domenica 19 marzo 2017

COME EDUCA LA NDRANGHETA...

di Don Giacomo Panizza
    Un emigrante alla rovescia – dalla Lombardia alla Calabria - una scelta di vita coraggiosa, quella di don Giacomo Panizza, il sacerdote bresciano che nel 1976 si trasferisce a Lamezia Terme e fonda “Progetto sud”, una comunità di gruppi autogestiti, di famiglie aperte e di servizi, iniziative di solidarietà, condivisione, accoglienza per soggetti svantaggiati.
Dal 2002 don Panizza vive sotto tutela dopo le gravi minacce di morte del clan Torcasio per aver deciso di prendere in gestione un palazzo confiscato da destinare ai disabili a cui sono seguiti molti attentati. Nonostante il suo vissuto, don Panizza respinge seccamente l’appellativo di 'prete antimafia'.
   «La legalità – ha spiega ancora una volta nell’incontro di qualche giorno fa a Reggio Calabria - o la si fa, la si vive quotidianamente, oppure non esiste”. Non ci si può fermare ad un mero legalismo, deve essere un atteggiamento che pone al centro la vita umana; il nostro sforzo deve essere volto alla giustizia sociale».
   Farlo giorno dopo giorno non è certo facile, anche perché la ndrangheta vera, non quella del folklore legalitario, non va tanto per il sottile. Un po’ di paura c’è sempre. Per contrastare la mafia serve una capacità di lotta, bisogna stare insieme uniti.
   La ndrangheta dei colletti bianchi, quella degli insospettabili che ormai domina indisturbata tantissimi comuni della Calabria e produce apertamente vari livelli dirigenziali in tanti settori dell’Amministrazione Pubblica, da qualche tempo sta mettendo radici al nord. Che differenza c’è rispetto al Sud? “Sono due mondi completamente diversi - ha spiegato il sacerdote - , al Sud la mafia stra comanda, è parte integrante del tessuto sociale, le persone sono sottomesse, vivono quotidianamente l’umiliazione: la malavita è senza compromessi”. Al Nord il discorso è ben diverso: «Qui è solo questione di soldi, bisogna vigilare su ogni appalto, dietro ogni flusso di denaro».
   Don Panizza interpreta con il suo continuo presidio sul territorio, un impegno non solo fisico, ma soprattutto spirituale, un sentimento che le cosche tendono a reprimere. E con freddezza ed estrema sincerità, don Panizza racconta come le cosche cercano di frenare le sue iniziative. I mafiosi tagliano le gomme, manipolano i freni alle macchine, sono addirittura arrivati al punto di manomettere i freni alla vettura di un disabile.
    Nel suo ultimo libro “Cattivi maestri” traccia una riflessione attenta sulla “Pedagogia mafiosa” che continua ad allevare indisturbata generazioni di giovani venduti alle cosche e alla psicologia ndranghetistica con i suoi stili di vita inequivocabili e sulla sfida educativa che dovrebbe interessare la Scuola, la Chiesa e lo Stato per  recuperare azioni educative serie e progetti realmente efficaci. Una sfida che solo sporadicamente e debolmente viene accettata, al di là di tante azioni di maniera che  spesso sembrano voler coprire soltanto il nulla se non la connivenza… (Bruno Demasi)

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   Da circa un secolo e mezzo quelle mafiose sono tra le rare famiglie rimaste costanti nell’educare in proprio i figli e le figlie. A scuola li mandano esclusivamente per istruirsi. Educare alla mafia è una pedagogia coniata, sperimentata e trasmessa da loro, è un sapere che tramandano di generazione in generazione obbligatoriamente, altrimenti quei modelli di “famiglia” cesserebbero di esistere. I clan delle varie mafie meridionali sono flessibili e si ammodernano su tanti aspetti, ma non sull’educazione dei loro componenti. Non la delegano a nessun altro al di fuori della parentela più prossima e più fidata. Ci tengono di più, e snobbano quella proposta dalla religione e quella offerta dalla scuola e dalla patria.
     I clan mafiosi impartiscono un’educazione totale, dura, mortale. Sembra un controsenso moderno, ma ci sono adolescenti e giovani non appartenenti a famiglie mafiose che cercano i clan, attratti da determinati stili di vita dei coetanei e dei più adulti. Alcuni giovani cercano i boss per bisogno di una paghetta perché disperati, altri perché infatuati da ruoli e personaggi seguiti nei programmi televisivi, altri ancora perché succubi del mito del denaro facile, dell’uso delle armi e delle grosse moto o automobili quando mettono a segno i loro tipici colpi criminali. 

    Molti adolescenti non sanno a cosa vanno incontro entrando sotto giuramento in un clan mafioso, mentre …vi sono giovani che si muovono in gruppo imitando i malavitosi delle fiction, dei film e della realtà, i quali dicono di sapere a cosa vanno incontro, ma non gli importa la vita perché l’hanno già buttata via. Per genitori e educatori, la Chiesa e la polis, questi sono figli o giovani definitivamente perduti? Sembrano meno umani però sono veri, come vere le azioni criminali che compiono, come sono reali le cornici mentali e i valori che li guidano. Come purtroppo è vera l’assenza non di aule e scuole, ma di maestri e maestre dediti a loro.
    Tra i giovanissimi che incontro ce ne sono parecchi che pensano sia facile entrare in un clan mafioso. Che basti farsi avanti. Farsi vedere “bravi” e disponibili. Invece non conoscono le intenzioni dei mafiosi, secondo le quali sono i mafiosi stessi i soli che possono scegliere chi inglobare nei loro clan. Solo loro selezionano i minorenni da mandare allo sbaraglio, a commettere reati di poco conto – come, ad esempio, portare una bottiglia incendiaria davanti a una saracinesca o infrangere i vetri di un negozio o bucare le gomme di un’automobile – per non andarci di mezzo loro stessi. 

    Ai giovani di famiglia “regolare” che vanno in cerca di chi li “battezzi” nei clan, bisogna impartire l’istruzione che sono i mafiosi che li vagliano in base alle loro incapacità a ribellarsi ai capi e per le loro predisposizioni a farsi comandare…Occorre insegnargli che li preferiscono perché sfruttabili. Alcuni di questi, al fine di preservarli dall’educazione alla mafia che riceverebbero dai ragazzi “di famiglia” mafiosa rinchiusi nella stessa cella della prigione, d’accordo con il tribunale, li accogliamo in vari servizi della nostra comunità in alternativa al carcere…

    Dentro la mentalità comune confluiscono più forme di mafiosità: quella dei boss e quella delle donne di mafia, quella dei giovani in carriera nelle cosche e quella degli altri giovani, ma anche quella che si respira nelle relazioni, nelle parole e nei silenzi delle città e dei territori e – finanche dopo la scomunica di papa Francesco ai mafiosi – ancora delle Chiese. Si esprime attraverso regole “educative” forzate, piegate al raggiungimento degli scopi criminali dei clan, non certo alla crescita umana dei suoi giovani componenti, per i quali è stabilito che sia secondario persino il sentimento dell’amicizia.
     Rivolte all’interno come regolamenti rigidi, queste norme si impongono nelle comunità locali. Esse insegnano ai giovani il potere della forza, l’importanza di riprodurre modalità rigide e ripetitive di comportamenti sociali, quali ad esempio riscuotere il pizzo… 

    L’educazione dei giovani criminali avviene sul campo, anche attraverso le condanne, pure feroci, di coloro che sbagliano e cosi dimostrano che uno sparuto gruppo di persone riesce ad “ ammaestrare” interi paesi, interi quartieri, intere città. Un giorno in una scuola il dirigente scolastico convocò un boss il cui figlio di terza media faceva il “piccolo boss” con i coetanei e gli disse: "Signore, purtroppo Suo figlio a scuola fa il prepotente (leggi “mafiosetto”) con i coetanei". Come immediata risposta, il papà va dritto dal figlio e gli molla una sberla ricordandogli: "Che cosa ti ho insegnato io? Che queste cose a scuola non le devi fare!", precisando subito dopo:" E’ fuori che le devi fare!".