lunedì 19 giugno 2023

Mémoires 7: QUEL TERRIBILE 1943 A OPPIDO E SULL'ASPROMONTE (di Rocco Liberti)

   Non capita tutti i giorni poter ripercorrere ansie , emozioni e paure della fase conclusiva dell’ultimo conflitto mondiale con la testimonianza diretta e inappuntabile di chi, come Rocco Liberti, allora era un ragazzo e, come tale, registrava, senza perdere un fotogramma, attraverso i propri occhi immagini e suoni che dopo varie decine di anni ci vengono restituiti vividi e sconvolgenti. E non si tratta di “semplici” ricordi conditi di emozioni e di fatti che hanno segnato e segnano la storia di ogni famiglia, perché il ragazzo di allora è lo studioso di  ieri e di oggi che sa coniugare emozioni ed eventi realmente accaduti con il filtro critico del metodo storico. Un unicum!

   Si aggiunga poi, insieme allo stile narrativo lieve e condito di nostalgica e commossa  ironia, lo spaccato  della società del tempo sulle balze e per le strade di un Aspromonte costretto anch’esso a pagare, suo malgrado, un durissimo tributo di sangue e fame a quel dio della guerra che imperversava allora , ma che ancora oggi è tutt’altro che annientato, e si ottengono queste nuove pagine inedite e struggenti, preziose per tutti, ma in particolare per questo territorio dove molte ferite della guerra di ieri non sono ancora del tutto rimarginate (Bruno Demasi)

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      Com’è stato vissuto l’ultimo anno di guerra, tale almeno per noi, dalla popolazione oppidese? In verità, il 1943 si è rivelato un periodo particolarmente arduo soprattutto per la carenza dei generi di prima necessità quali pane e pasta. Questi indispensabili prodotti alimentari, quando c’erano, venivano consegnati alle famiglie solo dietro esibizione della carta annonaria, dalla quale si staccavano delle apposite cedole, ma queste risultavano sempre insufficienti. Interessante il pane con l’aggiunta o supplemento come si diceva! Accade di norma che la forma di pane pesata prima di essere introdotta in forno, a cottura avvenuta riporti un peso inferiore. Bene! In quella travagliata fase, in cui pochi grammi di cibo potevano fare la differenza, imperava l’ordine di pesare il pane da consegnare e, nel caso, di allegare un eventuale integrazione. Alle guardie comunali era demandato il compito di controllare e, ove si accorgevano del dolo, per il fornitore scattava senza indugio la denunzia. Era dato avvertire casi in cui le donne, esperiti pochi passi da una bottega, erano fermate e obbligate al controllo di rito. Noi bambini eravamo sempre pronti ad accaparrarci quanto veniva consegnato di conserva. Era come una gara! A sera la razione consisteva in una fetta di pane ciascuno, ma chi ci arrivava! Correndo di quà e di là al vespro sentivamo la necessità di assumere qualcosa, ma alla richiesta puntualmente la mamma non poteva che dire: se la consumate a vespro, regolatevi che stasera dovrete fare passo…! Ma, se mancava il pane figuriamoci quanto proveniva dal nord-Italia o addirittura dall’Estero. Dalle mense erano del tutto spariti, tra l’altro, perfino il riso, lo stocco e il baccalà. È il caffè? Nemmeno a parlarne! Lo sostituiva malamente l’orzo. Che brutto rimedio! Ancora risento il puzzore di quand’era messo sul fuoco ad abbrustolire! Ci faceva scappare a gambe levate.

       A un bel momento anche i generi alimentari con la tessera, soprattutto il pane, sono venuti a scarseggiare e il caroviveri opprimeva e come. Per cui alla popolazione non è rimasto che protestare vivacemente contro il grave stato di cose. E con chi se l’è presa? Naturalmente con chi al tempo reggeva la cosa pubblica! Si è vista una massa di gente, soprattutto donne perché i maschi erano a servire la patria in armi, che si è portata avanti al municipio ad elevare una vivace protesta di massa. Non so cosa di preciso è successo nel grave frangente, ma, non ottenendo alcun risultato, la fiumana di popolo si è indirizzata a casa del podestà dell’epoca, il notaio Sposato e alla nessuna o timida risposta si è data a una sassaiola che ha ridotto in frantumi i vetri delle finestre. Dopo il podestà Riccardo Gerardis, che aveva retto il Comune per un lungo periodo, si erano alternate per brevi periodi una serie di persone improvvisate per la carica e che d’altronde, dato il frangente che si viveva, non avevano alcuna possibilità di agire efficacemente, il poeta Tedeschi e l’avv. Pugliese.


   Esisteva anche la pizzàta, un termine derivante sicuramente da pizza. Era un tipo di pane preparato con farina di granturco che si consumava perlopiù nella frazione Piminoro. Era di certo un’eredità serrese. Quando c’era di tutto e di più lo si disdegnava, ma in grave penuria era ricercato e le file di persone a fronte di una rivendita improvvisata si offrivano più che folte e pronte alla zuffa. Ne ricordo una davanti alla farmacia Musicò su via Garibaldi. Una fornata è finita in un battibaleno e dopo un accapigliamento corale in men che non si dica non è rimasta nemmeno una mollica. Tale farina la si usava anche per fare la polenta o frascàtula. Della stessa si preparavano parimenti dei bastoncini o altre forme che si ponevano a friggere in padella od anche al forno. Quanto similmente prodotto si mangiava per fame, ma non è che venisse proprio ricercato. Alla lunga sdingàva cioè dava la nausea.

    Ma ci si cibava di qualsivoglia frutto della terra, financo delle erbe più strane come i “croschi ‘i vecchia” snobbati per la loro coriaceità. Le mamme nell’incontrarsi commentavano l’un l’altra: a undi rrivàmmu! ‘U mangiàmu croschi ‘i vecchia”! Era invero una sorta di bietola dura e legnosa piuttosto disdegnata. I ragazzi facevamo man bassa di lupini portati a maturazione a forza, frestonache (pastinache), ferrubbi (carrube, erano così dolciastre che a malapena riuscivi a mangiarne qualcuna), ceci e favuzzu (fave secche tostate) e perfino pagnocchej ‘i sant’Antoni, noduli di un tipo di tarassaco che cresce ovunque. Sono riusciti davvero provvidenziali gli orti di guerra. Erano questi degli spazi liberi nel corpo del paese che si concedevano in comodato d’uso a chiunque ne faceva istanza. In genere consistevano in superfici accosto alle proprie case. A Oppido se ne sono visti parecchi. Ma se, a guerra finita, i più sono stati smantellati, alcuni sufficientemente ampi hanno continuato ancora per molto e tutti potevano recarvisi a comprare ortaggi. Deliziose le lattughe e la verdura che si ricavavano nell’orto della Rizza, sotto l’antico campo sportivo e al posto degli edifici dell’Ina Casa o nell’orto di Lipari, di fianco a una sua casa popolare all’inizio della via Piliere, esattamente dove ora si avvisa il complesso edilizio di Pignataro.

    Ma, fatta la legge trovato l’inganno. Fioriva alla grande il suttamatafaro, cioè la vendita di contrabbando. Merci di carattere alimentare ne arrivavano dalla zona ionica, innanzitutto da Plati. Da questo paese si dipartiva il così nomato Prussio, un Mico Feis figlio della mammana di cui abbiamo detto in altra puntata, che con il suo carretto trainato da un mulo trasportava a Oppido grano e altre derrate commestibili. Ma se ne introducevano altresì da molteplici contrade. Il mulo del Prussio! Questi fruiva di una baracca nel sito dove ora si offrono le case a fronte del vecchio cinema. Vi custodiva la bestia e nei caldi pomeriggi faceva la siesta lasciando all’esterno il carretto con le stanghe alzate. Poteva riposare tranquillo? Macchè! Aveva avuto forse il piacere di appisolarsi che ci precipitavamo a capovolgerglielo. Al trambusto che si produceva usciva difilato e gli improperi con parolacce sonanti al nostro indirizzo salivano alle stelle. Dai paesi marini dello Ionio arrivavano di norma anche i pesci, soprattutto alici e varia minutaglia e i famosi dormituri, una specie di chiocciole, ma non sono in grado di testimoniare se il flusso persistesse anche durante il periodo bellico. A pace arrivata i pisci ‘i retumarina hanno comunque rifatto la loro comparsa. Il maggior flusso di prodotti ittici ci proveniva però di solito dal litorale tirreno e le bagnarote tipo la zi’ Paola e la zi’ Rosa appena arrivavano già dal carrozzino si davano a vociare annunciando la loro mercanzia. Che succedeva! Che la popolazione d’un subito si portava al Mercato con piatti e piattini, che a un bel momento nell’urto per forza di cose se ne volavano via. Meno male che i più erano confezionati con la latta. È successo a un bel momento che per evitare ogni sorta di tumulti il Comune ha pensato bene di allestire un gabbione in ferro dove le venditrici potevano stare a loro agio senza sussulti di sorta. Agli acquirenti perciò non è rimasto che porgere il piatto dall’alto dell’inferriata. Richiesta, esibizione del piatto, pagamento del pesce e consegna dello stesso avveniva perciò tutto tramite le sbarre. Con tutto ciò non è che le risse mancassero, anzi!

     All’epoca prosperava anche la pasta nera, non quella di oggi molto appetibile, ma così nera che a ingurgitarla ci voleva uno stomaco di ferro. Mio padre, trovandosi per l’obbligo militare in quel di Vibo Valentia, territorio intensamente coltivato a cereali, ne comprava una cassa e questa arrivava, non so come, a Oppido. A destinazione il contenuto lo si suddivideva tra diverse famiglie. A saldare il costo totale, evidenziandosi le borse semivuote, allora non poteva farvi fronte nessuno da solo. C’era anche pasta di ceci, fave e lenticchie combinata variamente. E non ne comunico il sapore! Con le farine ottenute dagli stessi prodotti si confezionavano pure delle pitteje (piccole pitte) che si friggevano in padella. Allora il cattivo odore saliva veramente alle stelle. Mah! Era d’uopo pur sostentarsi! Le fornate di pane misto ai cosiddetti viscottej erano sufficienti a tirare una ventina di giorni. Certo, all’ultimo s’imponevano denti di gigante a meno che non si ammollasse il tutto in acqua.

    Ma non era unicamente la fame a tormentarci. I passaggi di stormi di aerei, le fortezze volanti, si andavano facendo più insistenti, per cui la precipitosa fuga di giorno o di notte nelle prospicienti campagne si reiterava più spesso. Al primo allarme le mamme (i padri in buona parte erano sotto le armi) c’infagottavano e ci trascinavano nei vicini poderi, dove in qualche contingenza trascorrevamo l’intera nottata all’addiaccio. Quasi sempre si mirava a Vajca, dove c’erano case abitate dalle famiglie Maruzza, Timpano e Fotia o al Piliere, dove ora sorge il così battezzato Villaggio Mancini, in appezzamenti custoditi dai Napoli. Al fragore di bombardamenti in lontananza dirigendo lo sguardo si tirava a indovinare se il sito colpito riguardasse Reggio o Messina o altri. Se ne avvisavano distintamente i bagliori. Quando succedeva la calma poi non erano rari gli episodi che inducevano al riso. E come comportarsi altrimenti tra una massa eterogenea di gente accomunata solo per necessità! Ho viva memoria del “Faru” (Micuzzu Lofaro), che sgridava chi si azzardava ad accendere una sigaretta. Secondo lui, ma anche a dire di altri, quella minuscola fiammella avrebbe potuto farci avvistare da qualche pilota di aereo in transito. Veniva però sempre zittito con scherzose rampogne.

       Una grande paura ci ha assaliti un mattino. Appena alzatici e messo il naso fuori, siamo stati testimoni di un insolito evento. Dalle alture di Piminoro si dipanava un imponente fascio di luce luminosissimo. Di primo acchito il pensiero è corso a una probabile arma ivi piazzata dai nemici, per cui non ha tardato a instaurarsi una psicosi collettiva. Le autorità immediatamente avvertite hanno inviato persone in missione onde accertarsi dello strano fenomeno anche perché tutto era silenzio. Né crepitare di cannoni o di mitraglie né altro. Il segretario politico del PNF, rag. Muscari, si è presto attivato e con i carabinieri, le guardie comunali e altre persone vi si è immantinente recato. Non mi è noto se al tempo ci fossero ancora dei militari a Oppido, ma immagino di sì. Il timore restava alto e non si vedeva l’ora che il gruppo rientrasse. Verificata ogni cosa tutto si è risolto per il meglio. Si trattava di cosiddetti palloni frenati, una specie di aerostati fissati a terra con lo scopo di una mirata osservazione.

  

       Pervenuti al mese di luglio, gli avvenimenti stavano ormai per precipitare e la trasferta quotidiana nei campi non bastava più, per cui chi possedeva un bene agricolo poco lungi dalla sede di residenza ne approfittava per trasferirvisi. Chi non ne aveva si faceva ospitare da una famiglia amica. I miei in un primo tempo ci indirizzavano alla Petra, un appezzamento ricadente sulla strada per Oppido Vecchio dalla zona sud, ricco di frutta, in maggior misura fichi e fichidindia. Onde anticipare i tempi ed eludere quanto possibile i tragitti di utilizzo comune, sgattaiolavamo dal luogo in cui è posta la chiesa dell’Oratorio e attraversata la proprietà dei Coco c’immettevamo sul tragitto che conduceva alla mèta. Vi stavamo durante il giorno, ma la sera si rientrava regolarmente a casa. Una mattina abbiamo rilevato che la notte precedente aerei nemici avevano lanciato manifestini e opuscoli che, dettagliando le malefatte del regime, invitavano alla sollevazione. Si trovavano sparpagliati dappertutto.

    Non ritenendo adeguato un tale accorgimento, i miei hanno deciso di trasferirci in toto ad altra tenuta molto più estesa e ricca di ogni ben di Dio che possedevamo al di là di Messignadi, Faruni (Farone, Bosco Farone). Era porzione dell’antico feudo degli Spinelli. Lì abbiamo avuto finalmente di che mettere sotto i denti, ma in abbondanza cibo cosiddetto povero. Non scarseggiavano la verdura, i zughi (songo), i gurràjni (borragine), patate, fagioli e frutta, tanta frutta, pesche, nocepesche, melagrane, fichi e stava per giungere a maturazione perfino l’uva. A proposito di fichi con mio fratello Michele ogni giorno si svolgeva quasi una gara. Andavamo di primo mattino a tastarli sugli alberi più accessibili, ma erano abbastanza acerbi. Pazienza! Ci ritornavamo in sul far del mezzogiorno e replicavamo la medesima azione, ma, caspiterina, era ancora impossibile cibarsene. Alla terza palpata in serata erano semi mollicci e quindi li ingoiavamo tranquillamente. Di sicuro non avevano raggiunto il massimo! In verità, li avevamo fatti maturare a forza. Occorre dire che, contrariamente al paese, non difettava la carne. Si trovavano in tanti a macellare di nascosto animali di piccolo taglio, la cosiddetta minuta e di volta in volta l’informazione veicolava a tam tam, per cui si sapeva in anticipo dove il misfatto si sarebbe commesso. Soltanto che non sempre si palesava il danaro per comprarne qualche libbra.

   Alla sera padroni e coloni ci si radunava dinanzi al palmento, al chiaro di luna se c’era, diversamente al buio, e si passavano in rassegna fatti reali e ipotizzati. Una notte che l’astro notturno si attestava alto sul cielo, un tizio ha allarmato gli astanti affermando di avere avvistato un malospirito che si aggirava alle spalle della costruzione. Si è suscitata subito una baraonda. I bambini ci siamo spaventati, ma il colono cumpari Cicciu Punteri detto Pilato (a Messignadi è raro rinvenire qualcuno che non sia conosciuto per il soprannome; a volte se chiedi col nome e cognome non lo conoscono) perché in una circostanza gli era stata rovesciata addosso una pentola di acqua calda, afferrato un nodoso bastone e bestemmiando la melogna si è mosso trascinandosi appresso altre persone del pari animose. Che s’è visto? Una donna anziana designata ‘a Cìnnara in tutta sottana bianca annaspava con altro randello sul muro posteriore. Cos’era intervenuto? La poveretta, scarsamente vedente, si era mossa chissà per quale motivo dalla casetta dove stavano rifugiati i familiari del fattore degli Adorno distante all’incirca un centinaio di passi, ma aveva perso l’orientamento e quindi vagava senza sapere dove si trovasse. Aveva beccato il muro e questo le si opponeva ostinatamente. È finito ovviamente tra commenti e risate.

       I malispiriti! I cattivi spiriti, in antica età costantemente in voga, ma oggi con il sopraggiungere della civiltà e della frequenza alle scuole di ogni grado scomparsi, erano i protagonisti dei racconti che si facevano accanto al camino o al braciere od anche all’aperto. Nelle calde serate era normale radunarsi nei pressi della porta di casa di una famiglia, che all’occorrenza offriva quanto occorrente perché potessero accomodarsi amici e conoscenti. Una sedia non si negava a nessuno. Si formava ad ogni occasione un gruppetto affiatato che discuteva di fatti privati, politica, eventi del giorno e di altro ancora, ma, alla fine, dai e dai, non mancava il fatterello con protagonista un malospirito offerto da chi giurava sulla sua attendibilità. Tutti raccontavano di incontri con defunti, avvisi espressi dagli stessi, otri caricati su muli che quando li si spostava per una scusa qualunque emettevano una voce che avvertiva di non arrecare loro del male ecc. C’era una varietà di argomenti che non aveva fine. Il perito I., uomo serio a detta corale, tra l’altro ha raccontato di quella occasione in cui, portatosi in sulla mezzanotte alla fontana di Piazza Regina Margherita al fine di bere, ha notato una bella signora che vi attingeva. Alla domanda se poteva accostarsi a soddisfare il suo bisogno di colpo ha udito come uno scoppio, è stramazzato per terra e non si è reso conto più di altro. Ripresosi dallo stato confusionale ha dovuto notare che la signora si era letteralmente volatilizzata. Cummari Maria ‘a ‘Nnisa, una mite contadina, invitata ad ogni piè sospinto a narrare di quel suo viaggio a Roma negli aa. 20-30, che faceva svagare gli astanti per il suo candore, sosteneva con disinvoltura che la notte, nel mentre era a letto sentiva come un borbottìo. Si affacciava e percepiva una schiera di trapassati che procedeva in fila recitando il Rosario. Era naturale che lei si accodasse e operasse nella stessa guisa e, a cammino esaurito, se ne tornasse serenamente a casa. I ragazzi eravamo avvinti da simili narrazioni, ma, ahimè, quando si appressava l’ora di andare a letto, se non veniva qualcuno ad accenderci la lampadina, si prospettavano guai seri!

   In quei tristi momenti forieri di preoccupazioni per l’avvenire la gente le escogitava tutte. Non avvedendosi vie di uscita, ricorreva addirittura a comportamenti di carattere magico o pseudo tali. Me ne sovviene uno. Delle vicine di casa alla sera si riunivano all’aperto e vi si trattenevano a lungo. I bambini eravamo a letto da un pezzo, ma esse di tanto in tanto facevano la mezzanotte e si mettevano in vigile attesa. Uno squittìo d’uccello, lo scatto di un gatto, il suo colore, un chiarore improvviso o un rumore qualsiasi avrebbero loro indicato quanto sarebbe poi accaduto in riferimento alle sorti della guerra o a un desiderio espresso in cuor loro. Quasi tutte avevano un congiunto militare e le lettere per forza di cose stentavano ad essere spedite e recapitate. Non solo, ma, risultando parecchio analfabetismo, dovevano far ricorso ad altri. Rammento un’amica di famiglia, Teresina, che se le faceva scrivere da mia zia Concetta. Me ne dovevo scappare per evitare di riderle in faccia, in quanto le parole “caro sposo” s’inseguivano ad ogni riga. E mia zia a reiterare: va bene caro sposo, ma poi?

    Faruni col palmento culminava in cima a una collinetta, da cui avevamo agio di scorgere molti particolari oltre il viavai sulla strada per Messignadi. In una congiuntura ci è capitato di assistere all’inseguimento di due aerei proprio sulle nostre teste. Immaginarsi l’apprensione! Alla fine, di volta in volta che si alternavano le distruzioni dei ponti stradali operate delle truppe tedesche in ritirata, i coloni declinavano il nome dei posti dove si erano verificate. Inizialmente è saltato il ponte degli Archi, poi quelli della Ferrandina, di Castellace, Varapodio e Marro e giù giù proseguendo.

   Un vero e proprio panico l’abbiamo vissuto invece un mattino che, come periodicamente facevamo, ci siamo avviati verso Oppido. Sorpassata Messignadi, all’imbocco delle viuzze che portavano da un lato al distrutto convento dei domenicani e dall’altro a Tresilico (nei cui pressi peraltro stavano scavando nel tufo un rifugio, che ho visitato, ma che poi per il precipitarsi degli eventi non è stato completato) siamo stati sorpresi dal bombardamento di Rizziconi e zone limitrofe. Lo abbiamo saputo dopo, ma in verità la preoccupazione è volata a Oppido. Le deflagrazioni sembravano troppo vicine. Dire che lo spavento e l’apprensione hanno toccato l’acme è limitarsi a poco. Ci siamo senza indugio ritirati in un settore ombroso, quasi che potessimo essere maggiormente protetti dal fogliame degli alberi. C’era chi piangeva chi imprecava e chi raccomandava l’anima a Dio. La gita a Oppido di tanto in tanto era necessaria sia per operare ricambi sia per prelevare pane e altri generi ed anche per vedere se a casa tutto era rimasto come l’avevamo lasciato. Ma che! Di ruberie allora neppure l’ombra. Non c’era di che sgraffignare e gli uomini se non in guerra erano anche loro rintanati nelle campagne. Abbiamo tentato di proseguire, ma giunti sulla parte alta del costone che guarda alla fiumara di Mazza coraggiosamente abbiamo fatto marcia indietro. Solo una giovane ardimentosa per necessità ha proseguito. Era Catuzza Barillaro (Catuzza du’ càrciru), che accudiva alle locali Carceri Mandamentali, delle quali suo padre era custode. Ho ancora nella mente quella agile figurina che a distanza percorreva il sentiero accosto alla campagna dei Coco (altra famiglia), noti per la loro longevità, per condursi allo sbocco del cimitero ed essere così più vicina alla sua residenza. La signorina Barillaro, persona alquanto simpatica e spiritosa, è morta a cento anni suonati nel 2021.

   Arrivati all’8 settembre e proclamato l’armistizio, l’esercito italiano si è squagliato come neve al sole. Ci trovavamo come di consueto in vicinanza del palmento quando si è presentato tutto trafelato Ciccio Punteri figlio, poco più grande di me, ad annunciare che c’era un soldato che chiedeva di essere ospitato almeno per quella notte. All’accoglimento della richiesta si è affacciato mio padre che ancora vestiva panni militari. Si era fatto a piedi tutto il percorso da Vibo a Farone attraverso viottoli di campagna e scavalcando fiumare, come un po’ tutti i militari lasciati allo sbando. Dire che c’è stata un’esplosione di gioia è dire poco. Dopo qualche giorno si è sparsa la notizia che gli Americani avrebbero fatto saltare in aria la santabarbara che si trovava allestita a Taurianova e che sarebbe stato un botto tremendo. D’altronde, in linea d’area eravamo alquanto prossimi. Logicamente si stava tutti col fiato sospeso e in attesa di guai peggiori quando a un tratto abbiamo visto in alto come un grande fungo di fumo e contemporaneamente sentito sì il fragore, ma in tono inferiore a quanto previsto. Più che altro si è notato un vistoso spostamento d’aria. 

   Rientrati a Oppido dopo qualche giorno dal forzato esilio in campagna siamo stati messi al corrente del grave fatto d’armi ch’era avvenuto in montagna, sullo Zillastro, dell’armistizio concluso tra italiani e americani e delle bombe cadute in prossimità del cimitero. Nell’immediatezza la popolazione, allora numerosissima, la sera sul tardi è affluita in cattedrale, ha preso la statua della Madonna Annunziata e l’ha recata in processione a ringraziamento della fine di ogni pena. Le strade erano affollate come non mai. Si cantava, si piangeva e si applaudiva. 

Rocco Liberti