venerdì 12 aprile 2024

I VERSI E I GIORNI SENZA PACE DI LORENZO CALOGERO (di Bruno Demasi)

    Alcune semplici verità, a parer mio, sono state scritte da  Eugenio Montale sulle pagine del “Corriere della sera” a proposito del calabrese Lorenzo Calogero subito dopo la strana e solitaria morte di questo grande poeta, a cui solo il tempo ha dimostrato e sta dimostrando vera e disinteressata amicizia. Osservò che egli era “dotato di reale temperamento poetico” e che “non scriveva la sua poesia, la viveva… restituendo in parole il soffio della vita”. Forse qualcuno scioccamente potrebbe obiettare a Montale che quasi tutti i poeti “ vivono” la loro poesia, ma tale obiezione, particolarmente oggi, sarebbe facilmente smontabile perché la grandissima parte dei “poeti” si limita a scrivere (tanto) e non sa, o forse non può , vivere (almeno un po’) la vera poesia. Essa per Lorenzo Calogero fu la stessa aria che egli respirava, il sangue e la linfa che malgrado tutto nutrivano i suoi dolorosi giorni oppressi da un male orribile , quel “ male di vivere” a cui lo stesso Montale dedicò una propria lirica dicendo di averlo sfiorato spesso, ma col quale Lorenzo Calogero fu invece costretto a combattere per tutta la vita, quella malattia del cuore, del cervello e dell’anima che trancia il presente e il futuro e consente al massimo di trascinare la propria esistenza solo nei ricordi, nel passato.

   Era nato nel 1910 a Melicuccà, nella povertà di un territorio abbandonato a se stesso nella profonda provincia di Reggio Calabria e, dopo varie traversie, anche familiari, era riuscito a laurearsi in Medicina e Chirurgia, iniziando a esercitare nel suo paese e altrove, ma proseguendo in maniera molto discontinua. La sua ossessiva ricerca era quella di relazionarsi con gli altri attraverso la sua poesia, la sua ragione di vita, il suo canale espressivo e argomentativo univoco che aveva bisogno come l’aria di qualcuno che pubblicasse i suoi versi. Cercò di entrare in contatto con altri poeti, di scrivere su riviste di grande tiratura, di interessare vari editori alla propria opera che intanto cresceva a dismisura, ma non ci riuscì. L’ ossessione della morte iniziò presto a opprimerlo e a inibire ogni suo tentativo di ribellione e di ricerca del bello , come la lunga relazione epistolare e poi il trasporto vissuto per Graziella. Tentò due volte il suicidio, a 32 anni e a 46, e concluse la propria tormentata eistenza nel paese natale in circostanze rimaste purtroppo oscure: qualcuno dei vicini di casa lo vide per l’ultima volta il Il 21 marzo del 1961 e dopo quattro giorni il suo corpo senza vita fu trovato nel suo letto. 


     Fece clamore la sua povera e solitaria morte e il mondo della cosiddetta cultura si mobilitò a posteriori per dire e scrivere di tutto e di più, come spesso accade, sulla parabola esistenziale e sull’opera quasi del tutto ancora sconosciuta di questo sfortunato poeta senza tempo e senza schemi. Appena ad un anno di distanza dalla sua morte venne pubblicato da Lerici il primo volume delle sue “Opere poetiche” e, come osservarono in tanti, ne scaturì quasi un vero e proprio caso letterario, nel quale Lorenzo Calogero fu da varie parti assimilato ad Athur Rimbaud. Il cerchio della critica letteraria italica, che per decenni lo aveva sistematicamente ignorato, sembrava chiudersi dentro il solito clichè che uccide la memoria e la storia di un artista assimilandolo scioccamente ad un altro grande del passato apparentemente simile a lui.

   Negli stessi mesi veniva pubblicato sul Corriere della sera l’articolo , sopra ricordato, di Eugenio Montale, al quale, a parte gli indiscussi meriti già attribuiti, serie obiezioni si potrebbero muovere allorquando egli afferma che il problema riguardo a questo infelice poeta, vissuto in questo lembo estremo di Calabria, sarebbe quello di “definire entro quali limiti l’apporto del Calogero alla poesia italiana del nostro tempo debba ritenersi positivo” , capire che “la difficile poesia di Calogero, deve attendere la sua verifica dall’invecchiamento”, prendere atto che «Questo poeta costituzionalmente incapace di vivere si era creato un habitat di parole poco o nulla significanti, non tanto espressioni quanto emanazioni del suo ribollente mondo interiore” 
 
    Tre giudizi che il nobel per la poesia si sarebbe potuto risparmiare per un duplice ordine di motivi: intanto perché un artista della parola come Montale non può arrogarsi il diritto di giudicare tout court un “collega”, come Calogero, minimizzandolo, guardandolo quasi dall’alto dei propri blasoni poetici; secondariamente perché la qualità della poesia vera non si giudica come un vino affermando più o meno “ vediamo se con gli anni questi versi diventeranno d’annata o si trasformeranno in aceto”; infine, che Lorenzo Calogero fosse “costituzionalmente incapace di vivere” è pura, dolorosissima verità ( lo testimoniarono i suoi ricorrenti ricoveri in luoghi di cura per la malattia mentale, le sue dolorose rinunce a tutti e a tutto, ma non all’ossigeno dei suoi giorni, la poesia) ma è molto discutibile affermare, come fa sbrigativamente Montale, che egli “ si era creato un habitat di parole poco o nulla significanti…” perché l’espressione poetica di Calogero è tutt’altro che vuota e poco significante, ha invece sintassi e contenuti e armonie incredibilmente lucide e serie:

 

Se i tormenti sono tristi,
l’edera non è mattina o si colora.
Si vela o duole una viola
e dondola nube odorosa
su l’orizzonte lucida di brina.
Ecco quanto di tanta vana speranza resta
o fugge rapida o semplicemente,
silentemente accade.
I carnosi veli, i velli di bruma,
le origini stellate assalgono l’aria,
le tumide vene delle vie le ore.


    Quelle che per Montale sono “ parole poco o nulla significanti” ci appaiono invece paradigmi di vita, di sofferenza e di ricerca espressiva del tutto personali, all’interno dei quali occorre trovare la vera grandezza di queste liriche assolute e inimitabili.

   Non voglio e non posso riportare stucchevolmente qui, in questo breve e commosso ricordo di colui che ritengo davvero un grande della poesia, altri suoi brani poetici, lasciando che sia la declamazione di alcuni suoi versi fatta magistralmente da Roberto Herlitzka, che qui di seguito riporto, esempio e testimonianza per chi ancora non conosce Lorenzo Calogero. 



   Non sono neanche in grado di tentare una sia pur breve analisi della sua sterminata produzione poetica di cui la benemerita ( oggi non più esistente) casa editrice Lerici ha pubblicato nel tempo con coraggio i seguenti titoli:

POCO SUONO (1933-1935)
PAROLE DEL TEMPO (1932-1935)
MA QUESTO … (1950-1954)
COME IN DITTICI (1954-1956)
AVARO NEL TUO PENSIERO (1955)
SOGNO PIÙ NON RICORDO (1956-1958)
QUADERNI DI VILLA NUCCIA (1959-1960)



     Ad altri il compito di ritornare a ragion veduta e senza i soliti orpelli critici e beceri sulla figura e sull’opera , ancora in buona parte sconosciuta, di questo grande . Forse occorrerebbe a tale proposito prendere esempio dal modus operandi del mondo culturale americano che non vive in nessuna torre d’avorio e non lavora mai storcendo il naso. Ne è stato un esempio il progetto ( non pagato e non milionario) di traduzione delle poesie di Lorenzo Calogero (An Orchid Shining in the Hand: Selected Poems 1932-1960, a cura di J. Taylor) che, non a caso, vinse il Premio dell’Academy of American Poets, che testimonia il vero valore di quesa poesia, colpevolmente dimenticata anche da noi Calabresi, e che avrebbe molto da insegnare agli Italiani in materia di esegesi e di critica letteraria.


Bruno Demasi