venerdì 28 novembre 2025

QUEL LEGAME PERDUTO TRA I CERTOSINI DI SERRA E CASTELLACE DI OPPIDO (di Bruno Demasi )

 
    Fonti classiche e testi storiografici moderni ("Chronicon Serrae San Bruno" ,"Storia della Certosa di Serra San Bruno" di Giuseppe Giordano: "I Cistercensi e la Certosa" di Giovanni Morelli) confermano che, dopo la morte di san Bruno (1193), la comunità di Serra si divise: una parte abbandonò la regola certosina per passare ai cistercensi di Fossanova e condurre vita più cenobitica, mentre l’altra si ritirò «alle falde dell’Aspromonte, nella zona di Castellace (oggi frazione di Oppido Mamertina)”. Ma cos’era successo esattamente?

    E’ documentato che alla fine del XII secolo la Certosa di Serra attraversò una fase di tensione interna. Da un lato permaneva la rigida impostazione eremitica di san Bruno; dall’altro cresceva l’attrazione per modelli più comunitari che stava conquistando parte del monachesimo europeo, soprattutto grazie all’impatto dei cistercensi. Le fonti (specie quelle storiografiche moderne sopra citate, che riepilogano materiale manoscritto perduto durante i terremoti calabresi) parlano di un gruppo di monaci disaffiliati, probabilmente non numeroso, che abbandonò la Certosa tra il 1180 e il 1200. Cercavano una forma di vita meno eremitica, più cenobitica, pur mantenendo una dimensione ascetica rigorosa. 

     Viene spontaneo a tal punto domandarsi quale via abbia seguito verso Sud il gruppo dei monaci dissidenti. E’ plausibile che nel percorso di trasferimento da Serra San Bruno, seguendo gli antichi tratturi di cresta che collegavano le Serre all’Aspromonte, il piccolo gruppo abbia percorso un itinerario naturale: Brognaturo → Mongiana/Bivongi → Cittanova arcaica → alture di Castellace.  Rimarrebbe tuttavia un nodo da sciogliere: si trattava del Castellace attuale frazione di Oppido Mamertina o del Castellace frazione, o meglio contrada rurale di Gerace? In effetti la scelta  dei monaci provenienti dalla  Certosa di Serra San Bruno di stabilirsi a Castellace di Oppido Mamertina piuttosto che a Castellace di Gerace potrebbe sembrare a prima vista meno ovvia, visto che Gerace era una località geopgraficamente non troppo distante da Serra San Bruno, se non ci fossero state alcune motivazioni fondamentali che non possiamo trascurare e che potrebbero spiegare ampiamente la loro  scelta:

  • Geografia e Percorsi: la Certosa di Serra San Bruno si trova più a nord rispetto a Gerace, in una zona montuosa e isolata, che era tipica per le comunità monastiche che cercavano luoghi lontani da centri abitati per vivere in clausura. Oppidum, e di conseguenza Castellace ( all’epoca indicato come “Boutzanon” nella toponomastica bizantina), si trova più a ovest rispetto a Gerace, ma ancora abbastanza isolato e vicino alle montagne ed offriva le caratteristiche di tranquillità che i monaci cercavano;

  •  Ragioni di opportunità politica e religiosa: Andrè Guillou, uno dei più grandi studiosi dell’età bizantina in Calabria, nel suo studio sulla diocesi di Oppidum , che documenta come indiscutibilmente esistente nell’XI secolo, “La theotokos de Hagia Hagathé” si sofferma ( pp. 24-25) con dovizia di particolari ad illustrare il territorio dell’attuale Castellace, frazione di Oppido Mamertina. Il nome bizantino dell’insediamento civile ivi esistente , come si diceva, era “Boutzanon”, un “chorion” ben abitato posto al centro di un importantissimo “droungos” difeso da un “pyrgos”( torre elevata di difesa). Si trattava di una circoscrizione rurale e fiscale di particolare importanza, formata da un centro abitato circondato da un’ampia fascia di colture , di terreni privati e di chiese rurali. In definitiva un borgo particolarmente importante e ricco, degno avamposto dell’autorità vescovile che aveva sede a Oppidum (Hagia Agathé, dal nome della sua theotokos) e giurisdizione religiosa e amministrativa sull’intera “tourma” delle Saline, corrispondente lato modo con tutto il territorio disegnato dall’amplissimo bacino del Metauro-Marro (Petrace). Che i monaci fuorusciti da Serra abbiano scelto proprio tale territorio ben difeso e nello stesso tempo particolarmente liberale e munifico nei confronti delle comunità monastiche è più che plausibile;
  •  Tradizione e Storia: Sebbene Gerace fosse un centro importante nel Medioevo, con il suo castello e la sua cattedrale, potrebbe essere che gli stessi monaci, o comunque la Certosa di Serra San Bruno, avessero scelto di espandersi in territori che ancora non erano troppo saturi di insediamenti religiosi. Inoltre, Serra San Bruno aveva una tradizione di insediamenti monastici isolati, come quello che si sviluppò a Boutzanon, l’attuale Castellace che potrebbe essere stato scelto proprio per il suo decentramento, che rappresentava l'ideale monastico della vicinanza, ma anche della separazione dal mondo esterno, senza la pressione di dover interagire con la vita di una città come Gerace.

    In definitiva, anche se Gerace sarebbe stata per i monaci in fuga una scelta "naturale" sotto alcuni aspetti, Boutzanon, cioè l’attuale Castellace di Oppido Mamertina offriva probabilmente un insieme di condizioni che favorivano prima di tutto la sicurezza, ma anche la tranquillità e l'isolamento monastico, caratteristiche molto importanti per la loro vita religiosa, senza contare che la vita cenobitico–ascetica a Castellace (Boutzanon) sicuramente avrebbe adottato una forma ibrida caratterizzata da preghiera comune (cenobitica); forte austerità personale (eremitica); lavoro agricolo e boschivo;integrazione minima con i villaggi dell’entroterra di Oppidum. Questa forma ricorda molto numerosissimi altri piccoli insediamenti monastici nel territorio di Oppidum anche non ufficialmente riconosciuti da grandi ordini.

    Probabilmente il nucleo monastico, econdo alcune ipotesi, si sarebbe estinto tra XIII e XIV secolo, forse assorbito nella rete dei piccoli cenobi locali oppure scomparso dopo terremoti e carestie. 
 
  Quali potrebbero essere le tracce concrete circa l’insediamento cenobitico proveniente da Serra sulle alture dell’odierna Castellace di Oppido Mamertina? La storiografia locale fornisce forti indizi topografici e tradizioni orali su antichi insediamenti religiosi nella zona di Boutzanon , spesso situati in posizioni elevate e appartate — tipiche di gruppi monastici provenienti da contesti eremitico-cenobitici. Non esistono però documenti diretti (carte, bolle) che menzionino esplicitamente gli ex certosini in questo territorio nel XII secolo: gli storici lavorano per concordanze tra: dinamiche interne alla Certosa, abbandono di monaci in quegli anni, presenza di strutture religiose arcaiche a Boutzanon. Peraltro, Poiché non esiste — al momento — una descrizione documentata di un “cenobio certosino a Castellace” (o almeno non pubblicamente accertata), è possibile solo un’ipotesi ragionata, basata su: caratteristiche del territorio, logica di insediamento monastico in ambiente montano / collinare, analogie con piccoli centri religiosi e “fortificati” montani calabresi.

    Gli unici riscontri di un certo rilievo sono costituiti dunque dai toponimi che ancora oggi caratterizzano il territorio dell’antica Boutzanon, come emergonmo dagli studi archeologici e storici sul luogo: alcuni potrebbero essere coincidenti con aree di antico insediamento, sebbene con datazioni molto precedenti rispetto al XII secolo. Possono tuttavia offrire utili tracce di continuità o riuso:

· TORRE CILLEA: indica un’altura nei pressi di Castellace e dà il nome alla contrada nella quale è documentato un sito archeologico dell’età classico-ellenistica che presenta resti murari di insediamento italico ellenizzato. Il sito e il nome indicano che l’altura era già stata abitata ed era ed è significativa come “luogo d’altura isolato” poten zialmente adatto ( in epoche successive) a rifugi monastici o comunità eremitico-cenobitiche; 

· TORRE INFERRATA( o “Torre ferrata”, “Testaferrata”):luogo citato come parte del territorio dell’attuale Castellace, con ritrovamento dell’iscrizione votiva ad Eracle Reggino. Le aree «Torre …» segnalano alture fortificate o comunque punti strategici; un antico uso religioso o funerario aggiunge un valore simbolico / sacro al territorio — che un gruppo monastico avrebbe potuto rieleggere a propria sede;

· CASTELLACE (moderna frazione oppidese): Località attuale; altitudine circa 214 m s.l.m.; popolazione modestissima; posizione montano-collinare verso l’interno aspromontano. Pur con caratteristiche attuali, rappresenta un centro di via d’accesso tra costa e monti — plausibile come “porta di montagna” per monaci in fuga o in cerca di isolamento;

· CONTRADE MINORI( alture circostanti che , a parte l’attuale Lubrichi – “Roubiklon” bizantino -, non sempre toponimicamente risultano chiare: Il territorio di Oppido / Castellace appare punteggiato da località con toponimi dispersivi legati ad alture, torri, campagne, grotte. Queste micro-toponomastische possono nascondere tracce — mura, anfratti, grotte — che in epoche medioevali tardive erano ideali per insediamenti monastici “silenziosi”.

    Osservazioni sul toponimo “Torre”: la ricorrenza di denominazioni come “Torre Cillea”, “Torre Inferrata / Ferrata / Testaferrata” conferma che in epoca bizantina tali alture ospitavano un sistema difensivo particolarmente importante (“pyrgos”) oltre che abitativo e cultuale. In molti casi, questi nomi sono sopravvissuti come tronconi toponomastici, anche se l’edificio o gli edifici originari da cui mutuavano il nome non esistono più.

Buno Demasi

sabato 22 novembre 2025

LA MISTICA CALABRESE DELLA PORTA ACCANTO: GIUSEPPINA BONAVITA ( di Bruno Demasi )


    C’è una linea netta e decisa che collega Buonvicino, l’antica Βομβακίω bizantina in provincia di Cosenza, a Terranova Sappo Minulio, l’altrettanto antica città della Piana di Gioia Tauro, ed è la parabola mistica ed esistenziale di Giuseppina Bonavita, scomparsa il 29 settembre del 2018, ma già acclamata da varie parti come la mistica calabrese contemporanea  della semplicità e della quotidianità. Una linea che attraversa simbolicamente tutta la Regione ed impregna di sé ancora una volta le menti di coloro che credono fermamente nella peculiarità di una terra teatro di mille soprusi e di mille povertà, ma al contempo fecondata da esempi di santità davvero imprevedibili..

    Padre Rocco Spagnolo, attuale superiore generale dei Missionari dell’Evangelizzazione, che proprio a Terranova ha trasferito ormai da tempo la casa generalizia di questa benemerita congregazione fondata da un altro calabrese, padre Vincenzo Idà, di cui è in corso il processo di beatificazione, è stato per oltre trent’anni infatti  il direttore spirituale di questa donna la cui parabola umana e spirituale è ancora in gran parte da conoscere. A lei, alla sua singolare vicenda egli dedica oggi un secondo prezioso studio “Giuseppina – Con la croce piantata nel cuore, uscito in libreria in queste settimane per i tipi delle Edizioni Leggimi.Ed è uno studio tanto più apprezzabile quanto più  si presenta agli occhi del lettore attento, sintetico e illuminante non solo per portare alla luce nuove tessere dell’esistenza singolare di Giuseppina, ma anche per manifestare  attraverso questa narrazione  gli aneliti  e i limiti, spesso pesanti  e fuorvianti, della religiosità calabrese. 

  Sotto questo aspetto il nuovo e avvincente libro che narra la storia spirituale fuori dal comune  di una donna, che è stata anche moglie e madre ed educatrice, diventa narrazione tra le righe del cammino durissimo che ancora occorre fare da queste parti per guadagnare elementi di sinodalità vera e non solo di facciata e per sfuggire alla  ricorrente tentazione del formalismo che soffoca ogni anelito di rievangelizzazione. “ Giuseppina c’è riuscita – afferma Padre Rocco Spagnolo – restando in comunione con Dio e con il prossimo.Mai doppia. Gesù non ammette l’ipocrisia!…una tentazione dell’uomo religioso; quando è portato ad assolvere pratiche esteriori come novene, tridui,persino la partecipazione all’eucarestia senza un rapporto di amore con il Sigtnore, è solo religiosità vuota. Che serve assolvere a tutte le pratiche di pietà, se poi si trascura la compassione per il prossimo, vicino e lontano? Va rievangelizzata la religiosità popolare, il culto esterno affinchè diventi fede in Gesù morto e risorto…”

   Emerge da questo racconto la figura di una mistica sui generis, che senza clamori, nella sofferenza familiare e personale, nella dedizione quotidiana a Dio, incarna un tipo di spiritualità privo di ridondanze e di croste, realmente aperto al dialogo con i poveri, i sofferenti, i consacrati, i sacerdoti, con tutti! E questo secondo ritratto tracciato da Padre Rocco Spagnolo riesce a individuare bene il punto d’incontro tra fede, sofferenza e quotidianità, dando nuova vita e nuova voce a una figura ancora da scoprire pienamente e che affonda le proprie radici nella tradizione religiosa popolare del Sud , ma lo fa con sguardo moderno, rispettoso e mai sensazionalistico. Da Buonvicino, dove aveva la propria casa e il proprio lavoro, a Terranova , dove aveva "adottato" per la sua prteghiera incessante i Missionari dell'evangelizzazione, Giuseppina Bonavita ha dato vita  nel silenzio ad armonie spirituali e umane fuori dal comune che ancora risuonano in quanti la conobbero ed ebbero la fortuna di fruire delle sue parole e del suo esempio.

   Il vigore di questa nuova  indagine sulla figura di Giuseppina Bonavita risiede infatti nella capacità di mostrarla al lettore non come un’icona irraggiungibile, ma come una donna concreta, figlia di questo tempo di mille contraddizioni e di mille evasioni, ma capace di trasformare il dolore in un cammino interiore profondo. E la  Calabria non è semplice sfondo, ma parte integrante dell’ esperienza mistica narrata, con i suoi paesaggi aspri, la cultura del sacrificio e della sobrietà antica e quel forte senso di spiritualità che da sempre attraversa questa terra di frontiera.

    Ogni pagina esplora le visioni, le prove interiori, i momenti di abbandono e di estasi con un equilibrio notevole: la dimensione mistica non è mai spettacolarizzata, ma resa evidente attraverso la sensibilità psicologica della protagonista e la sua capacità di leggere, nella sofferenza, un dialogo intimo con il divino. Il simbolo della “croce piantata nel cuore” diventa così la metafora di un’esistenza molto segnata, ma mai spezzata, in cui il sacrificio non annulla la persona, bensì la rivela. 
 
  Lo stile è sempre meditativo, talvolta contemplativo, e alterna pagine di intensa introspezione a momenti di vita quotidiana che riportano Giuseppina nella sua dimensione umana. L’autore riesce a mantenere un tono rispettoso e partecipe, evitando eccessi agiografici e lasciando che siano la voce e soprattutto gli esempi e i silenzi della protagonista a parlare al cuore del lettore.

    Ancora un libro eccezionale di Padre Rocco Spagnolo che con la sobria vis narrativa di sempre offre al pubblico un’esperienza spirituale intensa che nessuno si aspettava. Una lettura decisamente consigliata  a tutti, specialmente   a chi è affascinato dalle figure mistiche, dalle storie spirituali radicate nel territorio e da quei personaggi capaci di rendere visibile l’Invisibile attraverso la propria esistenza quotidiana.

Bruno Demasi.

martedì 18 novembre 2025

Viaggiatori in Calabria nel sec. XIX: AUBIN LOUIS MILLIN DE GRANDMAISON (1812) ( di Rocco Liberti )

   Un’altra ricca pagina di Rocco Liberti sui viaggiatori stranieri che nell’Ottocento dedicarono la loro attenzione all’attuale Calabria sulla cui situazione geografica, sociale ed economica annotarono  punti di vista preziosi anche oggi. Il viaggio in Calabria compiuto da Aubin Louis Millin de Grandmaison nel 1812 – raccontato nel suo  "Voyage dans les départemens du midi de la France… "– è una testimonianza  eccezionale non solo per la descrizione del paesaggio e dei monumenti, ma anche per lo sguardo illuminista con cui l’erudito francese osserva una regione allora poco conosciuta in Europa. Come è possibile evincere dalle acutissime indicazioni di Rocco Liberti, Millin unisce curiosità antiquaria, sensibilità estetica e attenzione etnografica: descrive rovine greche e romane, tradizioni popolari, usi locali, ma anche le difficoltà materiali del viaggio, rivelando una Calabria al tempo stesso affascinante e “selvaggia”. Il suo racconto contribuisce a costruire un’immagine della regione come luogo ricchissimo di suggestioni  geografiche, di eredità culturali e di storia antica sebbene   marginale rispetto ai circuiti culturali del suo tempo.( Bruno Demasi )
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     Proprio sul finire del decennio francese un’artista d’oltralpe, naturalista, bibliotecario, archeologo e storico dell’arte, nato nel 1759 a Parigi e poi morto nel 1818, si avventurava in Calabria seguendo la scia dei tanti viatori del grand tour pervenuti prima di lui. Al tempo della rivoluzione, nel 1793, è stato imprigionato, ma in seguito rilasciato. In carica quale direttore di varie istituzioni, in parte da lui stesso fondate, ha pubblicato alcune opere. Tra 1811 e 1812 ha girato variamente, in compagnia del pittore Franz Louis Catel (Berlino 1778-Roma 1856), in Italia e all’ultimo perfino in Calabria, dove ha raccolto testimonianze del passato ricavando interessantissimi disegni. Ha tutto riportato nel lavoro “Extrait de quelques lettres Adressées à la Classe de la Littérature ancienne de l’Institut impérial Pendant son Voyage d’Italie” (Paris e l’Imprimerie de J. B. Sajou, 1814). Il suo viaggio è una sequenza puntigliosa dei luoghi attraversati e delle testimonianze via via acquisite.

    Partito da Napoli il 6 maggio del 1812, in Calabria è arrivato da Lagonegro e il primo abitato è stato Castrovillari, sottointendenza della Calabria Citra, dove non ha rilevato alcunché di speciale, soltanto la fornitura di buoni muli. In luogo di andare a Cosenza, ha preferito spostarsi a Cassano e Lungro, quest’ultimo villaggio albanese dai costumi particolari, per vedere la miniera di sale. Ripreso il cammino, sulle strade s’incontravano solo alcune case bruciate e l’erba per bestie e uomini. I viandanti coi quali si accompagnava fortunatamente potevano godere delle provviste che i «buoni Albanesi» di Lungro avevano loro fornito. A Cosenza, capitale della Calabria Citra, dove sono rimasti tre giorni, hanno notato la presenza di buoni stabilimenti e di ogni specie di mestieri. Sita in un luogo confacente, la città aveva però all’estremità una «valle assassina», nella quale erano stati uccisi molti soldati e ufficiali francesi. Vi hanno cercato il luogo della sepoltura di Alarico, ma non sono approdati a nulla, in quanto il corso dei fiumi Crati e Sibari era stato deviato.

    Da Cosenza  il ritorno ancora sulla costa tirrenica lasciata a Castelli (?) e attraverso boschi e montagne arrivo a Paola. Questa città si è offerta in una bella posizione, col suo monastero di San Francesco e la relativa statua sulla cima di una roccia, che tutte le navi passando salutavano e, infine, con i suoi edifici, rivelatisi degni di ogni attenzione. Ne aveva già disegnati come pure ad Amantea e a San Lucido[1].

   La costa da Amantea a Nicastro induceva a un rapimento da non sapersi esprimere, purtroppo bisognava sottoporsi a un tragitto di ben 56 miglia senza imbattersi in altro che in una taverna, dove si poteva incocciare solo del vino cattivo e un tozzo di pane. N’erano causa l’incendio e il devastamento, cui erano stati sottoposti i villini che si trovavano nella zona. Scrive Millin a proposito: «non si vedono che testimonianze del furore degli uomini e delle prove di uno spirito sfrenato di distruzione»[2]

     Inoltro verso l’interno superando un bosco di mirti, ginestre e alberi dai fiori odorosi, i cui colori erano mirabilmente mescolati e arrivo di notte a Nicastro spossati e affamati. Nel sentiero che ve li aveva portati, il mulo di Millin aveva messo le gambe nella briglia di quello di Catel ed era diventato talmente furioso che il primo, che temeva di essere ucciso, è rimasto tutto ammaccato. A Nicastro, dove è stata rilevata appena un’iscrizione antica di scarsa importanza, si evidenziavano ferite vecchie e recenti, quelle del terremoto del 1783 che l’aveva parzialmente abbattuta e le altre causate da un torrente che in meno di un’ora ne aveva distrutto un altro tratto. Al posto delle case si notavano le rocce che vi erano precipitate sopra. Nuova tappa Monteleone, interamente annullata dal sisma e dove si avvertivano due magnifici palazzi atterrati. Le case ancora in piedi erano soltanto baracche di legno. A Monteleone la sosta di tre giorni ha fruttato la copiatura di alcuni monumenti e belle iscrizioni sconosciute, ma anche la possibilità di escursioni al Pizzo e alle rive del Golfo di Santa Eufemia, dove ci si è avvertiti di altre scritte latine inedite.

   Di nuovo sulla costa a Tropea e, quindi a Mileto, dove le tracce dello spaventoso sisma del 1783 erano evidenti. Millin è riuscito ad avere disegni sull’antica sistemazione e anche del sarcofago di Ruggero. Addirittura, facendo scavare poco discosto da quest’ultimo, ha ritrovato quello della moglie Adelasia. Peccato che nella distruzione del monastero erano scomparsi i preziosi archivi. Si è proseguito verso Tropea, dai cui pressi era dato mirare le isole Lipari e Nicotera, ma anche porzione delle coste sicule. Tropea, conservava alcune testimonianze medioevali e con Parelia (Parghelia) e Nicotera erano tutte città situate in siti deliziosi che richiamavano l’interesse anche per via del loro nome di origine greca.

    Nuova deviazione verso l’interno e presto a Seminara per accertarsi di quello che aveva causato il sisma, poi in serata a Palmi e l’indomani a Bagnara e a Scilla, tutti luoghi di poca attrattiva per quanto riguardava l’archeologia e la storia medievale. Millin ha fatto più volte il giro della rocca di Scilla e ha capito dalla natura delle cose perché gli antichi avessero un tempo creato il mito. Vi scorgevano attorno cani urlanti come nelle nuvole si vedono talvolta dei giganti. A Scilla si è fermato per un’intera giornata e ha potuto seguire la pesca al pescespada che si faceva ancora come ai tempi di Strabone. Però nessuna espressione greca da rilevare, in quanto ne aveva la lista e in essa non ne risultava alcuna.

   È stato indi a Reggio, dove ha dimorato ben 11 giorni e, tra i guasti del terremoto, ha rinvenuto parecchi piccoli resti monumentali e financo il nome in greco della città impresso su un laterizio. È passato al Camp de Piale (Campo di Piale) e a San Giovane (Villa San Giovanni) da dove si sentirebbe cantare il gallo siciliano, evidentemente quello sistemato sul campanile della cattedrale di Messina. Il viaggiatore, se non ha sparato a zero, ha visto pur anche la sfilata degli inglesi e ascoltato la musica suonata dalla fanfara e anche le donne messinesi che si recavano a Messa.

   Voleva procedere verso Bova, però trattandosi di una strada non facile e trovandovi scarsa attrattiva, ha deciso di ritornarsene a Palmi, non più a cavallo, ma via mare per passare tra Scilla e Cariddi e ammirarne le coste. Erano queste così vicine che le palle di cannone sparate dall’una arrivavano sull’altra. Quando si faceva fuoco da Pentimele si vedeva alzarsi in aria la sabbia che stava davanti alle case del faro. Lo stretto perciò si rivelava poco sicuro per le piccole barche, ch’erano costrette a rasentare la costa. Nonostante i manifesti pericoli e le ammonizione avute, Millin ha fatto di testa sua, ma, una volta a Palmi, il comandante gli ha detto che non avrebbe compiuto lo stesso percorso perché la sua era stata un’imprudenza bella e buona.

 
  Da Palmi si è avviato a Gerace, ma prima ha dormito a Casal nuovo (l’odierna Cittanova). Scavalcato il passo dei mercanti, ecco Gerace, sulla punta di una roccia, dove ha notato monumenti interessanti. Indi discesa sul piano ove era l’originaria Locri e nel quale era possibile ancora intravedere l’antica cinta delle mura e il tracciato in pietre quadrate. Sul posto ha operato fruttuosi scavi e copiato un bell’elmo di bronzo con una scritta greca in caratteri arcaici e un frammento di vaso, ma anche monumenti di epoca medioevale. Proseguendo, avendo a destra il mare e a sinistra in alto su rilievi inaccessibili le città e davanti soltanto argilla sabbiosa solcata a ogni momento da torrenti di acqua malsana e fangosa, si poteva arrivare a Taranto senza incontrare città alcuna. Rientro a Gerace dopo un cammino disagevole per un suolo bruciato dal sole e con caldo da forno, ma con la sorpresa di rinvenire palazzi di buon aspetto, i cui padroni avevano però scarsi rapporti con quelli delle città vicine.

    Riguardo a Gerace Millin lancia una stoccata contro Swinburne affermando di essere certo che con tali difficoltà quegli in quella città non ci sia mai stato e che nella sua fatica ha detto cose comuni che sapevano tutti. Dopo Gerace si è diretto a Roccella e sul luogo dove sarebbe esistita l’antica Caulonia, quindi a Isca e Stilo. Qui è stato interessato dalla «chiesa greca assai singolare», indubbiamente la Cattolica e dalla colonna con iscrizione greca. È stato appresso a S. Caterina Stallati (S. Caterina dello Ionio?) e poi è risalito verso Squillace, dove si è avveduto di alcuni stimolanti monumenti, tra i quali una chiesa forse abbattuta dai primi cristiani. Interessante la riflessione in merito alla costa: «il cammino di questa costa è così difficile, che bisogna farlo a piedi; i muli rischiano a ogni istante di precipitare, e i miei mulattieri espressero delle grida di rabbia per essersi impegnati: per buona sorte la scorta da cui ero accompagnato ha loro imposto il silenzio. Occorre sempre avere una scorta nelle Calabrie, se non è contro i briganti, serve almeno per essere padrone dei mulattieri, e forzare i contadini a servire da guide. Non c’è alcuna considerazione per i viaggiatori che non hanno un fucile in bandoliera, o che non sono accompagnati da uomini che ce l’hanno»[3].

    A Catanzaro nessun peculiare segno di attrazione, ma pausa forzata per la quinquina (chinino) somministrata al disegnatore e al domestico che avevano la febbre. Si è tergiversato su Crotone, ma alla fine, per la ripugnanza di Catel ad andarvi, si è puntato su Taverna, però prima passaggio da Tiriolo, dove oltre alle antichità c’era da ammirare l’affascinante costume delle donne e a Genigliano (Gimigliano). Si trattava di città ch’erano state preda delle fiamme accese da bande di ribelli. A Taverna hanno attratto i visitatori soltanto i dipinti del celebre Mattia Preti, di cui hanno preso naturalmente le copie. L’erranza è seguitata per la Sila e San Giovane di Fiori (San Giovanni in Fiore), che ha offerto ben poco, quindi per Rossano ed escursione di rito all’antico monastero che va sotto il nome di Madonna del Patire, vetusta costruzione depredata e saccheggiata dalla malvagità degli uomini. Lapalissiano che abbia acquisito i disegni della chiesa, del pavimento in mosaico di tipo arabeggiante e di un grande vaso greco in marmo con iscrizione, ma pure di tant’altro.

A Corigliano il richiamo maggiore è stato per il grande acquedotto e per il sito dove era l’antica Sibari, al suo tempo solo una pianura di cardi alti e spessi. Si voleva proseguire lungo la costa fino a Taranto, ma l’arcivescovo di quella città lo ha sconsigliato, per cui si è affittata una vettura che da Cassano ha materializzato il trasferimento a Castrovillari. La strada fino a Padula non ha mostrato alcuna cosa capace di attirare l’attenzione e l’arrivo a Napoli è avvenuto il 18 luglio[4]
Rocco Liberti 
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[1] MILLIN…, Extrait …passim. 
[2] Ivi, p. 24, trad. dal francese. 
[3] Ivi, pp. 31-32. 
[4] Ved. AA. VV., Aubin Louis Millin (1759-1818) Entre France et Italie/tra Italia e Francia, Campisan editore, Roma 2011.

lunedì 10 novembre 2025

“In verità vi dico…", L’UMANESIMO LIRICO DI GIOSOFATTE FRISINA (di Bruno Demasi)


  Non capitano quasi mai tutti insieme , e neanche con  tanto  lampante evidenza, i tre caratteri costitutivi che hanno impregnato in maniera assoluta la produzione lirica e la vita di un poeta calabrese che varrebbe davvero la pena conoscere meglio, Giosofatte Frisina (1921 – 2021): la riservatezza totale che diventa umiltà; la ricerca costante e sofferta di senso per la vita; il lirismo del pensiero tanto più eloquente quanto più privo di smancerie emotive. Una poesia probabilmente unica nel suo genere distante mille anni luce dai labili parametri odierni di valutazione estetica e dalle ridondanze pubblicistiche  fini a se stesse che rischiano di far emergere solo il vacuo a scapito di tanta letteratura vera e sofferta che rimane sommersa.

    Oggi una parte piccola, ma assai significativa, della produzione di Giosofatte Frisina approda alle stampe con un prezioso volume curato meritoriamente dalla DBE-Barbaro Editore dal titolo “Nel tempo sospeso”, che costituisce di per sé un superamento della classica concezione delle cd sillogi poetiche che imperversano in tutte e per tutte le occasioni. E’ un diario lirico di un anno di guerra, il 1941, particolarmente sofferto in prima persona dall’Autore e ben delineato nei suoi caratteri fenomenologici da una riflessione storica introduttiva di Antonino Romeo. Un diario che si dipana giorno per giorno, attraverso gli scarni ma profondissimi appunti dell’Autore ai quali fanno da contrappunto a distanza di tantissimi anni le commosse e lucide osservazioni della figlia diletta del Poeta, coautrice del volume, che quasi completa a quattro mani e poi con una lirica del padre ogni momento fissato sulla carta e nel ricordo:

Salerno, 18 ottobre 1941 …prova dello sfilamento del reparto…in occasione del giuramento…

…mi chiedo cosa fossero le prove dello sfilamento…Ma mi viene da pensare a un significato più profondo …di cui parli in una tua poesia (Giusy Frisina ):

Il giuramento e il vento

Giura l’identità
 giura l’onore, 
giura l’amore: 
son tanti i giuramenti 
spazzati via come fuscelli 
dai venti della vita. 
Ma in fondo all’anima
 c’è uno spazio arcano, 
ove un giuramento convola 
e nol raggiunge il vento.


 

   Di quanto sia varia e multiforme la poesia di Giosofatte Frisina, che ha sempre come comune denominatore il parametro inconfondibile del verso asciutto e nervoso che scava nella storia individuale dell’esistenza, fanno testo le antologie poetiche che già prima di questa nuova pubblicazione avevano visto la luce dando un segno di questa fertilissima e insospettata presenza lirica nel panorama letterario calabrese (e non solo) del Novecento: La punta dell’iceberg (2004); Il filo magico della ricerca (2004); Verità riflesse(2005); L’eterno vivere nel relativo assoluto (2006); L’importanza dell’uomo nel rapporto con Dio(2016); Nel segno della vita (2020). Sette tappe significative di una vocazione poetica tutt’altro che dilettantesca, tutt’altro che di maniera. A me ognuna di queste liriche offre netta l’impressione di un brandello di vita e di pensiero fissato sulla carta quasi a voler rubare all’eternità che ci trascende uno sprazzo di luce nel buio fitto del mistero che ci travalica, ma non ci opprime e che ci conduce, come osserva varie volte l’Autore, a quel Dio affannosamente cercato:

Cos’è Dio dov’è Dio?

Dio, 
senza volto, senza figura: 
segreta essenza 
dell’immenso creato, 
nel pullular delle specie, 
nella stupenda alchimia, 
ove il fuoco, il mare, 
il vento, la pioggia 
rimodellano i sassi, 
nel baglior delle stelle, 
traspare 
nella coscienza dell’uomo, 
che curioso cerca 
in cotanto mistero.

                                                         
    (Da “Il filo magico della ricerca”)
    

   E , se è vero che la forma da sola non è poesia, è pur vero che una poesia in apparenza concettuale e “ di contenuto” non basterebbe a esprimere la vitalità dirompente del verso di questo Autore finora quasi sconosciuto e negletto che varrebbe davvero la pena conoscere meglio e far conoscere.  Lo stile lirico di Giosofatte Frisina viene infatti da lontano, percorre una sterminata messe di poeti antichi e moderni da lui avidamente assorbiti e dai quali ha tratto il gusto non solo per la profondità delle illuminazioini poetiche, ma anche per l’economia rigorosa di un verso, di una sintassi, di una forma che, pur prediligendo il verso libero, sfiorano la perfezione metrica e formale con una ricchezza lessicale  oggi quasi smarrita che appare classicamente pulita e coerente in tutte le occasioni come davvero pochi sono in grado di padroneggiare:
                                   
                                                                             Il ponte

Quanto è pauroso l’impeto del fiume 
che tracotante invade la campagna; 
scende potente e infuriato Nume 
                dalla montagna.

Tal della vita è il corso inusitato, 
o mia diletta, e sotto il nostro ponte 
pur passerà quel fiume irato 
                  che vien dal monte.

Così ci troveremo faccia a faccia 
noi con la fede nell’amore nostro
lui con la bieca livida minaccia, 
         il vile mostro.

Quale il periglio?...Il sole par non osi…
poi squarcia la fitta nuvolaglia…
par d’oro il ponte nell’apoteosi
         della battaglia.

                                                                             
  ( Da “Il sogno della vita” )
     
     E’ comunque nell’indagine del rapporto tra umano e divino che l’Autore, le cui riflessioni tradotte in poesia non sono mai di maniera, mai convenzionali, raggiunge il massimo del lirismo critico, creando quasi un nuovo strumento di speculazione teologica.
    Non voglio essere blasfemo, e men che mai lo avrebbe voluto lui, ma non si può trascurare il copernicano capovolgimento dell’indagine sulla scienza di Dio che opera Giosofatte Frisina ritornando in modo dirompente e libero alla posizione di Agostino di Ippona: Diò è perché c’è l’uomo, un’umanità sofferente che lo cerca e lo testimonia senza stancarsi e che reca impresse nella propria anima e nella propria carne le stigmate del sacro. Una poesia cristocentrica , come cristocentrico è il cuore dell’uomo, persino di quell’uomo che combatte a oltranza Dio, ma, senza saperlo, in quel preciso momento ne rende testimonianza a tutti:

                                       
   “In verità vi dico”

Cristo 
l’uomo o Dio
 e l’uno e l’altro.

Tanto non conta
quanto la sua parola
che generò il sociale

Con commento infinito
agli apostoli in poi:

viatico certo 
per l’umanità.

                                              
           (Da “L’importanza dell’uomo nel rapporto con Dio”) 

Bruno Demasi