giovedì 25 aprile 2013

SE E’ VERO CHE EVANGELIZZARE LA PIANA SIGNIFICA ANCHE RISCATTARE UNA GENTE ABBANDONATA A SE STESSA DALLE ISTITUZIONI CIVILI...

di Bruno Demasi

     Nel clima festoso ( per chi ancora ci tiene almeno un po’) della Festa della Liberazione sorge  la domanda di sempre: riscattare una terra, una gente – quella della Piana – dal sopruso, dall’intrigo mafioso e non, dall’abbandono sociale e culturale è possibile anche attraverso una sana opera di rievangelizzazione?
     E, per contro, evangelizzare significa  anche da  queste parti avere a cuore il superamento della nuova barbarie in cui, per tanti versi, scade quotidianamente  questa terra nel silenzio distratto o addirittura complice di tante  espressioni istituzionali e non?
     Riflettiamo  con umiltà ... sulle orme  di Paolo e con un occhio alla nostra Costituzione.
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    E’ evidente che la nuova evangelizzazione della Piana   non può ridursi a un “risanamento” etico pianificabile a tavolino , essa, piuttosto, va realizzata da persone  disponibili, senza interessi personali e senza riserve, a testimoniare la novità redentrice dei Risorto di fronte a coloro che, pur avendola già sperimentata, l’hanno dimenticata e davanti a coloro che, non essendo riusciti ancora a recepirne l’an­nuncio, non la conoscono.
    Dunque , se  evangelizzare è  compito dei “movimenti ecclesiali ” operanti sulla Piana ( una percentuale irrisoria di  battezzati, cui spesso nelle parrocchie o si tarpa la voce o si delega  semplicisticamente, per pigrizia,  tutto l’annuncio) e  in generale dei laici fedeli al loro laicato e non in cerca di scimmiottare o addirittura di pensare di sostituirsi al clero, compito è  anche e soprattutto di coloro che continuano la missione evangelizzatrice, che fu prima di Cristo stesso e poi dei Dodici e dei loro più intimi collaboratori: i presbiteri  “apostoli per vocazione ” (cf.  Rm 1, 1 ).
     E’ proprio dei presbiteri l’annuncio del Vangelo e la presidenza nella celebrazione dei sacramenti, la quale fonda pure la loro irrinunciabile presidenza nella carità pastorale.  Questi ministeri del presbitero non sono separati e contrapposti, ma intimamente coerenti.  Per cui i sacramenti — soprattutto l’Eucarestia, che è “ fonte e culmine di tutta l’evangelizzazione” (Presbyterorum  ordinis, 5) –, che proclamano e riattualizzano la Pasqua del Signore, altro non sono che la forma più pregnante in cui la Parola che salva si realizza nella vita della Chiesa e di ciascun suo membro. In altri termini, come in molti sottolineano, baste­rebbe questa considerazione per far risaltare che il presbitero è, costitutivamente, un arte­fice essenziale della nuova evangelizzazione in seno alla comunità ecclesia­le; il suo ministero di “liturgo” sembra il massimo grado di (ri)evangelizzazione, sem­pre nuova e salvifica, che ricorda continua­mente ai cristiani di essere dei salvati in Cri­sto Gesù.
     Ma un tale “profilo” del presbitero evangeliz­zatore esige una permanente verifica e un costante confronto con i “connotati” di coloro che, “apostoli per vocazione”, furono i primi evangelizzatori. Qui ci piace riferirci soprattutto a Paolo, il primo evangelizzatore di queste terre, con cui peraltro inizia l’evangelizzazione dell’Eu­ropa e di cui sorprende sempre la modernità nella comunicazione e nell’annuncio.
     Ad Atene, ad esempio, egli  tiene il discorso dell’areopago  davanti a persone che hanno solo una vaga credenza nella divinità e che confidano nelle filosofie più in voga .  Paolo svela loro l’identità del “Dio ignoto”, procla­mando il Vangelo del Risorto: “Quello che voi non conoscete, io ve lo annuncio” (At 17,23).  Ma lo fa con discrezione e secondo le catego­rie neotiche e terminologiche di quei pagani, avvertendo nella loro indefinita religiosità una sorta di inquietudine, un anelito alla VeritàE tuttavia senza irenismo culturale, perchè      l’irenismo e il clericalismo, da qualunque parte provengano, restano i mali sottili che impediscono o ritardano o inquinano una sana opera di rievangelizzazione , come sovente accade nella nostra Piana.
     Paolo sa che la novità del Cristo non può essere argomen­tata, ma semplicemente narrata e testimonia­ta. Ciò nonostante fallisce; ma non disarma.  Anzi, il fallimento di Atene lo conferma nella convinzione che ai nuovi interlocutori la Buona Novella dev’essere annunciata in tutta la sua apparente stoltezza, così come ai Giudei essa è proclamata in tutta la sua por­tata di scandalo. Uno scandalo o una insi­pienza che non può essere stemperata  con gli orpelli retorici della sapien­za fine a se stessa (cf. 1 Cor 1,17-2,7) o con l’allestimento di eventi “religiosi” fini a se stessi.
   Paolo resta fedele all’annuncio che sente di dover fare ad ogni costo: “Tutto io faccio per il Vangelo” (1 Cor 9,23).  Privo di ogni interesse che non sia quello di “predicare gratuitamente il Vangelo”, egli annuncia la novità evangelica, in modo sempre nuovo, alle varie categorie di persone che incontra: “coloro che sono sotto la legge”, “coloro che non hanno legge”, “coloro che sono deboli” (Tre categorie di persone particolarmente presenti nella nostra terra).  E, lungi da ogni trasformismo tornacontistico e da ogni camaleontica ipocri­sia, egli si fa compagno di strada di tutte que­ste persone: si sottopone alla legge, si procla­ma un senza legge, si fa debole e servo di tutti (cf.  1 Cor 9,18-22). 
      L’esperienza  di Paolo coincide, ancora oggi, a dispetto dei secoli trascorsi, con l’esperienza del presbitero operatore della nuova evangelizzazione anche  nella Piana: in un’epoca in cui la cultura ( o quel che ne resta) sembra aver dimenticato anche dalle nostre parti  le sue radici cristia­ne e di aver conosciuto Dio e il suo Amore, il prete deve ancora evangelizzare, proclaman­do la Verità di cui vive — ma che non possie­de da se stesso — e offrendola umilmente come dono gratuito a tutti.  In questo senso il suo stile di vita deve arricchirsi di due carat­teristiche apostoliche e missionarie impre­scindibili: la parresia. ossia la franchezza, l’audacia, l’abnegazione, l’entusiasmo (cfr. la asthéneia, ossia la debolezza del servo fedele in cui parados­salmente può operare la potenza di Dio (cf. 2 Cor 12,10).
    Da buon “ministro”, il presbitero evangelizzatore non si limita a fungere da gestore del sacro e di regista di eventi più o meno esteriori, ma compie una vera diaconìa nel nome di Cristo Gesù: attingere dalla giara e versare nelle coppe di chi ha veramente  sete , non solo nelle coppe di chi fa anche carte false per sedersi  ai primi posti nelle nostre “sinagoghe”.