anticipo rispetto ai documenti del Vaticano II  precorse  in maniera incredibilmente lucida la necessità di una rievangelizzazione di cui oggi in tanti ci si riempie la bocca, ma che negli anni Trenta o Quaranta del secolo scorso era di là da venire anche nei contesti ecclesiali meno tradizionalisti.

  La straordinarietà della sua  visione, la profetica idea di riscattare i poveri con il Vangelo  fu molto presto confermata dai progetti e dai documenti del Vaticano II, se è vero che  egli già  nel 1939 (appena a 30 anni di età) fondava infatti la Congregazione delle Suore Missionarie del Catechismo e nel 1950 ( a 41 anni di età e addirittura dieci anni prima del Concilio) la Congregazione dei Padri Missionari dell’Evangelizzazione. 
     Era nato a Gerocarne, oggi in provincia di Vibo Valentia, nel 1909 da famiglia di contadini, di cui gli rimase sempre l’habitus austero e ironico, semplice e serio, avvezzo a fatiche di ogni genere, ma anche capace di grandi progetti. Un imprinting, diremmo oggi, che recava le stigmate della serietà e generosità di intenti  con le  quali, insieme al silenzio operoso,   si misura davvero la grandezza del vero profeta, come lo definisce ben a ragione Padre  Rocco Spagnolo già suo biografo ufficiale e oggi suo successore  nel ministero di guida della congregazione maschile da lui fondata.
 
     Già giovanissimo, dopo essere stato ordinato sacerdote, diventava parroco in Anoia Superiore, in quella piana di Gioia Tauro devastata ancora dal latifondo, minata dall’analfabetismo, dalla fame, dalla malaria e dalla ndrangheta.  Il suo fervore missionario ebbe dunque come culla queste contrade, ma presto traboccò nel Messico dove personalmente si recò ad aprire le prime missioni, con una speciale predilezione per i poveri e gli emarginati dei quali il vasto campionario esistente nella nostra terra evidentemente non gli bastava.  Nel 1984, mentre si trovava in visita alla missione di Oaxaca in Messico, riceveva il premio eterno per le sue fatiche immani. Il suo corpo veniva traslato nella Casa Madre delle Suore in Anoia Superiore, dove oggi si venera.
  
    La sua azione evangelizzatrice divampò in maniera incredibilmente rapida ed efficace: la chiarezza dell'annuncio, la forza e la semplicità nella proposta evangelizzatrice, oggi perpetuate dai membri attuali della Congregazione che ha il suo centro in Terranova Sappo Minulio, furono e sono decisive,  tanto che oggi le  due congregazioni sono presenti in tutti i continenti.
 

    I dieci anni trascorsi dal suo inizio sono  un soffio appena per  un processo di beatificazione che costituisce, o dovrebbe costituire,  una grande e commossa soddisfazione per questa terra  esposta ai disonori della cronaca e allo sciacallaggio dei media. Terra capace di grandi nefandezze, ma anche di mille virtù ed eroismi   Tra questi proprio la santità...!
   Il processo di beatificazione di Padre Idà, dopo la santità riconosciuta in questi anni a Padre Gaetano Catanoso di RC, a Fra’ Umile da Bisignano e, più recentemente, a Fra’ Nicola Saggio da Longobardi, si aggiunge infatti  a quelli in corso di Don Francesco Mottola, di Tropea, di Rosella Staltari , dei coniugi Franco Bono e Maria De Angelis, nella Locride, a quello  di Natuzza Evolo e presto anche di Irma Scrugli, ancora nella diocesi di Mileto, Nicotera, Tropea.
   Una pioggia abbondantissima di benedizioni per un popolo preda di tanti, tantissimi soprusi,in gran parte legalizzati, ma avvezzo a lottare ed evidentemente anche a pregare, forse in silenzio e...senza ostentazione!

giovedì 26 settembre 2024

ANTONIO DELFINO: UN GIORNALISTA CALABRESE MOLTO SCOMODO (di Francesco Barillaro)

   

     Era figlio del maresciallo Giuseppe Delfino di Platì, immortalato da Corrado Alvaro col nome con cui peraltro tutti lo conoscevano, “Il massaro Peppe”, e da lui, che si vantava di percorrere a dorso di mulo le balze dell’Aspromonte alla ricerca di latitanti, aveva forse ereditato il gusto di inseguire la notizia e di essere presente immancabilmente là dove accadeva qualcosa che sicuramente avrebbe acceso ancora una volta i riflettori nazionali sull’Aspromonte. Lo ricordo impaziente  di sapere e curioso quando veniva a Oppido da Bovalino, dove esercitava il mestiere di preside, e immancabilmente mi telefonava per acquisire informazioni o il modo per procurarsele di prima mano: era giornalista nel sangue, sanguigno nell’uso della parola, uomo di scuola, ma anche intellettuale inedito, sprezzante delle patacche , dei convegni e di tutte quelle occasioni mondane che in fondo servono solo a ibernare la vera cultura o a mascherare quella che vera non è. Era soprattutto calabrese, Totò Delfino, innamorato della sua terrra alla quale non risparmiò mai l’aceto pungente della verità brutale che le sparse sempre sulle ferite insieme al miele della commozione e dell’affetto profondo. Il ritratto inedito, sobrio e stringato, tracciato da Francesco Barillaro gli rende davvero giustizia anche attraverso due testimonianze di prima mano: la storia dell’intervista al rocambolesco  Angelo Macrì da Delianuova e un breve resoconto dell’ammirazione espressagli più volte da Saverio Strati. (Bruno Demasi)

__________

    “ Francesco dell'Aspromonte mi porto addosso il vento e la nebbia dello Zillastro, al Cristo sparato mi affido ogni volta che valico questo passo, di notte o di giorno, qui cominciano e terminano le emozioni”. Queste le parole pronunciate, ai piedi del Crocifisso, l'ultima volta che ci siamo visti. L'appuntamento era per le 10,00, arrivo' puntuale sorridente, come sempre, alto e distinto con la sua voce profonda e inconfondibile; la stretta della mano, nel tempo, non era cambiata: vigorosa e sincera. Totò Delfino , era nato a Platì nel 1934, il padre Giuseppe era il famoso maresciallo dei carabinieri “ Massaru Peppi” le cui gesta furono ricordate da Corrado Alvaro ( Il Canto di Cosima), Mario La Cava ( Tra i latitanti dell'Aspromonte) e Saverio Strati ( Massaru Peppi ). Giornalista pungente e senza padroni, ha scritto innumerevoli articoli in diverse testate nazionali e regionali: L'Europeo , Il Giornale, La Gazzetta del Sud . E' stato docente e Preside dell'Istituto Professionale di Stato per il Commercio “Corrado Alvaro” di Bovalino, dove viveva. Consigliere e assessore provinciale, alla pubblica istruzione.

    Tra i tanti riconoscimenti che gli furono tributati pur non avendoli mai cercati  spicca il premio di giornalismo a Palmi nel 1995 intestato a Domenico Zappone. Schietto, ironico, mai banale, diretto. Questi i tratti che hanno caratterizzato i suoi scritti. Totò Delfino giornalista, scrittore, un signore d'altri tempi. Scrutava con lo sguardo i suoi interlocutori, possedeva un fiuto ( forse un “vizio” di famiglia...) che lo portava a vedere le cose prima degli altri, trasmetteva sicurezza e fiducia, come quando riesce, negli anni Ottanta del secolo scorso, a farsi rilasciare un'intervista da Angelo Macri' (U Maricanejiu)“ L'ultimo re dell'Aspromonte” che fu condannato all'ergastolo, a soli venti anni, per l'uccisione in un bar di Delianuova ( 2 settembre 1951) del maresciallo comandante la locale stazione dei Carabinieri Antonio Sanginiti e di un'altra persona del paese aspromontano. Si diede poi alla macchia: lo credevano tutti nascosto in Aspromonte, invece venne ammanettato in America e il 21 febbraio del 1956, con i ferri ai polsi, sbarcò dal transatlantico “Andrea Doria” . Dopo 30 anni di galera a Portolongone , rimesso in libertà, Angelo Macrì si stabilisce a Genova e in un bar della riviera ligure, dopo lunghe trattative Delfino sente Angelo al telefono che gli dice: “ Prufissuri: 'U si scrivi a 'me storia nci voli ‘na bona manu....” . “ Tenterò – risponde Delfino - Vi facevo più vecchio...”. “Carciri non mangia genti - rispose Angelo”. E raccontò tutta la sua storia: “Sapiti, diversi giornalisti, anche di testate importati, mi hanno cercato a lungo e con insistenza... offrendomi anche tanti soldi, ma ho preferito parlare con Voi, mi ispirate fiducia....” Angelo saldò il conto del ristorante senza pretendere alcun compenso per l'intervista. Quando Totò Delfino mi ricordava questo episodio, diveniva subito particolarmente orgoglioso del suo lavoro, almeno quanto lo fosse per l’ammirazione espressa nei suoi confronti da Saverio Strati, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita.

  Strati era molto amico di Antonio Delfino, si stimavano tantissimo. Quando nel maggio 1987 esce “Gente di Calabria” , Editoriale progetto 2000, Strati ne cura la presentazione. Fu subito un successo editoriale, tanto che a settembre dello stesso anno esce la seconda edizione, poi una terza a febbraio del 1988. Nella presentazione Strati, tra l'altro, scrive: “Delfino ha la virtù di farsi leggere più come scrittore che come giornalista ligio alla fredda cronaca. In lui la curiosità è sempre più forte che il bisogno di registrare una notizia. L'insieme degli articoli di Antonio Delfino è come la tastiera di un pianoforte su cui basta pigiare il dito per sentire una nota musicale; e una nota dopo l'altra nasce una sorta di concerto corale dentro il quale è dominante l'anima di un popolo, nel bene e nel male. La povertà, l'ironia, la violenza mafiosa, la stupidità, sono tutte queste cose i pregi e i difetti registrati con onesta sincerità da un uomo che crede nei valori della cultura e dell'intelligenza”.
    Non posso chiudere questo breve  ricordo, senza citare alcune altre  opere di Antonio Delfino che hanno fatto la storia recente della nostra letteratura. Nel 1994 esce, sempre per editoriale progetto 2000, “ Amo l'Aspromonte” un omaggio alla montagna che amò in modo smisurato. Il libro, dedicato al fratello Francesco, controverso Generale dei Carabinieri, diviso in piccoli capitoli narra tra l'ironico e il reale la storia della nostra montagna. Nel 1999 pubblica con Nosside Edizioni “ A Polsi con Alvaro sui sentieri dell'Anima”, con la presentazione di GianCarlo Bregantini, Vescovo di Locri-Gerace. Nel 2000, per Falzea Editore, viene pubblicato “ l'Aspromonte” , libro fotografico con una bella copertina che ritrae Pietra Kappa e numerosi e ricercati testi.

    Menzione a sé stante merita “ La Nave della Ndrangheta” uscito nel 2005 per Klipper edizioni, un concentrato di racconti appassionati e suggestivi, di medaglioni sui principali avvenimenti che hanno interessato la Calabria negli ultimi cinquant'anni. Ma non solo. Chi sa e vuole leggere con l'attenzione che un libro del genere richiede non tarderà ad apprezzare le coraggiose prese di posizione che hanno sempre contraddistinto l'attività giornalistica e culturale di Delfino, sempre pronto a combattere per l'affermazione della verità. Anche o soprattutto quando ciò significava  criticare, contestare, prendere posizione contro le istituzioni, sollecitare a non attardarsi in inutili e dannose “circunnavigazioni” verbali e semantiche. Secondo Pietro De Leo, docente all'Università della Calabria , i suoi studi sull'Aspromonte sono “da collocarsi tra i classici dell'analisi sociologica del Mezzogiorno d'Italia”. L'ultima fatica letteraria è del 2008, “ Il raglio dell'asino” - Nuove Edizioni Barbaro di Caterina Di Pietro - libro ironico, ma contenente amare verità tratte dagli articoli pubblicati negli anni in diverse testate giornalistiche.


  Totò Delfino si spegne il 22 settembre del 2008, dopo una lunga malattia, lasciando in eredità innumerevoli articoli, varie pubblicazioni, ma soprattutto il ricordo vivo di una persona coerente, un giornalista mosso dalla passione e dalla dignità, senza padroni, che voleva e sapeva camminare sempre a testa alta con il vento dell'Aspromonte che gli accarezzava i sogni e i capelli.

                                                                                                             Francesco Barillaro

 

 

 

lunedì 16 settembre 2024

IL J’ACCUSE DI SALVATORE FILOCAMO : “LU PREPOTENTI NCATASTAU DINARI…” (di Bruno Demasi)

 
   A quarant'anni dalla  scomparsa di Salvatore Filocamo non  si può fare a meno di ricordare uno dei poeti in vernacolo più grandi e genuini  della nostra terra, che ha lasciato un gran segno nella letteratura calabrese sia per la sua vena poetica assolutamente fuori dal comune sia per lo spontaneo e quasi incredibile  rigore metrico con cui egli  dava vita alle sue composizioni. 
     Filocamo  è sicuramente il  più lucido cantore  della  nostra civiltà contadina nella quale non c’è distinzione tra ricco e ladro: nell’immaginario popolare i grandi beni si acquistano solo col latrocinio, non esiste la santa opulenza che per i Calvinisti è premio di Dio, ma esiste la ricchezza soltanto come frutto della prevaricazione, del furto, del raggiro, della prepotenza.
    E, di rimando, chi non sa rubare , ‘ u spagnusu' – dice Filocamo, che ho avuto il grande onore di conoscere – si accontenta di vivere o di sopravvivere solo con l’odore del denaro che a stento arriva alle sue narici abituate al sudore e al tanfo della fatica che non paga e che non appaga…
    Una concezione estremista – si dirà – probabilmente antitetica ai tanto decantati valori di democrazia e di divisione “ legale” della ricchezza cui lo stesso poeta della Locride aveva creduto in una stagione della sua vita.
    Sicuramente una concezione  disperata della nostra gente che nel corrotto o nel prepotente di turno – e a tutti i livelli – non vede tanto il disvalore da rigettare o da abbattere, quanto forse il modello da imitare, o almeno da vagheggiare e invidiare e ancora oggi…magari da votare, malgrado tutto, nel silenzio ovattato e promettente dell’urna…
   Un capolavoro, questa lirica accorata, dalla quale qualche anno fa i Mattanza hanno ricavato un altro grandissimo capolavoro che mi piace riportare a corredo di questa pagina   di memoria...
        
 RICCHI E POVARI

           Stu mundu chi criau nostru Signuri          
cu la so’ menti chi non d’avi uguali,
fu criatu cu li reguli e misuri:
lu cielu, a terra, l’omu e li nimali.

Prima li beni eranu an cumuni
ca l’omini n’tra iddi eranu uguali
prìncipi non d’aia, mancu baruni
non patruni, non do’, non principali.

Lu prepotenti ‘ncatastau dinari
senza cuntu, non pisi e non misuri
e lu spagnusu, chi non seppi fari,
si cuntentau mi campa cu l’aduri.

E mo’ pi chissu nui simu spartuti
e simu ricchi e poviri chiamati:
li ricchi ‘ngurdi e di novu vistuti
li poviri addiunu e spinnizzati.

Poviri e ricchi non simu ‘cchiù frati
comu na vota nenti ‘cchiù ndi liga
non paura i diu e non caritati
lu riccu mangia e u povaru fatiga.

E vui Signuri, chi tuttu viditi
pirchi sti cosi storti i suppurtati?
Dui sunnu i cosi: o vui non ci siti,
oppuru vui di ricchi vi spagnati! 
 
       Francesco Salvatore Filocamo  nacque a Siderno Superiore in provincia di Reggio Calabria, il 9 gennaio 1902, da famiglia contadina. Nel 1933, per consentire ai propri figli di proseguire gli studi e offrire loro così un futuro migliore, si trasferì con la famiglia a Locri (allora ancora Gerace Marina), lavorando  alle dipendenze di varie ditte private. A Locri ha vissuto una tranquilla vecchiaia, circondato dall’affetto della sua famiglia, sebbene rattristata dall’immatura scomparsa, nel 1972, della «cumpagna fidili», ispiratrice e consolatrice degli anni duri, con la quale ha sempre condiviso dolori e gioie ed a cui sono dedicate gran parte delle sue poesie, dalla tenue vena elegiaca. 
                                            
      La sua esperienza terrena si è conclusa  nel  settembre del 1984.
     La passione per la poesia dialettale si manifestò sin dall’adolescenza, affondando le radici in una tradizione di cultura popolare che allora, molto più di oggi si respirava nell’aria. Le sue prime composizioni furono di carattere giocoso e satirico, traendo origine e spunto da episodi di vita vissuta. La prima raccolta di poesie “Ricchi e povari” è stata pubblicata nel 1975 dalla Frama Sud di Chiaravalle Centrale con la prefazione di Saverio Strati, riscuotendo un immediato successo di pubblico e di critica. 
      La maggior parte della sua produzione è sparsa su giornali e riviste.. Nel 2014 è stato pubblicato da Pancallo Editore  il volume “Voci e valori del mio tempo” (Opera Omnia) a cura di Ugo Mollica e della figlia dell’autore Iolanda Filocamo.