giovedì 19 ottobre 2023

Mémoires 10 : DALLA FESTA DEI FIORI A QUELLA DEI CAMPI IN OPPIDO (di Rocco Liberti)

    C’era sicuramente necessità di avere una testimonianza diretta e di prima mano, come questa parte conclusiva delle sue memorie sulle feste religiose oppidesi , che il prof. Rocco Liberti ci regala con l’abituale lucidità di immagini e di interpretazioni . Feste nel senso pieno del termine per tutta la gente, per la Chiesa, per quanti – ed erano i più in assoluto – vivevano la ricorrenza religiosa con i suoi risvolti civili come momento fondamentale della vita personale e di gruppo, durante il quale, come osserva Luigi Lombardi Satriani, la forza sociale si liberava nel rito collettivo e ogni persona, perdendo la propria individualità, si confondeva e si annullava nel gruppo in situazioni che Durkheim chiama di “effervescenza collettiva”. Erano i momenti fondamentali in cui tutti inconsapevolmente costruivano o ricostruivano il gruppo sociale, cioè quell’insieme di valori che erano alla base della vita di tutti i giorni.
   Oggi il gruppo sociale di fatto non esiste più in questi paesi e la festa, a causa della distruzione spontanea  o coatta dei suoi aspetti più  folklorici, ingiustamente messi all’indice, ma anche di un sistema valoriale che ha frantumato le nostre società contadine, ha perso i connotati che aveva . Sono rimasti gli involucri, forse molti (ormai ingiustificati) tragitti delle processioni e alle vecchie fantasmagorie se ne sono sostituite di nuove, ma il significato vero della festa è stato annacquato e cristallizzato in ritualità anche extraecclesiali che le nuove generazioni ( e non solo) probabilmente rifiutano.
    Le foto, ma soprattutto i ricordi personali di Rocco Liberti danno però ragione e contenuto a una vita sociale e religiosa che, sebbene smarrita per sempre, farà parte tenacemente delle nostre radici (Bruno Demasi).
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    Maggio era il mese dei fiori e questi davvero non mancavano nelle due festività consecutive del Corpus Domini e dell’Ottava. La prima consisteva in una solenne cerimonia in cattedrale nella tarda mattinata e nella conseguente processione. Nell’occasione le famiglie ostentavano sui balconi le coperte più belle che detenevano nei loro corredi e al passaggio lanciavano sui partecipanti i tantissimi fiori che avevano intanto sistemato nelle ceste. Era un luccichìo di colori che offriva un magnifico tono all’intero contesto. Il complesso bandistico intonava Noi vogliam Dio, l’accattivante composizione del canonico francese François-Xavier Moreau originatasi nel 1882 a un pellegrinaggio a Lourdes. Più invitante della festa del Corpus Domini era quella detta degli altarini, che si dipanava nel pomeriggio di otto giorni dopo. Oggi poche persone se ne ricordano. Era un doppione sicuramente, ma c’era di peculiare che il corteo era tenuto a sostare nei cosiddetti altarini allestiti in punti strategici e dar modo sistematicamente al vescovo d’impartire la benedizione. Il presule saliva gli scalini dei provvisori santuari e svolgeva il suo impegno circondato da un gruppetto di verginelle. Si dava inizio al suono dell’inno di cui sopra e il popolo in massa s’inginocchiava. Era veramente un rituale piuttosto lungo, ma che invitava alla commozione.

 I siti dove si sistemavano le cappelline erano di norma consueti: la Piazzetta, la Tuba, l’Asilo, l’Ospedale, la zona della Pretura ecc. Per allestire cotali manufatti si prodigavano per almeno una settimana una schiera di provetti artigiani che a volte dava vita a tempietti di gusto e arte. Tra loro c’era un che di antagonismo che spingeva a realizzare il modello migliore. Ne rimembro tanti: Sgrò, Tramontana, ma in capo a tutti erano i Clemente, detti i Piccirij per la loro minuscola statura. Il prodotto che officiavano a fronte di via Tuba risultava sovente tra i più eccellenti e otteneva il guiderdone messo in palio. Uno dei Piccirij è stato immortalato da don Luca Asprea nel suo noto libro “Il previtocciolo”. Colpiva in occasione della processione del venerdì santo l’enorme croce che lui così minuto doveva sopportare. Da grandi abbiamo scoperto con detto autore che quello immenso manufatto era confezionato soltanto con la cartapesta. Oggi, tramontata l’Ottava, il giorno del Corpus Domini si è ridotto a una funzione che salta alcuni tratti storici e si porta fino a Tresilico, dove perviene a sciogliersi. Unico altarino è proposto dal personale dell’Ospedale.

   L’ossequio a Santa Rita, con trasporto del simulacro custodito nella chiesa dell’Abazia, che si officia in sul finire di maggio, alquanto tempo addietro non era in voga, in quanto è solo un’invenzione abbastanza recente di Rocco Lando. Ha soppiantato quello di San Rocco che in passato era invece in auge. Si qualificava una prerogativa dei fratelli Carrano che si rendevano tutt’uno. Caratteristico Il segno di San Rocco, cioè l’incendio di una botte con Baccu supa a’ gutti a cavalcioni sulla piazza Duomo poche sere avanti.

   Non mi è chiaro se il giorno antecedente o in quello della festa si dava corso al volo dei palloni aerostatici e potevi vedere sullo stesso luogo nelle ore pomeridiane sempre affollate l’accensione di questi aeromobili rappresentanti precisi personaggi, animali o cose che se ne volavano su per il cielo tra l’entusiasmo generale. Gli astanti se ne stavano divertiti col naso per aria. Alla sera dopo si assisteva poi alle cosiddette roteje, ruote o girandole di fuoco che sparavano botti in serie dal sagrato della cattedrale e al cavajucciu (cavalluccio), un esemplare tutto imbottito di mortaretti. Il portatore di quest’ultimo, famoso tra gli altri testa ‘i papa, percorreva a giro le strade attorno alla grande piazza in atto che il fantoccio sbuffava fuoco da ogni lato. Quando si appressava verso i marciapiedi gli astanti scappavano da una parte all’altra. Il pomeriggio precedente si ambientava sull’allora via Mamerto oggi Garibaldi ‘a gara di’ scecchi. Dei baldi giovanotti cavalcavano dei malcapitati asini e li incalzavano a trottare a suon di frusta o di altro oggetto. Detti che non erano proprio abituati a simile sport finivano spesso a terra scaricando del pari il cavaliere anzi più precisamente ‘u sceccàru. Qualcuno però vi arrivava e si beccava il premio. Naturalmente, si offrivano parimenti anche altri tipi di giochi popolari che non è il caso proprio di trattare, essendo ricorrenti in manifestazioni del genere. In ogni sagra di qualche importanza in Oppido non si lesinava la sfilata dei giganti (‘u giganti e ‘a gigantissa) con ballo finale in piazza. È una scopiazzatura dei più noti Mata e Grifone onnipresenti in Sicilia, soprattutto a Messina. Anche oggi degli esemplari di scarsa rilevanza si notano nelle feste. La coppia di giganti oppidesi o tresilicesi di somma imponenza negli anni 40 era custodita dentro un basso di mia nonna sulla piazza principale poi venduto a Gaetano Zerbi quindi a Vincenzo Caia. Da lì assistevamo al concerto della banda al palco. 

   Pervenuti alla seconda domenica di luglio si presentava un’interessante opportunità: la gita alla frazione Piminoro per assistere alla caratteristica solennità della Madonna Pastorella. È un culto che ci proviene dal Serrese essendo la popolazione residente oriunda proprio da quel territorio. Nelle epoche trascorse vi si andava a piedi attraverso la fiumara del Rosso e scavalcando una ripida salita detta della pietra saligna a motivo di pietre tipo salgemma. Oggi a portare lassù sono due comode arterie. Gli Oppidesi erano attratti dall’incanto della vara che espletavano i due gruppi tradizionali dei contadini e dei massari. Si guadagnava il privilegio di recare la statua per le vie del paese il ceto che, dopo una serrata gara, riusciva ad offrire la somma più alta, che in precedenza aveva provveduto a rastrellare. Il grido trionfale al termine era viva li massari oppure viva li cuntatini (contadini), secondo chi aveva ottenuto la palma della vittoria. I Piminoresi, cordialissimi, ospitavano gli accorrenti in molti casi a suon di pane di jermànu (grano germano), formaggio e ricotte. Erano queste ultime le loro produzioni più appetite. A notte alta la gente se ne tornava indietro al lume della luna, quando c’era, o di lampade portatili. Una volta ho avuto il piacere di fare anch’io un tal viaggio. Certo, rispetto a quello di San Jacopo di Campostela e di altri ugualmente famosi e accorsati si trattava di poca cosa.

   Nel mese di agosto non c’era avvisaglia di alcuna festa, ma mentre te ne stavi a tavola intento a gustare il pranzo o poco dopo qualcosa di rumoroso ti richiamava fuori. Spari continuati di mortaretti e canti accorati all’indirizzo della Madonna (A li pedi di la Madonna/’na bella rosa nci sta/dudici stelli attornu attornu/ e la luna splendori nci fa) ti facevano sobbalzare e scattare all’esterno. Altro che mangiare! Passava una folta squadra variopinta che cantava coralmente nei vari dialetti. Erano i Posàri, cioè i reduci dal Santuario di Polsi (Posi in gergo nostrano) in Aspromonte che si avviavano a completare il loro cammino. Sfoggiavano folti rami di pino e i ragazzi ci appressavamo a chiederne un pezzo in quanto lo stimavamo benedetto. Al rametto si dava appellativo di posa (scientificamente brachiblasto), in riferimento a Posi. Molto tempo addietro, quando si difettava di vie di comunicazione, il transito per Oppido era obbligato per le genti della Piana. Non solo si considerava il più vicino ai monti che bisognava scalare, ma dava agio di riposare la notte per poi l’indomani proseguire un tantino rinfrancati. I posti per la sosta erano tradizionalmente lo slargo all’ombra del grande pino di Tresilico e il sagrato della cattedrale. Stralciamo da un bel componimento del poeta palmese Francesco Salerno uscito per la festa dell’1-2 settembre del 1954:

Sendu a Oppitu, pigghjammu
li muntagni e, gira e nchjana,
cumparìanu alluminati
lì paisi di la Chjana
e sbrendìanu, senza ‘n velu
mi l’adumbra, chjari e ghati,
tanti stiddhi ‘nta lu celu
chi nd’avìa ‘na ‘nfinitati!,
tutti mundi, suli e luni
quali sparsi o a cupigghjuni.


   Oggi le auto e i camions hanno ben sostituito i piedi. 
 

  Ecco ancora un vivido ricordo del pellegrino scrittore Fortunato Seminara: «Arrivarono a buio a Oppido, luogo fissato per la sosta notturna; si fermarono nella piazza del paese, sotto le acacie. Appena si furono ristorati e riposati un po’, ricominciarono a cantare e a suonare. La gente del paese stava intorno a godersi lo spettacolo, e qualcuno prendeva anche parte ai balli, accolto dai pellegrini con cordialità. I canti e i suoni continuarono fino a tardi» (Le baracche, 1942).

   Al giorno d’oggi dopo il Ferragosto e senza una data prestabilita, comunque entro il mese, si onora la S.ma Annunziata. È in attinenza all’anniversario del SS.mo Nome di Maria del 12 settembre. Fino ai primi anni 70 il tutto avveniva in successione, comunque entro la fine del mese, ma, avendo constatato che quasi sempre era impossibile operare nelle date fissate per via della ricorrente cattiva condizione climatica, abbiamo deciso col parroco Don Loria di effettuare il differimento.
 
    Una tale festa è stata istituita nel vecchio paese nel 1743, per avervi la protezione della Madonna preservato la cittadinanza dal flagello della peste. A riguardo si racconta un preciso fatto miracoloso, ma per esso rimandiamo a mirati studi, che ne trattano abbondantemente. Fino a non tanto tempo fa era la banda a tenere il campo. Tra i complessi anteguerra si dà rilievo a quello di Chieti, che per la prima volta si è spinto fino in Calabria e per il quale, non bastando il pur grosso contributo del Comune, i singoli componenti della commissione all’uopo nominata hanno dovuto impegnarsi in solido personalmente, ma alla fine tutto è andato per il meglio. Il dominio delle bande nelle feste è durato parecchio con afflusso di compagini di grande rinomanza che provenivano dalla Puglia, la regione che ne sfornava a ritmo continuo, Acquaviva delle Fonti, Lecce, Tuglie, Gioia del Colle, Noci ecc. Ma altre si dipartivano pure dall’Abruzzo e dalla Campania. Negli a. 50 i gusti sono cambiati e, sparita la vecchia guardia, a interessare le folle sono state orchestre di musica leggera con i cantanti più ricercati: Milva, Orietta Berti, Nada, Carmen Villani e chi più ne ha più ne metta. C’era solo l’imbarazzo della scelta. Oggi è tutto un altro discorso!

    A Tresilico oggi semplice rione, ma già Comune autonomo, l’omaggio festaiolo maggiore è rivolto alla Madonna delle Grazie. Le fasi di carattere sacro e profano hanno luogo insindacabilmente l’1 e 2 luglio. La località è particolarmente accorsata dai residenti della Piana, che in comitive vi si portano a piedi. La statua è accompagnata fino in cattedrale, quindi rientra in sede. Luminarie e bande prima e cantanti dopo (Claudio Villa ecc.) hanno svolto e continuano a svolgere il loro ruolo. Per un certo periodo anche a Zurgonadi (ottobre) si svolgeva l’annuale festa, ch’era consacrata alla Madonna del Rosario.

  Una singolare ricorrenza era quella della Santa Infanzia, la cui processione si limitava a uno spostamento dentro il Seminario e locali adiacenti con speciali celebrazioni in cattedrale. Non ricordo se cadeva in una data fissa o meno, ma in una foto si segnala all’8 dicembre. Era stata avviata per spinta del missionario oppidese p. Filippo Antonio Grillo (1837-1912) che ha trascorso un cinquantennio in Cina e con la finalità di raggranellare fondi per le Missioni. Allo scopo un bambino vestito da cinesino con indumenti inviati da quello stesso personaggio si portava di casa in casa. A occuparsene era in primo piano la zelatrice Benedetta Messina. Stralciamo dal volume “Cina chiama Calabria” del 1981, un ns. scritto in relazione a una vera e propria rampogna contro gli Oppidesi, rei di non fare quanto spettava loro ancora nel 1884:

   Avendo dato una scorsa agli annali dell’istituzione e avendo notato come Oppido, la sua patria vi aveva contribuito nientemeno con “un bel’0’”, il P. Grillo arrossì per la vergogna e subito fu assalito da sdegno, per cui se la prese con la Calabria e con l’Italia, un gran bel paese davvero, dove “la pietà se ne va in fumo di sparerie e di pirotecnici che costano i bei quatrini, anzi i buoni scudi a centinaia e migliaia” Si, anche i divertimenti servivano al culto, ma non potevano certo sostituire l’optimum. Cos’era mai successo agli Oppidesi? Come mai, tra tante opere di pietà che pur praticavano, non volevano saperne di tenere presente quella della Santa Infanzia? Forse i suoi compaesani si erano lasciati abbindolare dalle chiacchiere di tale Francesco Sarcey, che alcuni anni pima su di un giornale francese aveva attaccato l’opera “chiamandola un’Istituzione fatta per ingannare la gente dabbene che si lascia tirar quattrini di che ingrassano i Missionarii apostolici?
  
   Nel 1911 p. Grillo finalmente era in grado di congratularsi con i parenti di Oppido per la buona riuscita della festa della Santa Infanzia e per la relativa sostanziosa raccolta. Entrambe le due iniziative si sono reiterate all’incirca fino al 1981. N’è testimonianza la foto scattata al “cinesino” Mimmo Giannetta esattamente in quell’anno e pubblicata nel volume di cui sopra.

 Ultimo festeggiamento è indubbiamente quello riservato alla Madonna dei Campi, cui si rende onore nella chiesa dell’Oratorio, che si svolge a novembre. Si è generato nel 1896 per merito del sacerdote don Giuseppe Mangione, che l’ha importato dalla Francia. La sua intenzione, come in un libricino, è di “conservare e ricondurre lo spirito cristiano in mezzo agli agricoltori”. Nel frangente si benedicono le messi e oggi anche i mezzi meccanici che servono per i lavori agricoli. Nel corteo in evidenza si stagliano ragazzette in abito bianco che recano in appositi cestini le primizie.
Rocco Liberti