martedì 22 dicembre 2020

CHI SI E’ ACCORTO CHE UN ALTRO AFRICANO E’ MORTO “COME UN CANE” ?

di Bruno Demasi

  
     «Cassama Gora è morto come muoiono i cani, sul ciglio di una strada non illuminata, mentre il resto del mondo vive il rammarico del mancato cenone natalizio». Sono le parole del sindaco di San Ferdinando, Andrea Tripodi, che ben sintetizzano quanto è avvenuto la sera del 18 dicembre scorso a un giovane africano del Senegal che dopo una lunga giornata di stenti e di fatica attraverso la strada dell’orrore che attraversa la I zona industriuale, tra il porto di Gioia Tauro e San Ferdinando, al buio stava facendo ritorno sulla sua vecchia bicicletta alla tendopoli dove aveva avuto la fortuna di trovare alloggio a differenza delle migliaia di Africani che dopo la distruzione della vecchia tendopoli voluta due anni fa da Salvini ancora oggi sopravvivono alla fame e al freddo sfollati nelle campagne di Rosarno e di San Ferdinando. E’ stato falciato da un’auto che – secondo quanto è stato detto in un primo momento – non si è neanche fermata per prestare soccorso: un altro granello di un rosario infinito di morti dalla pelle nera di cui non si cura nessuno e, se lo fa per il tempo necessario a parlarne in tono lacrimoso che puzza di paternalismo a un miglio di lontananza, se ne dimentica subito dopo, perchè i riflettori calabresi hanno altro da illuminare...o da nascondere nell’ombra...
    Già dopo qualche giorno dalla sua morte violenta e della sua frettolosa sepoltura in una delle tombe più periferiche di un marginale cimitero della Piana o della partenza della sua salma verso il paese d'origine nessuno di sicorderà di lui, per giunta sotto le feste mirabolanti del Natale laico di sempre che quest’anno contende i riflettori al Coronavirus e alle sempre più becere diatribe di una politica mestierante e vuota come appare nella sua nudità se le si strappano di dosso i lustrini  e le false discussionidi cui si ammanta.
   E’ un film che conosciamo già, un oblìo frerttoloso che non ha risparmiato la vicenda di Becky Moses o quelle delle centinaia di Africani che hanno trovato una morte banalissima e drammatica nel grande tritacarne umano chiamato tendopoli di San Ferdinando o nelle sue adiacenze.
   Chi si ricorda ancora di Ambotu (nomi di fantasia) falcidiato da una fucilata mentre raccoglieva in una discarica qualche pezzo di lamiera e di plastica per costruirsi la propria baracca ai bordi della tendopoli? Chi si ricorda di Sanuma vittima dello scherzo dei giovinastri di buona famiglia che nel cuore glaciale di una terribile notte di qualche inverno fa hanno lanciato una palla di stracci incendiati sulla sua baracca di teli di plastica trasformandola immediatamente in un rogo e riducendo il suo viso in una maschera di pelle accartocciata e mostruosa dopo la sua lunga odissea da un ospedale all’altro?
    Chi si ricorda di Mussakua colpito in pieno da un autocarro nella stessa strada in cui è caduto Gassama due giorni fa e trasformato in un gomitolo di carne e di ossa miracolosamente sottratte alla morte nell’ospedale metropolitano di Reggio Calabria, all’uscita del quale, dopo un calvario di mesi, nessuno voleva accettarlo per la sua lunga convalescenza se non le suore di Madre Teresa di Reggio Calabria-Modena, che non badano certo al colore del viso, ma neanche alle fattezze inguardabili devastate per sempre  per concentrarsi solo a lenire e curare le  decine di ferite rimaste aperte? E chi si ricorda dei tantissimi altri, dei troppi morti di cui appena un nome – non sempre quello vero rerperibile in un documento - scavato con un chiodo nell’intonaco ancora fresco e frettoloso della sepoltura, ne ricorda l’infelice esistenza agli sguardi distratti dei Calabresi in visita ai loro defunti all’interno dei vari cimiteri di questo lembo di terra dimenticato anche da Dio. 
 
    «Si, una tragedia che, però, non può essere banalizzata e ridotta a fatalità – continua a dire Andrea Tripodi - una tragedia da attribuire invece alla responsabilità degli uomini perché il degrado, l’incuria, la desolazione, il buio che avvolge il teatro di questa ennesima morte non è legato all’imponderabilità ma alla indifferenza accidiosa e malandrina di chi ha consentito che fosse trasformata in pattumiera un’area destinata allo sviluppo e al fermento produttivo...Una tragedia che, con la sua durezza cuspidata, ci interroga e ci costringe a riflettere sul fenomeno migratorio all’interno della Piana, da molti vissuto come un fastidio, da altri, al contrario, come occasione da sfruttare ma da rimuovere subito per non essere contaminati dalla sua cenciosa presenza...Un atteggiamento, d’altronde, condiviso e promosso da larga parte della classe politica che con i suoi filtri xenofobi o anche caritativi dimostra tutta la propria inadeguatezza culturale, prima che politica ad affrontare un fenomeno epocale intriso di sofferenza e di umiliazione». 
 
   Un risultato insperato Cassama però l’ha ottenuto senza cercarlo: per la prima volta dalla “nuova” tendopoli, dall'inferno della fame, del freddo, della prostituzione femminile e maschile e delle malattie, ma anche da tanti tuguri e campagne circostanti è partito e si è via via ingrossato un corteo di visi impietriti dal freddo e dalla paura e coperti da mascherine bagnate da lacrime di rabbia e di dolore, un corteo per chiedere “casa, diritti e dignità”.
   “Oggi nessuno va al lavoro – hanno spiegato gli organizzatori della manifestazione che hanno scritto al mondo la loro prima lettera aperta – perché un amico e fratello, dopo una vita di razzismo e sfruttamento, da quel razzismo è stato ucciso. La rabbia è troppa, non restare zitti, scendere in strada per ricordare Gora e lottare contro tutto questo è l’unica arma che ci resta”. “Un altro fratello ucciso, un’altra morte che si poteva evitare. Per questo, per tutta la giornata di oggi noi lavoratori della terra saremo in sciopero. Non troverete nessuno di noi nei campi, nei magazzini e nelle serre. Siamo stanchi di essere sfruttati e ammazzati dagli stessi che di giorno ci obbligano a lavorare senza contratti né garanzie nei campi, a vivere come animali e la sera ci tirano giù come birilli, perché la vita di un africano non conta. Non siamo braccia, siamo uomini”. “Da decenni ormai – riporta ancora il testo della lettera – veniamo qui per lavorare e senza le nostre braccia non ci sarebbero frutta e verdura né sugli scaffali, né sulle tavole ma questo non importa. Nonostante le promesse che arrivano ad ogni stagione, per noi non ci sono mai stati e continuano a non esserci alloggi decenti, contratti regolari, certezza e celerità nel rinnovo dei documenti, con lungaggini che ci costringono a rimanere qui per mesi. Vogliamo casa, diritti, documenti e lavoro regolare, vogliamo vivere una vita dignitosa come ogni essere umano meriterebbe.
     Schiavi mai”.