giovedì 5 luglio 2018

UN AMORE PIZZICATO

 di Giuseppe Vivace

    Se non fosse riduttivo, e per certi versi stucchevole, fare confronti e parallelismi eruditi , dopo la lettura di questo libro – che è immediata e ristoratrice come un abbondante boccale di buona birra bevuto d’un fiato – la mente correrebbe al linguaggio di Raymond Carver e alla parte migliore della scrittura minimalista U.S.A. , ma anche al Pavese de “La bella estate” o forse anche a una pagina giornalistica senza aggettivi, nella quale attraverso un linguaggio essenziale e scarno fino allo sfinimento , affiorano paure, dubbi, domande e soprattutto tante storie che si intersecano in un tessuto narrativo monolitico. Intensissimo.
    Un nuovo minimalismo volutamente diverso da quello accademico e patinato che ha imperversato per decenni nelle librerie d’Oltre Atlantico e poi in quelle europee e persino in quelle italiche, un modo di scrivere e di pensare fortemente radicato nella tradizione letteraria italiana e in quella “Geografia delle radici” che magari fa ritrovare la Calabria più vera sui navigli milanesi , dove l’Autore reggino oggi vive, perfettamente inserito nel sano tessuto produttivo della città,  o nelle rote di tarantella improvvisate in Piazza della Borsa o in altri luoghi carismatici  di Milano.
      La Milano delle feste clandestine e delle esistenze provvisorie e libere che cercano disperatamente di riscattare un tempo di povertà sociale dalla cappa plumbea del perbenismo da un lato e della precarietà della vita dall’altro. Quelle feste clandestine che dalla musica live , dal suo tessuto etnico, dalle danze improvvisate che ruotano intorno alla Pizzica (l’antonomasia della taranta e delle danze locali del Sud) ricavano metodo ed energie rinnovabili per continuare a vivere la dimensione delle proprie radici e del proprio passato in un presente e in un futuro poco probabili.
    Da qui forse, da questa dimensione descrittiva, il titolo di questo romanzo, che quella grande e finissima ostetrica che è la casa editrice “La città del sole” di RC ha curato con amore per la stampa, ma anche dal contenuto narrativo che vede poi i protagonisti, tutti “pizzicati”, catturati, presi di sorpresa, costretti a tornare in Calabria per una storia brevissima, tumultuosa, illuminante.
    In fondo il fenomeno ndrangheta e i suoi meccanismi e tutto ciò che ruota attorno ad essi non hanno bisogno di molte parole e di molte illustrazioni per essere compresi fino in fondo. E Giuseppe Vivace ce lo dimostra in pochissime battute, tutte al presente, senza concitazioni letterarie, senza metafore e giri di parole. Quasi un riassunto infastidito e sofferto di una vicenda di una malattia storica e sociale che ci sporca, che non fa parte del DNA di questa terra, ma che ne ha preso possesso ormai come una famiglia pervasiva di zecche della peggiore specie.

   E lo comprendi più con una di queste poche pagine che attraverso mille tomi di sociologismo e di giornalismo di maniera, il più delle volte solo  servizievoli verso la politica al potere e di potere... (Bruno Demasi)
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    ... Pepe era arrivato alle 22,00. Aveva posato il suo carico di musica e vestiario in un angolo e aveva iniziato a mettere ordine nei piani della serata.
    Pepe è una di quelle persone che ispira positività, appena lo vedi pensi “di questo mi posso fidare”.
   Ha vissuto un adolescenza senza madre, morta di cancro quando lui era ancora bambino ed è cresciuto con il padre e la nonna. Ha studiato lettere all’Università Statale e adesso fa l’insegnante di sostegno in una scuola media. Viveva con suo padre che fa il pensionato delle poste. Pepe ha avuto un amore per tanti anni, Barbara, sua collega di scuola.
   Sono stati fidanzati quasi 6 anni. Lui era attaccatissimo e dopo la rottura di quella storia, che sembrava destinata a non finire mai, lei si era trasferita in Calabria dove adesso viveva con suo marito e un figlio piccolo. Non si sentono né si vedono più da allora e anche se adesso tutto è passato, la ferita della separazione, in Pepe, non si è mai rimarginata.
   Lui che aveva immaginato la sua vita insieme a lei è rimasto toccato nel vivo da questa amara conclusione.
   Da allora nessuna storia importante lo aveva preso e la sua passione si era riversata di fatto sulle danze e sui balli popolari, dove adesso c’era un pezzo importante della sua vita.
   Lara viveva nel pavese con i suoi tre gatti. Aveva viaggiato molto; l’India, in particolare, l’aveva stregata. Là aveva trovato il suo amore, un ragazzo che era con lei nel gruppo di viaggiatori e da allora era nata una bella storia che soffriva però la distanza visto che il suo compagno era a Londra dove insegnava matematica all’Università.
   Da quando si erano conosciuti con Pepe, un paio di anni fa, a Bergamo in una delle prime feste, dava una mano a organizzare le serate ed era lei, Lara, che apriva le danze quasi sempre.
   In questa sera che prende oramai il decollo, Pepe tira fuori una cartina e il tabacco per farsi una sottile sigaretta. Mentre la accende e ne tira una prima boccata concentrandosi lentamente sul sapore del tabacco, una smorfia di amaro si disegna sul suo volto ed il fumo respirato aleggia nella spazio vicino tracciando strane forme che si disperdono da lì a poco nell’aria.
   Alterna le tirate di sigaretta con un sorso di latte freddo che beve in una tazza di alluminio, sua immancabile compagna di feste. Il suo latte “fa strano” rispetto alle altre tante bottiglie di vino messe sul tavolino che serviranno a riscaldare questa tiepida serata di Aprile.
   Sul tavolo anche il sacchetto trasparente di tarallucci che Lara prepara sempre con le sue mani... 

   La festa clandestina è fatta di musiche popolari, quelle del Nord Italia che sconfinano nelle Alpi francesi e quelle del Sud Italia, tipicamente le Pizziche, le Tammurriate e le tarantelle Calabresi. A volte queste feste si fanno anche separate per genere musicale, evitando di mischiare il nord con sud.
   A Pepe piaceva però tenere dentro tutto, in fondo la radice popolare di quella musica la caratterizzava indipendentemente dalla provenienza geografica.
   In quel momento suona una danza popolare del nord, una Scottish. È questa una danza meno intima e più giocosa rispetto alla mazurka francese. I movimenti sono scanditi dagli strumenti in modo quasi didascalico ma ci sono tante variazioni. Uno due, uno due, uno due tre e quattro, è il tempo.
   Le coppie aumentano man mano in pista.  Lara balla con Gino, un ragazzo che gira sempre in questi eventi. Lui studia storia e arriva dalla Brianza. Balla molto bene dopo un periodo di iniziazione durato più di un anno.
   I due volteggiano con grazia e leggerezza nella piazza sempre più affollata di gente.
   Angelo sta fumando le sue sigarette e sorseggia un bicchiere di vino; sembra distratto. Guarda tutti senza che il suo volto cambi espressione nei tanti sguardi ricambiati.    Lui è fatto cosi, ha lo sguardo marmoreo, lo ha sempre avuto.
   Innocenti e caldi abbracci chiudono una danza che coinvolge in qualche modo corpo e anima. È un popolo che balla, come direbbe Jovanotti, anche quella sera a Milano.
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   Pepe ha pensato tutta la notte a questa partenza anche lui è convinto che lei sia là. Sa che deve avvicinarsi a quella terra e sente che deve e può fare qualcosa, anche se è molto combattuto. Ha maturato un’idea rispetto al rapimento, che adesso impegna non poco la sua mente.
   Prendono una macchina a noleggio, una station-wagon bianca, che viene caricata con qualche borsa per bagaglio. Si immettono sulla strada verso la Calabria, dentro ci sono tre uomini e tanti pensieri. Il viaggio è silenzioso, non c’è musica, non ci sono parole, solo grande affetto e legame tra persone che condividono un’amicizia forte e tanta preoccupazione. 

    Pepe legge i giornali dei giorni passati che riportano la vicenda ricostruendo la vita e la professione del padre di Lucia e legano inevitabilmente il rapimento alla sua attività. Prova a trovare qualche indizio più preciso. Fanno qualche ipotesi ma non si avventurano più di tanto nella vicenda.
   Pepe ha in testa un suo piano ma lo tiene solo per lui, troppo rischioso condividerlo adesso con qualcuno, persino con i suoi amici più stretti. È una cosa peraltro che farebbe riaffiorare forti e dolorose ferite anche se adesso è questo un aspetto secondario.
   I tre fissano una meta, puntano su Lamezia Terme, dove arrivano che è quasi sera. La meta non è stata scelta a caso, fa parte del piano di Pepe, anche se gli amici non conoscono precisamente il motivo. Trovano un motel vicino alla stazione e contrattano il prezzo: una camera in tre, 80 euro al giorno compresa la colazione. Si sistemano ed escono da li a mezz’ora a mangiare qualcosa. Trovano nei dintorni una pizzeria: “da Rino”. L’insegna è un po’ ingiallita dagli anni, l’ambiente è molto spartano. Solo due tavoli con un po’ di ragazzi. Ordinano tre margherite e tre birre chiare.
   Il proprietario che è anche il piazzaiolo, sembra non badare a questi tre nuovi clienti che entrano in quella serata di una estate qualunque nel suo locale....