lunedì 16 giugno 2025

LA PIZZATA DI SANT ' ANTONIO ( di Gianfrancesco Solferino)

      La cronaca minimale di un 13 giugno contemporaneo a Fabrizia? No! La narrazione in presa diretta di un atto di devozione che diventa prodigio di quella restitutio fidei di cui siamo tutti affamati? Nemmeno! E’ “solo” il racconto fuori da ogni schema letterario di un momento trascorso a Fabrizia ai piedi dell”Avvocato” il Santo di Padova che ogni 13 giugno torna a percorrere (quasi) tutte le strade e i tratturi più poveri della Calabria dispensando a chi ne ha bisogno la sua parola di incoraggiamento e di pace. E’ il santo dei grandi, ma soprattutto dei “ piccoli”, coloro che non hanno parole per difendersi, per implorare, per chiedere. E Lui ne fa dono misteriosamente a tutti... e insieme al pane della Parola , il pane della Fede, il pane della speranza , ma anche il pane più rustico di tutti, impastato di granturco e sudore, la "pizzàta" 
      Non ho aggettivi per qualificare ( o forse guastare)  questa pagina di Gianfrancesco Solferino, nata non a caso nella povertà di un paese, nel quale localizzo spesso la memoria sconosciuta dei miei avi, nel lirismo di una giornata e di un’ora davvero speciali. Una pagina  pronta a fiorire immediatamente e a dare i suoi imprevedibili  frutti  nel cuore di chi la legge. (Bruno Demasi)
                                                                           ________________
                                                              
                                                                              
    Una giornata strana e tormentata quella di venerdì 13 giugno 2025. Avrei dovuto (e voluto) fare molte cose che immancabilmente - anche questa volta! - sono saltate. Tutto è diventato così faticoso, così difficile. Mah! 

    Mentre rientravo a casa con estremo ritardo (lambiccandomi il cervello su qualcosa di caloricamente "innocuo" da mettere in tavola) ho immaginato che in questo assolato giorno di festa avrei trovato la chiesa aperta e, soprattutto, vuota. Così è stato.

   Zitto zitto, in un'imbarazzante penombra, ho fatto visita a Sant'Antonio, coperto di fiori come un divo hawaiano, circondato da ex voto, rosari, "ciancianegli", bomboniere, disegni di bambini e tanti, tanti gigli bianchi. Nulla ho pensato, nulla ho detto, certo del fatto che talune affinità elettive non hanno bisogno di parole.

      Ma sporgendomi sui cestini del pane lasciati a disposizione dei fedeli mi sono accorto che di pane neanche le briciole erano rimaste! "E vabbè - ho detto tra me - anche oggi non avrò pretesti per consumare i tanto temuti carboidrati. Pazienza!"

    Lasciando la chiesa pensavo, però, che per la prima volta in vita mia nessuno, ma proprio nessuno, si era ricordato di lasciarmi da parte un panino benedetto. Amara considerazione non sui carboidrati (evitati) ma sull'ormai inevitabile desertificazione dell'anima che ha bandito dal pensiero degli amici (o sedicenti tali) coloro i quali sono lontani dagli occhi e soprattutto dal cuore. Amen e così sia!

     Oggi mi sono ritrovato nuovamente pellegrino sulle strade di Fabrizia, tra le giogaie boscose delle Serre, le case macchiate di abbandono e le pietre antiche di un paese pedemontano che meritò il titolo di "piccola Padova delle Serre di Calabria". Qui, infatti, il culto verso Sant'Antonio da secoli è radicato e continua a intridere di straordinario fascino la chiesa madre fabriziese, un vero "santuario" della pietà antoniana.

    In queste occasioni è sempre bello ritrovare gli amici del luogo e quelle persone che ti fanno sentire comunque a "casa tua", anche quando, camminando davanti ai piedi degli affaticati portatori del Santo, nessuno ha l'ardire di allontanarti. Qui sei uno di loro! La strada è stata veramente tanta, lunga ed emozionante soprattutto laddove case e luoghi ti ricordano pagine di una storia asprissima e difficilmente cancellabile, come le alluvioni che hanno funestato Fabrizia ripetutamente nel XX secolo.

   Non posso più proseguire. Debbo congedarmi dal volto settecentesco del mio dolce Avvocato che mi guarda assorto e severo nel suo abito minoritico. 
   
   "Ciao Tonino. Ti ho lasciato una lista lunghissima di urgenze. Giacchè non hai segretari, men che meno usate avvalervi di cancellieri negli spazi infiniti dell'alma Magione, ho deposto ai tuoi piedi molte richieste, una in particolare urgentissima. La luce dorata del tramonto, che vince il colore olivastro del tuo incarnato facendolo brillare di soprannaturale bellezza, mi induce a pensare che presto perorerai ciò che ti chiedo. Tanto lo so. Le "pratiche" sei abituato a leggerle tra le nostre lacrime. Le nostre implorazioni sono più che superflue, precorri ogni cosa e, attraverso Dio, tutto ti è noto... Dai, Tonì, non tardare, ti prego...".

   Tra la folla brulicante mi avvio verso la macchina ma la voce di un amico mi ferma. "Già te ne vai?". "Si, Mimmo, purtroppo è tardi". Da una busta Domenico Demasi, amico fraterno che vive con spontanea affabilità il suo essere fabriziese, mi porge due "pizzate", i piccoli pani che le donne del paese impastano solo con il lievito madre e la farina di mais rosso. "Grazie Mimmetto, grazie...". Il cuore ospitale di un amico diventa strumento per un dono semplice, squisito quanto... commovente. Il panino che non ho potuto provare il 13 giugno si è materializzato tra le mie mani, segno di una carità che si fa amicizia, condivisione, fraternità.

   Storie di quotidiana tenerezza che solo Antonio di Padova sa concretizzare nella vita di quanti hanno il cuore e le mani aperti... 
Gianfrancesco Solferino

 

mercoledì 11 giugno 2025

A 45 ANNI DALL’UCCISIONE DI PEPPE VALARIOTI ( di Maria Lombardo )



    Non so se sia un caso, ma anche questo  11 giugno 2025 ci si stupisce che  ricorrano insieme l’ anniversario della morte di Enrico Berlinguer (il  quarantunesimo) e quello dell’uccisione di Peppe Valerioti (il quarantacinquesimo), ma è certo che anche queste coincidenze, questi tasselli dimenticati della storia vanno incastonati al posto giusto per poterne cogliere le mille sfaccettature e per poter comprendere che ogni evento non è affatto casuale. Di Peppe Valarioti, mio collega di studi ed amico indimenticato, ho già scritto una pagina rievocativa su questo blog qualche tempo fa, ma stavolta è Maria Lombardo che si occupa doverosamente di ricordarlo ancora  ai giovani calabresi di buona volontà, cioè a coloro che non hanno traguardi di partito e di cariche da guadagnare, ma solo il desiderio puro di raccontare alle nuove leve distratte di questa terra quanto faticoso e drammatico sia stato l'affrancamento (almeno parziale) dalla servitù  dai  poteri oscuri (Bruno Demasi).  
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  Peppe Valarioti, giovanissimo professore di Lettere e segretario del PCI di Rosarno muore sicuramente per mano mafiosa esattamente 45 anni fa. Con molto rammarico mi chiedo come mai lo Stato non abbia più ricordato questo importante figlio di quella Calabria che ancora ci viene raccontata genericamente come terra insanguinata, terra di mafia, terra di cui ogni primato doveva e forse deve essere ancora in negativo. E' proprio in questa terra che però questa storia dimenticata  ritorna sempre più prepotentemente a distanza di moltyo tempo  grazie al ricordo di chi conosceva questo giovane  che  ha speso la vita per gli altri, per gli ultimi.
 
        La sua  vicenda umana e polittica si svolge in anni molto particolari, quando la Piana viene irrorata di fiumi di denaro: il pacchetto Colombo, il Quinto Polo Siderurgico, ennesima cattedrale nel deserto, favorendo così la crescita delle’ndrine che aumentavano i loro introiti e il potere.  Il Governo in quel periodo asseriva di voler creare 7500 posti di lavoro in Calabria, le risposte dello Stato però tardavano ad arrivare e alla voce del popolo stanco e affamato si unì anche quella di Peppe, un fine intellettuale, con la passione per l’archeologia che, assieme a Natale Pagano e Lellè Solano, aveva contribuito a rinvenire i pezzi più belli della grecità medmea, convinto che l’impegno politico fosse  prerogativa fondamentale dell’uomo di cultura e che l’impegno antimafia fosse  a sua volta il fine e l’inizio dell’attività politica.
     
    Insegnava dei valori, Peppe, quelli che probabilmente oggi non si insegnano più nelle scuole, neanche attraverso le danarose manifestazioni pro legalità o le piogge sovrabbondanti di denaro del Pnnr. Era l'epoca in cui il  movimento antimafia in Calabria cominciava a far paura quando asseriva con forza che valori inalienabili come la casa, la scuola ed un salario erano un diritto e non un favore da chiedere. E Valerioti non esitava ad alzare chiara e forte la propria voce in nome di questi ideali.

     La notte tra il 10 e l’11 giugno dell ’80  stava celebrando con i compagni di partito una vittoria politica dopo una campagna elettorale infuocata . La linea scelta da Valarioti a quelle elezioni era stata premiata dopo essersi speso a viso aperto contro i mille soprusi che viveva quotidianamente persino nel quartiere di Rosarno in cui viveva., senza scorta e senza spalle istituzionali, lasciato solo dallo Stato. Viene ucciso all’uscita da un ristorante dopo una serata trascorsa a festeggiare insieme ai compagni mentre lascia il locale e raggiunge la sua auto per fare ritorno a casa. Si sentono i colpi di lupara, tutti corrono al suo capezzale. Morirà tra le braccia di Giuseppe Lavorato, che poi diventerà sindaco di Rosarno. «Mi spararu, mi spararu» sussurrò Peppe.

   E’ stato il primo omicidio politico in Calabria, una sorta di battesimo di sangue per un rampante politico attento ai diritti di braccianti, studenti e, perchè no, allo sviluppo socio culturale della Piana dove  il crimine manteneva pieni e quasi esclusivi  diritti. La politica di Valarioti era un impegno quotidiano, consapevole che da  qualche anno la ‘ndrangheta aveva iniziato a estendere le sue sottili infiltrazioni nel mondo delle istituzioni, cercando in ogni modo possibile contatti col potere, quello marcio, quello della politica che si svende ed è svenduta
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    Non era certo quella la politica per Valarioti: dovunque ci fossero possibilità e volontà, per la ‘ndrangheta, di sottrarre il presente alla Calabria egli cercava di opporsi. Lo faceva anche tra i suoi perchè, secondo lui, c’erano “ troppi compagni distratti, troppo”. Erano gli anni di Enrico Berlinguer, dell’austerità e della questione morale. Anche per Valarioti bisognava avere le “mani pulite”, più pulite degli altri e a quel tempo un minimo “sgarro” o ruberia era penalizzato fortemente dal partito: altri tempi!.
   
    Questa è verità storica, ma non giudiziaria, come documentano Danilo Chirico e Alessio Magro nel loro libro edito da Round Robin “Il Caso Valarioti". Al delitto  seguirono  moltissimi  anni di processi senza però arrivare a una  conclusione chiara. Il caso Valarioti è così forse destinato all’oblio.  Un  caso  presto chiuso infatti,      ma che  non resterà  mai tale  per le migliaia di Calabresi onesti e intransigenti  che ancora ricordano e ricorderanno!
 
                                                                                                                                                                                                                                                                           Maria Lombardo 

mercoledì 4 giugno 2025

UN ENIGMATICO PRETE DELLA DIOCESI DI OPPIDO NEL ‘600 TRA CARCERI E SCOMUNICHE E IL VESCOVO VINCENZO RAGNI ( di Rocco Liberti )

    Affiorano dopo quattro secoli, grazie allo spirito indomito di ricerca di Rocco Liberti e alla lungimiranza documentaria di Andrea Pesavento, le incredibili vicissitudini di un prete secolare della diocesi di Oppido nel Seicento sotto l’episcopato di Vincenzo Ragni. Lo sfondo di questa storia, che ha davvero del romanzesco, sono la Calabria, la chiesa calabra nel suo insieme, e , in particalare,  la diocesi di Oppido del Seicento , un periodo che genericamente viene classificato come quello della dominazione spagnola, caratterizzato da grandissime sofferenze demografiche, economiche e sociali. Epoca comunque di  accesi contrasti baronali aggravati da inenarrabili carestie e pestilenze , che raggiungono il loro acme a metà secolo quando decimano letteralmente la popolazione . E se è vero che le grandi famiglie baronali agli inizi del secolo presentano già i primi segni di grave decadenza e il dissesto finanziario si ripercuote sulla popolazione con un’imposizione tributaria soffocante, è anche vero che la Calabria rimane per tutto il secolo una regione letteralmente inaridita e soffocata dalla feudalità su cui fa leva apertamente  il Regno di Napoli. La vicenda  drammaticamente vera di questo prete, narrata in modo avvincente  e  documentata qui magistralmente da Rocco Liberti, si staglia proprio sull’ultimo scorcio del ‘600, quando la miseria dovuta a gelate, inondazioni e al terremoto del 1693, è direttamente proporzionale all’aumento degli intrighi feudali e nobiliari che non risparmiano neanche le chiese locali oppresse dalla povertà, ma soprattutto dai veleni che non sempre i vescovi riescono a prevenire o a bloccare. (Bruno Demasi)
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     Parecchio tempo fa girando in internet mi sono imbattuto nella esposizione d’interessantissimi documenti relativi alla vita oppidese del ‘600. N‘è stato propositore lo studioso e autore di tantissime pubblicazioni a carattere storico Andrea Pesavento di Bassano del Grappa pervenuto a Crotone per motivi di lavoro. Nella città ionica ha dapprima costituito e diretto il Centro di Servizi Culturali per la Cassa del Mezzogiorno. Quindi, appassionato ricercatore, si è dato a setacciare l’Archivio di Stato e da questo ha tirato fuori documenti di prima mano sul territorio, che di seguito ha affidato al web, dove tutti hanno la facoltà di accedervi. Tra le tante carte è sortito fuori un malloppo interessante l’antica Oppido e la vita in diocesi soprattutto in ambito ecclesiastico. Quanto ricavato è stato in successione riproposto sul sito “Hagia Agathè” da Bruno Demasi oppidese, che gliene aveva fatto richiesta ( cfr cliccando qui: Tra carceri e scomuniche, Oppido alla fine del Seicento -  di Andrea Pesavento) . All’epoca avevo pensato di visionare il tutto e d’indagare in proposito. Perciò ho chiesto al Pesavento i fogli originali, dato che certi toponimi non erano stati letti in modo esatto. Per uno che non è della zona non è sempre facile captarli e, cortesemente e senza frapporre indugio alcuno, me li ha fatti avere. Non so perché in breve ho abbandonato l’idea. È vero, al tempo avevo grossi problemi familiari e non ero in situazione davvero agevole, ma, superata ogni cosa e, dovendo coprire la giornata solo con studi, tanto per dire con un usuale frase mi accingo ora a riprendere in mano la penna.

    L’1 maggio del 1680 ci troviamo a Roma nel palazzo del Sant’Officio, dove d. Giuseppe Barone[1], figlio di Pietro Paolo, di Terranova fa la sua brava deposizione in presenza del rev. Fra Alberto Mugiasca. Questi (1635-1694), predicatore e commissario di quell’importante ufficio a Roma proprio all’epoca, l’anno dopo sarà promosso a vescovo di Como. Il nostro Barone, dell’età di circa 31 anni, è un sacerdote secolare ch’è stato detenuto per due anni e oltre nelle carceri di Oppido. Di seguito le sue dichiarazioni. 
 
  Domenica 11 luglio 1677 si trovava nella chiesa matrice di Terranova a servire Mons Vescovo che, in cotta e barretta bianca, stava celebrando la messa cantata quando è stato arrestato. Nell’immediato il di lui padre è accorso in aiuto ed è riuscito a ferire lo sbirro Francesco Chatti. I due si sono dati subito alla fuga e Barone figlio è riuscito a rifugiarsi nella chiesa di S. Maria del Soccorso, che apparteneva ai Padri Agostiniani. Questi al momento erano tutti presenti. C’erano il priore generale Fr. Francesco da Terranova e fra Girolamo da Reggio, quindi d. Domenico Morabito e Domenico Lauria. Ma è risultato tutto vano in quanto nella stessa mattinata è stato posto agli arresti dal Barricello laicale un varapodiese di nome Domenico Capoferro alias Giaccale o Giacchettella e condotto a Oppido. Tra gli sbirri figurava presente anche un oppidese, Giuseppe alias lo murco, cioè il monco. Il malcapitato è rimasto due giorni nelle carceri del palazzo vescovile dette “La Speranza”, quindi dagli stessi sbirri uniti ad altri è stato “posto nella fossa di un carcere sotterra dove si cala con una fune trenta braccia in circa sotto terra e quivi sepellito con manette e ferri e ceppi a piedi”. In tal luogo, dove è stato ritenuto ben 15 giorni, il cibo gli veniva calato con una corda azionata da un argano. Trascorso il segnalato periodo, si è presentato un caporale conosciuto come Andrea (?) Tigane e sempre a mezzo di corda e argano è stato tirato fuori. Lasciato con la sola camicia e un paio di calzoni, scalzo e privo di cappello, gli sono state legate le mani dietro la schiena e in tal guisa lo si è avviato a Santa Cristina. Qui erano presenti l’abbate Ven. Clemente[2], D. Carlo Mazzapica[3] e Antonio Musitano. Da tal luogo è stato portato a Oppido e fatto passare dalla strada pubblica fino a giungere alla casa del Vicario Generale, che al tempo era d. Marcello Zerbi[4]. Erano presenti D. Lorenzo Grillo[5], Francesco Grillo[6], Cello (di certo Marcello) Zerbi, Michele Grillo, Francesco Grillo e tutta la città di Oppido. È rimasto esposto sotto il portico della stessa per un’ora, quindi con un paio di scarpe dategli per carità lo si è indirizzato di bel nuovo a Terranova. Sul luogo c’erano D. Orazio Spina[7], Scipione Papalia, Blasio Garonfolo, Antonio Moretto, Antonio Luvarà, d. Giovan Andrea Rossi e tutti i padri celestini. Prima di entrare in paese si è provveduto a togliergli le scarpe e lo si è fatto transitare davanti al monastero di Santa Caterina, luogo di residenza del vescovo. Il popolo ha protestato per sì inumano e indegno trattamento, vero e proprio affronto a un sacerdote, ma il Ragni, ch’era al balcone e ha visto tutto, non ha battuto ciglio. Fatto riposare una mezzora sulla pubblica piazza, per ordine di quegli dagli stessi sbirri è stato spogliato, legato e indirizzato a Monteleone. 

    In cammino per questa città, superate le due miglia, gli sono stati concessi un giuppone, scarpe e calze, quindi il cappello. La notte lui e la folta scorta l’hanno trascorsa in aperta campagna nella cosiddetta piana di Sant’Antonio. L’indomani mattina, ritrovandosi a sei miglia dal luogo di arrivo, si è fatto avanti un uomo a cavallo. Detto era stato inviato dal cognato Luigi Drago. Dato il caso, il Caporale ha permesso anche a lui di cavalcare, quindi gli ha legato le mani davanti, mentre prima le portava dietro. Che ti fa allora il nostro Barone? Subito ne approfitta e parte lancia in resta. Riavutisi dalla sorpresa, i birri, intimandogli di fermarsi, gli hanno tirato addosso due colpi di archibugio. Non dandosene per inteso, il malcapitato ha continuato nella corsa fino a raggiungere Francica, nella cui chiesa dell’Annunziata si è rifugiato. Non era ancora ora di pranzo e gli sbirri, intanto sopraggiunti, hanno chiesto ai francicani di acciuffarlo, ma, come dice, “hebbero delle buone mazziate”. Per combinazione in atto si trovava ad effettuare la sacra visita il vescovo diocesano (era allora Ottavio Paravicino), che subito ha inviato il proprio Barricello per arrestarlo e tradurlo a Mileto. Il povero Barone in due giorni aveva coperto 35 miglia di strada a piedi. Trovandosi in Mileto, si era fatto ormai il 28 luglio, ha fatto tenere al vescovo di quella diocesi un memoriale con il quale lo veniva a supplicare a fine di farlo restituire alla propria chiesa. Il tramite è stato il cognato Drago e il prezzo da pagare lo si è fissato in 25 ducati, ma, nonostante il versamento di 11 zecchini e la consegna di 5 libbre di seta al fratello dell’Ordinario, che n’era garante, non si è addivenuto ad alcunchè di fatto. Il presule ha dichiarato che non poteva farci nulla e che il suo collega di Oppido lo aveva avvisato che quegli era stato arrestato per fatti che rientravano nella competenza del Sant’Ufficio. A Mileto purtroppo non è che si mostrassero più umani. Il poveretto è rimasto nelle locali carceri per tutto agosto, settembre e parte di ottobre “con ceppi e ferri, et una notte col collare di ferro”, quindi con la scorta di 40 uomini armati, tutti preti di Messa eccettuatine 4 o 5 ch’erano secolari, è stato riportato nella fossa di Santa Cristina. Qui è rimasto altri cinque mesi e, dice lo stesso, “Dio solo mi ha mantenuto per miracolo vivo, poiché non vi era ne letto, ne paglia, anzi vi nasceva l’acqua e senza veder luce e con i ferri a piedi in pane et acqua”. Il vescovo aveva fatto affiggere alla porta del castello una scomunica riservata al Papa indirizzata a colpire quanti avessero rivolto la parola all’arrestato o gli avessero fornito robbe da mangiare.

    Giudicando un tale comportamento una vera crudeltà è allora intervenuto il padrone dello stato, il Principe di Cariati Spinelli. Era Carlo Filippo I (1641-1728) V° conte di Santa Cristina e dal gennaio 1678 I° di Oppido. Tolto dalla fossa proprio all’inizio della quaresima del 1678, il povero prete è stato trasferito, come dice, con l’accompagnamento di 30 uomini a cavallo e con una fune quasi si fosse trattato di un cane ad Arena, posto che distava 50 miglia, dopo aver attraversato montagne e fiumi. Ad Arena “con ferri e ceppi d’ordine del Vescovo”, è stato tradotto nelle carceri laicali dette Il Carbone. Si sono intanto fatti i primi di agosto e, avendo supplicato il Duca d’Atri principe di Arena a causa che gli erano “venute le gambe talmente grosse che pareva che i ferri si fossero incastrati nella carne, et ero tutto gonfio come una botte per i gran patimenti fatti nella longa, e crudel prigionia”, a dorso di cavallo è stato riportato a Oppido. Qui è rimasto 15 giorni, nel qual tempo ha scritto al proprio vescovo pregandolo di metterlo in libertà o di confinarlo in galera se lo avesse trovato colpevole perchè in 26 mesi ch’era durato il fermo nessuno lo aveva interrogato e ancora non era in grado di conoscere per qual motivo “abbia sofferto si lunga e crudel prigionia”. Presentatore della lettera al vescovo, che si trovava a Terranova, è stato il canonico oppidese d. Stefano Leale. Il risultato si è configurato che per essere rimesso in libertà avrebbe dovuto pagare 1000 scudi agli sbirri che lo avevano trasferito di carcere in carcere e ulteriori 200 a mo’ di “compensazione”. Comunicatogli il risultato della missione è andato su tutte le furie perché non si ritrovava alcuna possibilità di aderire, avendogli peraltro sequestrato due vigne e una casa. Che fare? Non restava che tentare di nuovo la fuga! E il buon momento si è verificato tra le ore 4 e 5 del 18 agosto 1679 e dell’occasione hanno approfittato altri due preti.

    Conosciamo i particolari della fuga da un memoriale officiato dal vescovo Ragni. Autore della trama sarebbe stato l’oppidese Agatio Antonio Grillo, che a notte ha inviato per l’operazione il figlio Gio. Leonardo unitamente ad Antonio Iannello di Tresilico e Michele d’Agosta di Varapodi. Tali, armati di tutto punto, a notte hanno scalato il palazzo vescovile e subito catturato il carceriere sacerdote d. Ottavio Potitò, molto probabilmente lo stesso che nel 1670 era stato parroco di Sitizano e, messogli una fune al collo, gli è stato imposto di consegnare le chiavi e in tal guisa trattenuto fino a che, con lui stesso, non si fossero allontanati due miglia, per giungere nel luogo dove lo hanno poi rilasciato. Il carceriere, istigato dal medesimo Grillo, ha dichiarato che a liberare il Barone era stata una squadra di banditi che lo aveva forzato ad aprire la prigione. Informata del fatto la Regia Udienza di Catanzaro, questa ha spedito un Regio Auditore onde assumere informazioni. L’inviato ha accertato come realmente si erano svolti i fatti e messo agli arresti il Iannello, ma anche l’altro in successione è incappato nella stessa fine. 

  Che autorità e cittadini mordessero il freno contro simili comportanti da parte del potere ecclesiastico ce lo segnala chiaramente un documento stilato poco più di un annetto dopo l’arresto del Barone. Il 3 maggio 1678, nel Sacro Regio Monte di Pietà di Oppido si è venuta a svolgere una riunione al cospetto del Governatore Mag. Giacomo Grimaldi. In quel frangente si è proceduto all’interrogazione di Agazio Antonio Grillo, che ha relazionato sui fatti. Erano presenti i Magnifici Sindaci di Oppido e dei Casali: Francesco Grillo di Gio. Leonardo e Giacomo Zerbi[8] e l’eletto Gio. Pirano (?) per Oppido, Leonardo Scullino sindaco e Domenico Laganà eletto per Messignade nonchè tutta una serie di cittadini indicati per nome e cognome. Appartenevano alle famiglie Luca, Maitano, Santopolo, Fossari, Vergara, di Jacomo, Jannello, Albanese, Maiolo, Pasqualino, Naso, Spadaro, Minasi, Girace, Gallano, Collagiure, Campanella, Ierace, Iannello, Oliva, Girardis, Rijtano e Martello. In tale seduta i sindaci nomati hanno inteso informare le autorità di quanto accaduto e proporre di avviare i provvedimenti che più urgevano. Dichiaravano essi “come dal giorno dell’ingresso in questa sede vescovale e come insino ad esso Mons. Ill.mo D. Vincenzo Ragni nostro odierno vescovo si sono germinati e fatti tanti, e tanti aggravj manifesti, e pure si continuano da detta sua Corte Vescovale in più e diverse maniere non solo contro questa Città ma anche di questo stato: laonde è parso ai detti Mag.ci Sindici di proporre alle Signorie Vostre affinchè si possa riparare a detti aggravij etiam con pubblico dispendio. Pertanto pare espediente e convenevole a detti Mag.ci Sindici per il pubblico utile di eleggere due persone cittadini quali vogliono riconoscere detti aggravj e quelli proporli a nome di questo Stato in presenza di qualsisia tribunale ecclesiastico così ordinario, come Delegato, quanto temporale, alli quali si dasse potestà non solo di quelli proptare (?), ma anche di spendere qualsisia somma di denaro in qualsivoglia di detti tribunali, et assistere app.li med.mi a presentare qualsisia scrittura, e di promovere…”. A questo punto si viene a chiedere la nomina di più Procuratori e all’uopo si propongono i due maggiorenti Francesco e Agatio Antonio Grillo. E ti pareva! I presenti dal canto loro non possono che accettare all’unisono con una sola parola. Infatti, “a viva voce di tutti fu risposto bellissimo”.

    Sfuggitogli dalle mani il prete terranovese, il Ragni non ci ha pensato due volte e ha denunziato fatti e persone a chi di dovere. Nel memoriale inviato a Roma, oltre a riepilogare i fatti, si è dato ad accuse pesanti e nei confronti del Barone e del Grillo. Al primo, oltre ad aver commesso qualcosa che ineriva al Sant’Officio, imputava di essersi “dato in campagna”, aver effettuato saccheggio e ucciso “l’oratore?”, quindi di risultare “persona di pessima espettatione”. Ad Agazio Grillo in particolare di odiarlo a motivo che aveva ottenuto dalla Sacra Congregazione un provvedimento contro di lui. Nientedimeno peraltro tutti gli esponenti della famiglia pretendevano che le loro donne tenessero in Cattedrale le proprie sedie “con le braccia”. Probabilmente, si trattava di sedie di tipo nobiliare con i braccioli, che quindi si distinguevano da quelle sulle quali prendevano posto le donne del popolo. Liti per questioni del genere non erano rare nell’antica Oppido, ma anche in altri paesi. Nobili e clero restavano sempre gelosi delle loro prerogative o ne pretendevano anche delle altre. Nel 1740 nella chiesa di Santa Maria della Porta in Santa Cristina è successo qualcosa di simile. Il Maestrato aveva preteso di addobbare con “panni di velluto” il banco al quale di solito accedevano i suoi componenti. Qualche mese dopo, nella stessa Oppido, il sindaco dei nobili D. Lorenzo Amato Grillo, a conoscenza del parto della regina (era nato Filippo figlio di Carlo III), ha indetto un ciclo di feste con un triduo da celebrarsi nelle chiese degli Osservanti e dei Paolotti e ha preteso che nelle tre serate della cerimonia si facessero suonare le campane della cattedrale. Il suo desiderio ha incontrato però viva opposizione nel vescovo Vita e nei suoi immediati sottoposti[9].

    Passato il tutto nelle mani dell’Uditore d. Antonio da Ponte, questi ha proceduto all’arresto del Iannello e dell’Agosta. Con loro sono finiti dentro vari altri, tra cui uno dei due preti involatisi, Diego Laganà e lo stesso carceriere Potitò. Ciò fatto, il funzionario ha trasferito il tutto alla Regia Udienza di Catanzaro. Dai documenti fatti conoscere dal Pesavento è risultato che, mentre all’Agosta assestavano delle mazziate durante l’interrogatorio, il Laganà “stette tre giorni con pane e acqua e manettato di mani e piedi”. Nonostante ciò, tali non hanno tenuto a coinvolgere il Grillo, cosa per cui l’imperterrito presule ha fatto ricorso contro lo stesso e altri presso il Vicerè a Napoli ed al suo Collaterale. Questi ha dovuto inviare il tutto alla Regia Udienza di Catanzaro. Il fiscale regio, che si trovava in quel di Monteleone, ha incaricato il capitano di campagna dell’arresto del Grillo, in atto a Seminara in casa di uno zio ammalato. Tradotto a Catanzaro il nobile oppidese ha dovuto sborsare cento scudi. Peraltro, ritenuto falso l’esposto del vescovo, è stato poi rilasciato, ma con obbligo di non allontanarsi dalla città. Trascorsi cinque giorni, era il 9 dicembre 1678, è stato rimesso in libertà, ma con l’obbligo della presentazione ad ogni richiesta a pena del pagamento di 300 scudi. A conoscenza degli eventi, il mai domo Ragni ha inoltrato nuovo ricorso al Vicerè con preghiera di voler trasferire la causa alla Gran Corte della Vicaria. Questa ha dato subito ordine all’Udienza di Catanzaro di rimettere in carcere il Grillo, che risultava essere stato scomunicato dal vescovo sin dal mese di novembre, ma quegli, che in atto si era portato a Napoli, ha pensato bene di recarsi a Roma per dimostrare la sua innocenza direttamente al tribunale del Santo Officio. 
 
   Dalla deposizione avanti al Padre Mugiasca espressa dal Grillo, figlio di Leonardo e di età di circa 50 anni, avvenuta il 29 aprile del 1680 apprendiamo quanto segue. Essendo stato delegato, come abbiamo visto, dall’università oppidese, si era rivolto alla Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari esponendo i noti fatti. All’uopo detta appena l’1 giugno successivo è venuta alla determinazione d’incaricare il vescovo di Gerace di assumere informazioni in merito a 79 capi. Appreso tutto ciò, il Ragni non ci ha pensato due volte a querelare il nobile oppidese e il figlio riepilogando quanto, secondo lui, accaduto in precedenza. Dopo tante vicissitudini la Sacra Congregazione decideva di affidare il tutto all’arcivescovo di Santa Severina Carlo Berlingieri, ch’era in carica solo dall’anno precedente. Intanto appena il 13 luglio susseguente gli si comunicava che la causa contro il vescovo di Oppido era stata affidata al nuovo vescovo di Nicastro Francesco Tansi, cui occorreva inviare quanto già spedito da Roma. L’11 agosto il Tansi poteva comunicare che le scritture erano già in suo possesso.

    Non sappiamo come si sia evoluta la vicenda in generale, ma il Ragni non ha dovuto sicuramente trascorrere a Oppido anni felici. Difatti, preferiva starsene spesso in quel di Terranova. Non è che qui fosse tutto rose e fiori. N’era motivo sicuramente il fatto che in quella città dimorasse il fratello Giacinto, peraltro chierico, che era pervenuto ad essere affittuario dello stato. Svolgeva il carico di amministratore della giustizia e faceva il bello e il cattivo tempo, quindi aveva ogni occasione per litigare con i cittadini. In una circostanza lo vediamo avversare la nomina di un revisore dei conti al monte di pietà. In altra, risultando creditore, ha mosso lite alla stessa Università, ma, uscitone vincitore e rimborsato, si è inimicato diversa gente, che a sua volta si è messa contro lo stesso vescovo. Ad avercela erano elementi delle famiglie Tutino, Strivere, Bruno, Pillare, Messina, Cavallaro, Sforza, Papalia, Solaro. Tra l’altro, nel 1695 verrà a trattenere in carcere più tempo l’abate Marc’Antonio Cavallari[10]. Nel 1706 comunque risulta deceduto[11].

    Da una testimonianza anonima di quel 1680 emerge ancora un bruttissimo episodio che coinvolge il vescovo. Nel mese di febbraio il Ragni si è fatto raggiungere nel convento dei celestini in quel di Terranova, dove peraltro all’epoca abitava, da tre banditi siciliani accoliti di Francesco Capoferro alias Giacchettella e con loro si è stipulato accordo di recargli il giorno dopo le teste di Domenico Capoferro anche lui detto Giacchettella, Michele Dromi e un suo fratello. Il premio in palio consisteva in 300 ducati. Detto fatto. Oltre al premio pattuito gli scherani hanno ricevuto altri regali e danaro a fine dell’acquisto di polvere da sparo. Compiuto il misfatto avrebbero dovuto fare festa recando le teste degli assassinati, depositarle avanti al convento stesso e dare luogo a “molte archibugiate et festini”. All’uopo ha pregato il Governatore di farli dimorare in una casa privata. Ma era tutto un trucco e alle due di notte furono allertati uomini a fine di assedio. Sono stati della partita un paio di ore dopo molti terranovesi e altri abitanti dello stato, i quali ne hanno avuto ben presto ragione. Risultato: sono state tagliate altre tre teste di siciliani, mentre due persone, ferite, sono state catturate. Lo stesso caporale del vescovo, tale Bernardo Carlo d’Oppido, che dal canto suo aveva troncato la testa a uno di quei malcapitati, si è impadronito di una “carta piena di danaro”. Mostratala al vescovo, questo subito ha affermato che spettava a lui dato che esso, era chiaro, era sistemato sopra una busta indirizzatagli dal fratello da Napoli, dove al momento si trovava. Nella testimonianza seguono varie altre accuse.

    I tempi erano quelli che erano e la litigiosità soprattutto a motivi di pecunia anche nelle varie istituzioni era all’ordine del giorno. Ancora nel 1685 il Ragni risultava avercela a morte con i preti di Terranova. Stavolta si trattava di d. Marcantonio Cavallaro, abate, che risulta deceduto nel 1706 e d. Giuseppe Gerardis, con questo debitore di alcune somme al cardinale Ginetti, ch’erano scappati anche loro dal carcere e si trovavano fuori diocesi. A conoscenza che i due si erano diretti a Napoli, con lettera del 29 settembre pregava il Nunzio di procedere al loro arresto, anche se lui era in grado di poter “giungerli, e farli castigare in ogni luogo”. Guarda tu che iattanza! Essendo riuscito ad arrestarli, quegli stesso provvederà di conseguenza a rispedirli a Roma. Del pari ostile al vescovo era un fratello del Cavallaro, d. Diego, che l’anno prima aveva rivestito la carica di sindaco e in mezzo si ritrovava sempre il d. Giacinto predetto, che all’epoca risultava affittuario dello stato e a tal uopo in lite con l’università a causa di certi crediti non soddisfatti[12].

    Del Vescovo Ragni sappiamo poco. Solo che di famiglia oriunda da Gravina di Puglia, era nato a Napoli nel 1635. Nominato vescovo in una delle sedi richieste, a Oppido (l’altra era Santa Severina) nel 1674, risulta essere deceduto nel 1693.

    La Terranova del 6-700 era spesso un focolaio di delinquenza e i cosiddetti diaconi selvaggi e guidati la facevano da padroni. Per conoscerne abbastanza basta scorrere l’Epistolario del Governatore Lorenzo Cenami che relaziona sui tanti personaggi che all’epoca infestavano il territorio tra Terranova e Seminara[13]. Altre notizie si ricavano variamente. Nel 1647 un terziario agostiniano di Varapodi, fr. Pietro, è stato soggetto a fustigazione per ordine dell’affittuario dello Stato d. Fulvio Caracciolo. Al 1775 rimonta altro caso. Per l’uccisione del mag. Antonio Locchese di Tresilico il subalterno d. Antonio Barba “maltrattò con battiture una donna“ testimone con altri, tanto che l’ha fatta cadere a terra[14]. Era tutta gente che operava in quel di Terranova. Per rendersi conto di tante situazioni basta scorrere le relationes ad limina, che gli Ordinari diocesani inviavano periodicamente a Roma.

Rocco Liberti

[1] Un Giuseppe Barone diacono della diocesi di Oppido è dispensato per età nel 1669. Francesco Russo, Regesto Vaticano per la Calabria, VIII, Roma 1985, p. 259.
[2] Era di certo un’appartenente alla famiglia nobile dei Clemente.
[3] Faceva parte della famiglia nobile omonima.
[4] Nel 1669 un Marcello Zerbi era stato provvisto della chiesa di San Nicola di Santa Cristina. Lo stesso nel 1705 concederà a Carlo Zerbi il permesso per la stampa del libro intitolato “Gemma Episcopalis”. Nel 1714 risulta defunto e gli subentra altro Zerbi, Alessandro. Russo, Regesto VIII, p 253; IX, 1986, p. 444; X-1990, p. 89. Sugli Zerbi di S. Cristina ved. Liberti, Santa Cristina (d’Aspromonte), Quaderni Mamertini, 7, 1998, passim.
[5] Nel 1700 risulta infermo, per cui gli ottiene il permesso di celebrare messa nell’oratorio privato. Nel 1664 viene provvisto del protonotariato, Nel 1709 appare deceduto. Russo, Regesto, VIII, p. 99; IX, p. 340; X, p.25.
[6] Ha ricevuto gli ordini nel 1692, è stato nominato penitenziere nel 1712 ed è deceduto nel 1716 Russo, Regesto, IX p. 182; X pp.73, 135. 
[7] Nobile geracese, nel 1671 è sciolto dall’impedimento della consanguineità di III grado per poter sposare Eleonora Grillo. Russo, Regesto, VIII p. 301.
[8] Giacomo Zerbi nel maggio del 1677 aveva avuto la dispensa dal secondo grado di consanguineità per unirsi a Giovanna Musitano. Russo, Regesto, VIII, pp. 435-436
[9] Liberti, Diocesi di Oppido-Palmi, I Vescovi dal 1050 ad oggi, Virgiglio, Rosarno 1994, passim.
[10] Ivi.
[11] Russo, Regesto, VIII, pp 339, 380; IX pp. 81, 464.
[12] Liberti, Fede e Società nella Diocesi di Oppido Mamertina-Palmi, II, Quaderni Mamertini, n. 43 (2003), pp. 3-4. Il chierico Diego nel 1672 aveva goduto dell’assoluzione e della dispensa perché “medicinam exercuit”. Russo, Regesto. VIII, p. 332.
[13] L. Volpicella, Epistolario ufficiale, del Governatore di Calabria Ultra Lorenzo Cenami, Archivio storico della Calabria, 1912-13 ecc, annate varie.
[14] Liberti, Zibaldone calabrese, Briciole d’archivio, Quaderni Mamertini, 2, passim.

mercoledì 21 maggio 2025

RICORDANDO “ IL PREVITOCCIOLO” OVVERO “LE PETIT PRETRE DE CALABRE” ( di Bruno Demasi )

     Quando, intorno al 1962, Carmine Ragno con lo pseudonimo di Don Luca Asprea di Oppido Mamertina, dichiarandosi sacerdote ( non lo diventò mai, perlomeno della chiesa cattolica) , inviò a Feltrinelli un'autobiografia di migliaia di pagine manoscritte che all'epoca avrebbero potuto essere considerate scandalose, l’editore temporeggiò a lungo e solo dopo una decina di anni, esattamente nel 1971, decise di pubblicare una parte del lunghissimo manoscritto, avendo fiutato l’affare editoriale. Gli ingredienti per trarne una pubblicazione con gli stigmi della morbosità in effetti c’erano tutti e la stessa copertina usata, in cui macroscopici cappelli da prete lasciavano intravvedere lascive nudità femminili, ne voleva essere l’accattivante premessa. La parte pubblicata corrispondeva ai primi quindici anni di vita del narratore, che nel romanzo dichiarava addirittura di avere iniziato pratiche sessuali all'età di soli cinque anni con bambine della sua età, ma anche con ragazze già adolescenti o addirittura con donne adulte. Ciò che però era evidentemente destinato ancora di più a stuzzicare larghi strati di lettori era la contestuale narrazione dell’entrata in seminario del protagonista all'età di undici anni e la sua lunga e presunta persecuzione all’interno di esso.
 
    Il tema dell'innocenza di fronte all'amore voleva apparire il vero filo conduttore  quasi sotto forma  di una lunga confessione, raccontata  nel libro con tutta la forza che l’immediatezza di un fanciullo poteva darle. Una narrazione impetuosa e incisiva che non mancava affatto di alti passaggi lirici, ma che tendeva a divenire soprattutto l' illustrazione  quasi etnografica delle caratteristiche  culturali malate  di una comunità mediterranea, la cronaca di un mondo in cui l'erotismo sembrava apparire ad ogni costo sovrano.  E il successo di pubblico fu davvero rapido e grande, solleticato anche dall’ammiccante presentazione di Franco Cordero e dal ricorso che l’autore nelle pagine pubblicate fece alla ridicolizzazione e alla messa sotto accusa, spesso priva di fondamento, di tante persone realmente esistite che in qualche modo incrociarono con le loro vite la sua esperienza umana prima, durante e dopo gli anni del seminario. Un successo forse direttamente proporzionale al suo declino nel ricordo letterario, se è vero che oggi , ad oltre un cinquantennio dalla prima pubblicazione, se ne parla poco e se ne ricorda pochissimo.

   Ho ripreso in mano “Il previtocciolo” in occasione del dono che  nelle settimane scorse mi ha fatto Francescoo Barillaro di una copia, fortunosamente trovata, della   traduzione francese, edita da Gallimard ad appena due anni della sua prima uscita in Italia. Un’edizione che avevo avuto modo di leggere e recensire per il “Giornale di Calabria” già nel 1973, ma che poi persi di vista. Colpisce in essa anzitutto il fatto che la prefazione all’edizione italiana fatta da Franco Cordero sia stata mantenuta integra nella traduzione di Georges Paques, ma soprattutto la presentazione dell’opera in gran parte giocata sulla vexata e morbosa quaestio del celibato sacerdotale imposto dalla Chiesa Cattolica e sul quale il dibattito negli anni Settanta del secolo scorso era assai acceso.

     C’è tuttavia nella presentazione dell’edizione francese un intendimento accattivante per la sensibilità dei nostri cugini d’Oltralpe: si voleva presentare attraverso il libro di Don Luca Asprea un mondo, quello calabro aspromontano, fondato su strutture sociali molto arcaiche nel quale le forme del cattolicesimo popolare si mescolavano alle tradizioni della magia in un contesto agricolo chiuso in se stesso, contrassegnato da una forte povertà morale e materiale in cui l’unica forza che permeava tutto era una sessualità sfrenata e morbosa.
 
    Una visione decisamente esasperata ed esasperante di questa terra, che, certo, aveva – e in gran parte conserva ancora – molti limiti soprattutto a livello sociale e molte situazioni eclatanti di religiosità svincolata dalla vera Fede, ma che forse non è mai giunta ai livelli di aberrazione , anche morale, che vengono messi in luce nella presentazione di questo romanzo al pubblico francese.

  Questo breve excursus su un libro che ha fatto tanto parlare di sé e di cui oggi si tace in maniera quasi plumbea anche qui in Calabria ( gli eccessi in un senso o nell’altro purtroppo fanno parte del nostro DNA), non potrebbe essere completo se non si citasse anche la bella edizione che nel 2003 col medesimo titolo, ma con la prefazione di Antonio D’Orrico ha curato e divulgato Luigi Pellegrini Editore di Cosenza. Rispetto alla prima e alla sua traduzione francese , questa edizione contiene intanto un numero di pagine decisamente più grande e la storia si articola prendendo in considerazione anche gli anni successivi all’esperienza seminariale dell’Autore . La stessa si pone assolutamente non come un correttivo alla prima, ma vuole fornire un quadro d’insieme decisamente più articolato dell’esperienza umana, religiosa e sociale di Don Luca Asprea.

    Non è il caso, come non lo è stato per il passato, avventare giudizi approssimativi su questo romanzo che indubbiamente, nel bene e nel male, è una testimonianza della cultura e della società aspromontane in una fase circoscritta della loro storia, vale a dire quella compresa tra le due grandi guerre del Novecento. Direi tuttavia non sia nemmeno il caso di distinguere in modo pedante , come tanti hanno fatto, tra l’esperienza umana dell’Autore, quella formativa e religiosa e la sua arte, che in alcuni passaggi della sua prosa mostra una forza narrativa decisamente pregevole sebbene inficiata dai continui e irriverenti riferimenti a persone e a fatti che , essendo in gran parte immotivati, nulla avevano da aggiungere o da togliere alla qualità della sua narrazione.
                                                                                                                        Bruno Demasi

lunedì 19 maggio 2025

QUEI “ DEMONI DELLA SANTA FEDE ” SEMPRE PRONTI A RINASCERE (di Bruno Demasi)

UN’ OPERA NARRATIVA (E PEDAGOGICA)

 IRRINUNCIABILE DI VINCENZO VILLELLA

   “Siete venuti meno ai vostri doveri – disse il cardinale - sia verso il nostro amatissimo  Sovrano sia verso la Santa Romana Chiesa. Abbracciando la odiosa filosofia dei lumi  e la satanica  rivoluzione, avete tradito la Patria e la Religione…”
   Il priore lo interruppe:
   “… Noi siamo legati e vogliamo essere fedeli tanto alle leggi della religione quanto  a quelle di uno stato democratico e non tirannico…”
    Il cardinale  lo interruppe a sua volta bruscamente e, con l’indice puntato minacciosamente quasi sulla fronte del priore, gridò:
   “La Costituzione di Francia che voi avete abbracciato è negatrice della religione…oltre che uomini di Chiesa siete sudditi di un sovrano…”
    Il priore:
   “ Voi dite, eminenza, che il giuramento che abbiamo fatto alla Chiesa con il sacramento dell’ordine ci obbliga  anche  alla fedeltà al sovrano. Io vi dico che la religione non può essere ridotta a semplice serva di interessi temporali e che, pertanto, la Chiesa deve essere libera da ogni condizionamento del potere e non puntello dell’ordine costituito.Deve educare con la testimonianza alla prima beatitudine del Vangelo che è la povertà…” 

    Magistralmente concepito e descritto  dall'Autore, quello sopra riportato è un  alterco davvero drammatico, al pari di tutta la demoniaca crociata, quella dei Sanfedisti, voluta e capeggiata in modo spregiudicato proprio alla fine del Settecento dal calabrese Fabrizio Ruffo. Era un avventuriero che in modo altrettanto  altrettanto spregiudicato era riuscito ad ottenere la berretta cardinalizia e, millantando un servizio alla Chiesa, si era  invece posto al servizio della feroce restaurazione borbonica contro i barlumi di democrazia giunti attraverso la Repubblica Napoletana instaurata dai Francesi. Ma è una pagina della nostra storia, anzi della Storia , che, pur emblematica e da ponderare attentamente, esula ormai da tempo dai libri di storia che si aprono  sempre più a stento sui banchi delle nostre scuola. 

    Vincenzo Villella  rende dunque un servizio non solo alla Storia, ma anche alla Democrazia e alla stessa Religione con questo incredibile romanzo (“I demoni della Santa Fede - Diario di un monaco giacobino del 1799” , Grafichè editore) che definire “storico” è riduttivo sebbene prenda chiaramente le distanze da tutti quei filoni editoriali di storia romanzata che oggi imperversano a vari livelli. E’ infatti un lavoro narrativo assolutamente inusuale e avvincente nell’impostazione che “racconta” la storia dal di dentro con una delineazione incalzante e suggestiva di luoghi, personaggi e fatti realmente accaduti durante la vergognosa epopea del Ruffo. Un'epopea  che avrebbe voluto essere antirivoluzionaria, ma si rivelò soltanto un calcolo vergognoso soprattutto per la Chiesa del tempo, sanguinosamente asservita agli interessi della Corte. Un rischio tutt’altro che remoto anche oggi nelle logiche di potere locali, ma anche nazionali e internazionali, che sempre più spesso , anche se  in modo per fortuna non più cruento,  assurgono agli onori delle cronache politiche. 

    C’è in questa prosa misurata e suggestiva   una folla di volti , di nomi e di eventi realmente esistiti o accaduti che si incalzano dando vita a tante storie concentriche enormemente ricche di pathos come da tantissimo tempo non era dato vedere nella nostra produzione narrativa oggi più che mai persa dietro pubblicazioni di improbabili saghe familiari che sembrano aver quasi preso il posto dei peggiori feuilleton ottocenteschi di cui erano ghiotti , e nella loro accezione moderna continuano ad essere, orde di lettrici e di lettori appassionati solo di intrecci e di interessi familiari e dinastici quasi sempre inverosimili e caricati di simbolismi economici e imprenditoriali vuoti di ogni significato.

  Raramente mi è capitato di leggere un libro con tanto coinvolgimento emotivo . Peraltro l’artificio usato dall’Autore di creare nei passaggi-chiave un io narrante attraverso le parole del monaco Francesco Butera di Conflenti ( il “notaio zoppo”), giacobino, massone, e convinto  illuminista restituisce pagina per pagina una immediatezza insolita alla narrazione che si dipana in maniera ordinata e chiara anche in tutti i numerosi intrecci, mai inventati dall’Autore, ma registrati con lo scrupolo dello storico di professione.

    Non per nulla I demoni della Santa Fede rimette in gioco in modo virtuoso le sperimentate e raffinate  competenze storiche di Vincenzo Villella insieme alla sua straordinaria capacità di analisi e di sintesi nel dipanare con maestria  tutti i nodi dei fatti e presentarli al lettore nella loro veste più veritiera e avvincente. Un esempio purtroppo ormai raro di come sia possibile raccontare la verità storica presentandola con chiarezza  in tutti i suoi eventi  anche minimali, ma non  in modo  asettico e nemmeno impersonale.