domenica 7 luglio 2024

RESTARE CALABRESI COME SAVERIO STRATI A 100 ANNI DALLA SUA NASCITA (di Bruno Demasi)

    La parabola umana di Saverio Strati, che il 16 di agosto 2024 avrebbe compiuto cento anni, lo portò a vivere la parte conclusiva della sua esistenza, culminata dieci anni fa, in Toscana, ma l’anima calabrese lo distinse sempre in maniera indelebile. Non è una banalità ed occorre dirlo e ribadirlo: essere Calabresi senza campanilismi sciocchi è un imprinting culturale inconfondibile che induce ad essere testimoni di un passato e di un presente che ti permeano le ossa, che ti fanno parlare senza calcoli e pudori di sorta, che ti fanno amare la verità a tutti i costi.

    Di questa spontanea “battaglia culturale personale” che anima tantissimi Calabresi veri, mai disponibili ad immolare la propria libertà per un piatto di lenticchie, Saverio Strati oltre che grande narratore  è appunto emblema. E in questa precisa dimensione mi piace ricordarlo al di là delle tante celebrazioni per il secolo dalla sua nascita che certa cultura ufficiale, che in vita gli negò tutto, oggi forse gli tributerà su tanti improbabili podi politici di cui ridondano le scene culturali nostrane.

          Ad alcuni di noi Calabresi che aborriscono ogni esibizione, che abbiamo amato e additato ad esempio a tante generazioni la sua prosa tagliente e misurata, pedagogica e non stucchevole, rivelatrice e non superba, preme soltanto ricordare per chi lo avesse dimenticato che fu proprio Strati a parlare per primo di ‘ndrangheta nel 1956 in un’opera letteraria, intitolata “La Marchesina” e poi nel romanzo più celebre, “Il selvaggio di Santa Venere”, con cui per la prima volta un Calabrese vinceva nel 1977 il premio Campiello. Vi descrisse formule, ritualità ed efferatezze dei clan calabresi in un’epoca in cui l’universo ndranghetistico non era affatto conosciuto e la stessa parola che lo definiva non veniva pronunciata o scritta da nessuno, tantomento dagli scrittori, se si eccettua Corrado Alvaro che nel 1955 sulle colonne del Corriere della Sera aveva parlato del fenomeno: «Per la confusione di idee che regnava fra noi a proposito di giustizia e d’ingiustizia, di torto e di diritto, di legale e di illegale, per gli abusi veri e presunti di chi in qualche modo deteneva il potere, non si trovava sconveniente accompagnarsi con un ‘ndranghitista».

      Quattro anni prima di morire  ricevette una laurea ad honorem dalla Facoltà di lettere e filosofia dell' Università della Calabria. Non  trovò  la forza di affrontare il viaggio fino a Cosenza, ma  in una lettera indirizzata al preside pro-tempore, Raffaele Perrelli, ebbe a dire di esserne  molto lieto «perché questa attenzione viene dalla terra che è stata il riferimento ininterrotto delle mie riflessioni e dei miei scritti. E oggi vorrei aggiungere: delle mie attese e delle mie speranze». «Ma oggi – sottolineava lo scrittore – i miei pensieri non sono inclini all’ottimismo. Eppure sarebbe un grave errore abbandonarci al compiacimento per i nostri successi personali e alla rassegnazione degli altri». Nella parte conclusiva della lettera poi con la sua abituale chiarezza si augurava  che la Calabria nel futuro  «avrà la possibilità di sottrarsi a questo destino di emarginazione e di disagio se ci sarà l’impegno di più generazioni, partendo dalla scuola e dall’università, per tradurre in normali atti quotidiani il rispetto di se stessi, che incomincia col rispetto degli altri, in particolare dei più fragili e dei più bisognosi».  A distanza di quasi quindici anni è possibile affermare che  il mondo universitario calabrese  in qualche modo ha fatto tesoro di questo augurio; quello della scuola invece, a parte pochissime isole felici,  decisamente no!

   Non ritengo necessario  aggiungere altro per questo breve e commosso ricordo di Saverio Strati, tantomeno  elencarne le opere, di cui  comunque voglio riportare qui tutte le copertine dei libri che possiedo e che amo, né recensire a posteriori e in modo stucchevole la sua  produzione letteraria  della quale  forse si dirà tutto e il contrario di tutto in quei salotti letterari e in quelle manifestazioni poco partecipate che servono solo a riseppellire i veri scrittori. Voglio invece celebrarlo e ricordarlo con estrema semplicità con le sue stesse parole, sconosciute ai più, e sperare ardentemente  che una volta tanto le scuole calabresi facciano un pensierino per dedicare ad esse almeno un ritaglio di dieci minuti, magari soltanto  in margine ai tanti progetti didattici e formativi che oggi si rincorrono affannosamente tra i banchi: 
 
   Io sono contento ogni volta che di me scrivono “il calabrese” o quando addirittura mi danno del calabrese. Sono orgoglioso di essere calabrese davanti a chiunque, perchè ho la piena coscienza di aver compiuto qualcosa… Una delle prime volte che capitai a Milano nella sede della Mondadori, negli anni ’50, un dirigente settentrionale che ra stato in vacanza in Calabria mi disse: “Voi calabresi siete dei veri uomini: dei saggi, la vostra parola conta di più di un atto notarile”. Io rimasi fuor di me dalla gioia a sentir dare questo giudizio così positivo della nostra gente, di noi tutti.

    Non siamo stati capaci, credo questo sia il nostro limite, di creare lavoro.
    Non siamo dei creatori di lavoro. Siamo rimasti dei contemplativi. Nel passato questo era un pregio, oggi veramente è un difetto che definirei drammatico. […] Bisogna imparare a usare la mente insieme alle mani. Avere capacità di iniziativa privata. Se non siamo capaci di avere questa iniziativa imprenditoriale, se non saremo capaci di creare lavoro, è inutile sperare che venga lo Stato a crearcelo. […] Il lavoro dobbiamo crearlo noi. Qualsiasi tipo di lavoro onesto. Può essere quello agricolo o quello turistico. Quello turistico potrebbe essere attivo in tutte le stagioni, quaggiù. […] E’ sul turismo che bisogna puntare: fare un turismo intelligente e competitivo: ché se qui mi fanno pagare 100 mila lire per una camera e pensione e a Cattolica o a Viareggio ne pago 70 mila, bé in questo caso me ne vado a Cattolica o in Versilia dove sono tanti più attrezzati, dove ci sono più divertimenti.


   A molti la mia scrittura dà parecchio fastidio. Tanto meglio per me e tanto peggio per loro. Quando mi danno del selvaggio e del lazzarone non lo riferiscono alla mia persona, ma al mondo che esprimo. Essere lo scrittore dei lazzaroni e dei selvaggi mi fa piacere, perchè vuol dire che ho centrato un mondo-problema, un mondo-idea. I miei personaggi sono personaggi-problemi. Non sono personaggi con la carta di identità in tasca, con un reddito annuo, con relazioni col mondo degli affari o col mondo delle cortigiane. Sono creature che si affacciano alla storia e che capiscono che anche loro ne possono fare la loro parte, da protagonisti e non più da servi. A chi non intende questo, i miei libri non piacciono. Non interessano infatti alla piccola borghesia che si nutre di storielle di coppie che si cornificano fra di loro.


  Il mio centro del mondo, come Recanati era il centro del mondo per Leopardi. Ogni cosa che io riesco a immaginare, in ogni cosa che io devo scrivere e ambientare, c’è quel pezzo di terra e quel pezzo di mare che mi stanno sempre davanti, che sono sempre dentro di me. Poi magari si può allargare e diventare Firenze, Milano, Zurigo, Francoforte, il mondo, ma il centro vero, il punto focale e vitale, la matrice è lì. Il vero unico personaggio che vive una sua vita autonoma, che si muove con padronanza è proprio quel pezzo di terra. Un buco di pochi chilometri quadrati della Calabria più povera, un pezzetto sperduto dell’estremo Sud d’Italia, un paesino al confine dell’Europa Mediterranea. tanto che io potrei esclamare: Sempre caro mi fu quest’eremo colle...