sabato 28 dicembre 2024

WALTER PEDULLA’, L’ULTIMO ARTISTA POLITICO E INTELLETTUALE DELLA MAGNA GRECIA ( di Bruno Demasi)

      E’ scomparso il 27 dicembre di questo 2024, a 94 anni di età, un calabrese di pochissime parole parlate, ma di molti fatti vissuti, narrati e descritti con il dono rarissimo della sobrietà linguistica e quello del rifiuto categorico di ogni esibizionismo. A lui l’omaggio di chi lo ricorda per aver reso bella la terra del sidernese, e della Calabria tutta, in tempi in cui la stampa nazionale faceva – e fa ancora -  soltanto carne di porco della dignità di questa regione ridotta nell’immaginario collettivo soltanto a strada tortuosa del malaffare criminale e politico, appena ingentilita dallo sterco delle capre aspromontane.

    A lui il ricordo commosso e doveroso di quanti, come chi scrive, rispettandone sempre gelosamente la riservatezza, per tentarne un sia pur scarno ricordo, va ad attingere al suo ultimo libro di memoriie, pubblicato pochissimo tempo fa da Rizzoli con il titolo assai significativo Il pallone di stoffa – Memorie di un nonagenario, un regalo che egli ha pensato di fare per i suoi novanta anni a tutti i suoi amici e a noi Calabresi spesso pigri, quasi sempre dimentichi di chi ha arrecato bene alla nostra terra . Una miniera di spunti, di riflessioni, di ricordi stratificati in una vita molto interessante, e non solo di critico letterario, ma anche di narratore, di giornalista, di  politico militante e persino di presidente della più grande industria moderna dell’informazione in Italia, la RAI.
   
    Walter Pedullà è intellettuale complesso e  nella critica letteraria raggiunge l’acme della sua prova artistica: l’arte della narrazione è infatti per lui  fortemente insita in  quella di critico e di esegeta . Ne dà prova la sua spiccata capacità, che molti romanzieri di professione sicuramente gli invidierebbero, di tracciare dei ritratti e dei bozzetti fulminanti, come quando in poche battute dipinge in modo esauriente i  mostri sacri  della scena politica italiana da lui conosciuti in modo diretto: “Oscar Luigi Scalfaro, busto fiero, quasi marmoreo, cordiale conversatore dall’eloquio ciceroniano … Cossiga sprizzava intelligenza dagli occhi e dalla bocca, ed era parlatore facondo e brillante, con una lingua ad alto tasso di metafore: figura retorica con cui non si nomina una verità ma se ne suggeriscono almeno due, forse false … Andreotti era di una cortesia impeccabile ma ritrosa. Non stringeva la mano, allungava la punta delle dita di una mano pendula, restia al contatto. Quando ingobbito alzava lo sguardo, gli occhi erano di ghiaccio e il sorriso era appena accennato dalle labbra sottili”.

    Sicuramemte un grande narratore, se solo avesse voluto versare la sua penna in questa materia, ma, come si diceva,  ha preferito dedicarsi più spesso alla critica e alla saggistica. Le sue doti di affabulatore tuttavia emergono in modo evidentissimo proprio nel “ Pallone di stoffa” , una vera e propria autobiografia sui generis , che è narrazione della parabola calante  della letteratura calabrese, ma nello stesso tempo saga familiare e romanzo della letteratura Italiana del Novecento, saggio della critica letteraria dello stesso secolo, racconto della vita di un uomo che ha attraversato sicuramente da protagonista quasi l’intero secolo più lungo della storia recente.
    La prosa di Pedullà è sempre elegante, ha un ritmo e una musicalità che ti conquistano in tutti i passaggi della sua rievocazione, specialmente quando parla della propria della famiglia d’origine e dei luoghi dell’infanzia, raggiungendo spesso vette di puro lirismo, senza mai scadere nel sentimentalismo: il padre sarto,  grande lavoratore e grande narratore di fatti familiari e locali; la madre tenace figura di maestra “ di casa” nella formazione dei figli, da lei indotti con le buone e con le cattive a studiare duramente per salire su quell’ascensore sociale che da secoli dimenticava di imbarcare  i figli della plebe meridionale.

   Dopo i primi capitoli dedicati alla saga familiare, il racconto di Pedullà si focalizza sugli ambiti in cui egli è stato protagonista per ben oltre un cinquantennio: dall’insegnamento, a tutti i livelli, dai tecnici a quelli  liceali e classici, fino  all’università, all’insegnamento e alla critica della letteratura contemporanea, per non parlare delle attività correlate (le numerosissime giurie di cui ha fatto parte: “qualcuna soltanto in meno di Carlo Bo”), senza contare la politica culturale o meglio la “critica militante”, che lo ha visto acceso protagonista; la politica tout court; la fondazione e direzione di prestigiose riviste e collane editoriali; la Presidenza della Rai e poi quella del Teatro di Roma.
   Walter Pedullà è significativamente calabrese poliedrico e politico fine col dna del filosofo che non scende a patti neanche con se stesso: “Ho combattuto per il Fronte Popolare nel ’48, contro la ‘legge truffa’ nel ’53, per la nazionalizzazione dell’energia elettrica, per lo Statuto dei lavoratori, per la Riforma della RAI, per divorzio e aborto. E sono stato il primo a scendere in guerra contro ogni tentativo di restaurazione dell’ancien régime, che aveva lo zoccolo duro nella destra DC. Lo stesso dicasi delle battaglie letterarie: neorealismo, neosperimentalismo, neoespressionismo, neoavanguardia, ‘franchi narratori’, ‘selvaggi’, ‘cannibali’ e latri divoratori di lingue che l’abuso ha reso inespressive.”

  
   Durante la contestazione studentesca si rivolgeva ai suoi studenti, definendo in poche battute un vero e proprio manifesto programmatico di ciò che deve essere l’insegnamento: “I libri si scrivono solo se si ha qualcosa di nuovo da dire, e il nuovo che ambisca alla svolta culturale non scende nel cervello come l’acqua. Il mio dovere è quello di venirvi incontro, ma il vostro è quello di avvicinarvi al mio linguaggio: se, più che chiaro, è banale, trasmette solo banalità.”

    E tutto è stato Walter Pedullà sulla scena politica, artistica e culturale italiana meno che banale!





lunedì 16 dicembre 2024

DON SAVERIO GUIDA E “ IL MARTELLO” ( di Rocco Liberti)


   Stavolta Rocco Liberti ha superato davvero sé stesso con un affresco in larga parte sconosciuto sullo stato delle cose in questo estremo lembo interno di Calabria, e in particolare a Oppido Mamertina, nei primi decenni del Novecento. Accanto al fervore culturale che neanche il primo “funesto” conflitto mondiale era riuscito a sopire e che alimentava non poche testate giornalistiche, di cui “Il Martello” era in qualche modo emblema e forse anche capofila, prosperavano i conflitti e le beghe politiche spicciole che, come spesso accade, traevano alimento dai modi più impensati e legalizzati di distrarre e sperperare il denaro pubblico ad uso e consumo dei soliti noti. In tale contesto ideale e problematico si propone dirompente la figura di don Saverio Guida sia come direttore di una testata giornalistica, già modernamente concepita e di sicuro spessore, sia come politico che non esita a dare le proprie dimissioni fiutando il nuovo corso delle cose proprio a ridosso della Marcia su Roma. Un uomo di grande dignità poco o punto conosciuta, che l'Autore ha, tra gli altri, il merito di riportare all'attenzione comune.

    Complessivamente un  report storico puntuale e dettagliato, condensato in una bellissima pagina, che ha il sapore di un romanzo di vita vera nella quale Rocco Liberti, pur riprendendo ricerche e spunti già trattati, riesce agevolmente a produrre ancora una volta un inedito di pregio e di grandissimo valore documentario e storico. E non solo per noi! (Bruno Demasi)

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    Quando Oppido era Oppido! Un tempo non erano assenti nel paese persone variamente impegnate e non mancavano i giornali sia di ordine politico che culturale e religioso. Purtroppo, cronache e documenti tramandano ben poco. Se nel 1882 in ambito ecclesiastico si qualificava in auge “La Calabria Cattolica” che aveva redazioni sia in Oppido che a Palmi, d’altro canto nel 1914 da parte laica si offriva alla popolazione “Il martello” a guida di Saverio Guida, un tenace politico della schiera del partito democratico, il cui atteggiamento al sopraggiungere dei fascisti nel 1922 ha evitato sicuramente laceranti lotte intestine. Su lui e sul suo impegno ho riferito largamente nel “Bollettino dell’Istituto Calabrese per la storia dell’Antifascismo e dell’Italia Contemporanea”, studio poi riportato nel volume “Un secolo di storia vista dalla periferia-Oppido Mamertina dall’Unità ad oggi”. Don Saverio di estrazione da un ceppo oriundo da Pedavoli apparteneva a famiglia trapiantatasi in Oppido per un sacerdote pervenuto durante il ministero del vescovo Tommasini, quindi nella ricostruita città. È rimasto nella vulgata come uno sciupafemmine tanto che un’ingiuria infamante che si rivolgeva a soggetti mentecatti o meno era “figghiu du’ canonicu Guida”. Vero o non vero, ai malcapitati di turno non restava che reagire malamente o far finta di niente. Su alcune sue vicissitudini si può leggere quanto da me offerto ampiamente sulla rivista romana “Storie di Calabria” a. 2021 (Vicissitudini del clero di Oppido).

    Saverio Guida, che il 29 novembre1922 nel dimettersi da sindaco pronunzierà un forte discorso, nel 1920 era incappato in una grave circostanza. Accortosi dal balcone che il pretore Alfonso Mazza era preda di alcuni avvinazzati, coraggiosamente è sceso in aiuto del malcapitato, ma è stato colpito alle spalle da una pugnalata. Fortunatamente se la caverà. I suoi comportamenti testimoniano appieno una condotta davvero cristallina. Non m’intrattengo oltre sul personaggio. Si potrà leggerne abbastanza negli scritti citati. In questa occasione mi limito a riportare quanto sul numero di giornale (il nr. 2, a. I del 1914) appena donatomi dall’amico Nino Greco, che ringrazio vivamente, in concomitanza con la mostra sui periodici calabresi che si è tenuta nella sede della Società Operaia di Mutuo Soccorso a cura dell’Associazione Mesogaia, si ricava sulla vita cittadina all’epoca. Sono piccole notazioni, certamente, ma quello che viene fuori è uno spaccato su opere e personaggi poco noti alla scoppio della prima, checché se ne dica, funesta guerra mondiale.

    L’articolo di fondo del giornale, che veniva stampato a Palmi dalla Tipografia Carmelo Zappone, con titolo “Caos amministrativo” e chiaro trafiletto “Nuovi Orizzonti-Pare che l’apatia accenni a finire e che il letargo sia al suo termine" è un attacco a tutto tondo contro l’amministrazione civica presieduta da Alfredo de Zerbi, esponente di una famiglia che a lungo ha avuto in mano il potere municipale. C’è stata un’inchiesta Ferri, di cui non ci sono noti i particolari. Accennandone, così il Guida scrive tra l’altro: Quale spettacolo! Un capo di amministrazione condannato dalla pubblica opinione, posto sotto inchiesta giudiziaria per tre capi infamanti di accusa, schivato da tutti gli onesti che temono di insudiciarsi al solo contatto, non sente neanche il bisogno di difendersi, di discolparsi, perché crede che Oppido sia ancora il paese della cuccagna e che basti buttare qualche osso rimasto dalla lauta mensa municipale per placare gli animi e per reggersi ancora al governo. Ma fortunatamente gli oppidesi ammaestrati dall’edificante passato di questi signori resistono alle moine, e l’osso buttato lo raccatta semplicemente qualche consigliere della maggioranza, il quale tentate inutilmente altre vie di uscita ha dovuto finire con l’accomodarsi al servizio di Alfredo Dezerbi”.

    È una nuova era e questo è il grido del nostro animoso direttore: “Un risveglio di uomini e di idee si afferma. Ognuno riacquista la coscienza della propria individualità ed infrangendo vecchie catene, scuotendo antichi legami, assume un suo posto nella lotta” Il risultato è che nello stesso anno al De Zerbi subentrerà quale sindaco Riccardo Gerardis, che in periodo fascista sarà anche podestà. Ricordo il suo feretro esposto all’ingresso del Municipio e le organizzazioni fasciste fuori in attesa del funerale.

    Nella medesima prima pagina con seguito nella seconda compare una lettera indirizzata al procuratore del Re presso il Tribunale di Palmi dall’avv. Domenico Simone futuro sindaco. Intrattenendo sul merito che l’edificio della Pretura, dopo il terremoto del 1908, versa in condizioni non ottimali, chiede interventi ad hoc. Per quanto il giudice Cervi abbia potuto esplicare al meglio il suo carico, il servizio non è svolto come si dovrebbe e occorrerebbe assumere del personale adatto. Peraltro, “In Cancelleria non vi è che un solo impiegato – un alunno gratuito ed un vice cancelliere – che da solo deve dar mano a tutte le immense pratiche”. A lato si rileva un curioso duetto tra due persone, una delle quali si sta recando al Consiglio Comunale: -Dove vai così a rotto di collo?/Al Consiglio Comunale!/Seduta tempestosa?)Ma quale tempesta di Egitto! Se tutti la pensiamo come il Sindaco. Ill.mo…Non siamo forse carne della sua carne?”. Alle insistenti richieste il consigliere non può non sbottonarsi: “Ebbene… oggi voteremo che venga fucilato alla schiena un amico carissimo… Acqua in bocca… Approveremo, in linea d’urgenza fondi per impiegati straordinari, ratificheremo le sacrileghe deliberazioni votate dalla Giunta, la quale…(Gesù mio! mi rovinerai divulgando il segreto…) funziona a doppia trazione…”. E via di questo passo. Accanto è presentato altro sempre in tono alquanto scherzoso e penetrante. La pagina termina con un assaggio sulle Opere Pie e segnatamente sullo stato fallimentare del Monte dei Pegni. Ma si ha fiducia nella Congregazione di Carità e nell’amministrazione del Sig. Ioculano, che potrà rinverdire “i beati tempi del senatore Zerbi e Cav. Francesco Genoese". Una notazione: nel numero successivo ci si interesserà dell’Ospedale e dei “famosi lavori dello scalone reale e della testa di piombo sui piedi di argilla come la storica statua di Nabuccodonosor!" Il riferimento è naturalmente al vecchio ospedale sulla via Francesco Maria Coppola, l’edificio a fronte del nuovo. In verità, nel giornale ce n’è per tutti.

    Nella terza pagina ci si occupa di varie iniziative comunali e di qualche particolare che proprio non va a genio. In una certa occasione il “vasto salone del nuovo edificio scolastico” ha ospitato una “gara di scherma” a cura di un “maestro Gagliardi” bravo nel maneggiare la spada. Nella splendida serata è stata della partita “la migliore aristocrazia oppidese”. Il salone appariva “addobbato con gusto ed eleganza, ed illuminato da una miriade di lampadine elettriche”. È di sicuro un avvenimento cui plaudire, ma lo stesso serve anche a originare qualche scoccata critica. Perché lasciare le scuole “sparpagliate di qua e di là pagando dei canoni mensili non indifferenti” quando esistono ampi e decenti locali costati allo stato “parecchie migliaia di lire?”. In ogni epoca gli eventi si riconcorrono. Rammento che negli a. 50 l’estesa costruzione baraccata, la stessa di cui si scrive, è stata abbandonata per spillare allo Stato altra più consona. Anche allora e a lungo le varie classi hanno avuto ricetto presso locali privati non sempre all’altezza, anzi! Ne ho frequentato più d’uno allorchè qualche maestro mi pregava di sostituirlo anche per fini non nobili (leggi caccia ecc.).
   
                          Non essendoci nelle case l’acqua potabile in un paese in larga parte legnamato dopo i ricorrenti terremoti ognuno era necessitato a recarsi presso le fontane pubbliche ed approfittarne. Interessante il pezzo a proposito: “Nei vari baraccamenti del paese tutte le fontanine sono durante le ore del giorno e fino a tarda ora trasformate in lavatoi pubblici con non molto vantaggio dell’igiene e della decenza. Inoltre chi va ad attingere acqua è costretto ad attendere il comodo di chi sta lì a lavare e se insiste, con parolacce, urli e bestemmie. Nessuno si preoccupa. Una Guardia Municipale, a dir il vero, ogni tanto alza la voce rimprovera, comanda, ma inutilmente; le lavandaie continuano indisturbate il loro lavoro”. Di un tale clima risente anche la monumentale fontana di piazza Mamerto, di sicuro quella conosciuta come “dei tre canali”: “Nelle prime ore della sera, fiumane di persone, stanche dal lavoro della giornata, recandosi a provvedersi di acqua, si vedono impedite dalla grande quantità di cavalli e muli che vengono condotti ivi ad abbeverarsi e dalle minacce dei conduttori di essi, che con urla bestemmie e male parole non lasciano avvicinare alcuno alla fonte”. Eppure in Oppido si rinvengono un abbeveratoio e un lavatoio pubblico costato parecchio. Si rende perciò necessario un avvertimento ad intervenire con opportune contravvenzioni. Quanto accertato è invero uno specchio dei tempi!

    Un altro inconveniente si riscontra nell’illuminazione. Si attende l’arrivo della sospirata pioggia per poterne usufruire in maggior misura, ma è aspettativa vana. Per cui, ahimè, non rimane che ricorrere al consueto petrolio. Ma, Santo Cielo, quant’acqua ci vuole, forse quanta ne portano le cascate del Niagara? Altro handicap consiste nel fatto che le lampadine sono poche e alcuni rioni del baraccamento restano del tutto al buio. Che fare? Lapalissiano suggerimento: toglierne alcune in altre zone più illuminate. Che tempi? Oggi non parrebbe proprio vero.

    Altro caso. Secondo un sistema copiato dall’America, in Oppido esplica la sua funzione un “trenino porta carne”. Utilissimo, non c’è dubbio, ma c’è un problema. Locato nel vicolo della Chiesa, è preda dei monelli che vi depositano di tutto. Operano perciò molto bene i macellai, che fanno il “trasporto della carne col solito sistema a schiena d’uomo”. Ce n’è per tutti. Ancora in diretta al Comune: da un mese mancano i registri dello stato civile e perciò non si possono pubblicare nascite, matrimoni e morti. La chiosa finale: “Sono cose da Oppido!”. Un ultimo avviso è agli elettori amministrativi in riguardo al temine stabilito per conoscere se si è iscritti o meno nelle liste elettorali.

    Firmato direttamente dal direttore Guida è un trafiletto che concerne il canonico penitenziere Prof. Antonino Tripodi, anche lui all’epoca quotato membro del partito democratico. Il titolo la dice tutta: “La verità che trionfa e la calunnia alla gogna. È una rampogna avverso chi voleva allontanare dalla scuola il sacerdote, non ne conosciamo i motivi e un plauso verso chi invece ha consentito ch’egli non “si allontanasse sfiduciato da questi luoghi, conservandosi così una delle più belle figure che fanno rispettare ed onorare il nostro paese”, in primis il ministro on. Finocchiaro Aprile e il vescovo Domenico Scopelliti. Ho conosciuto il Tripodi, fiero oppositore del sindaco De Zerbi, nella sua tarda età quando era addetto alla chiesa di San Giuseppe, dove da bambini ci recavamo spesso e la sua inopinata fine conseguente a un’azionaccia a opera di un alienato finito poi in manicomio.

    Il giornale si completa con un pezzo su un comune del Mandamento, quello del vicino Tresilico. la “disgraziata ed abbandonata Tresilico”. Si dicono peste e corna attorno a una traversia intercorsa tra il Comune e Prochilo Antonino. Contravvenuto in base alla legge daziaria nel 1911 quest’ultimo relativamente a una partita di aceto, si è imbastita una causa che ha visto il Comune soccombente. La contesa con batti e ribatti si è trascinata per le lunghe e alla fine al Comune non è restato che fare atto di transazione. In fin dei conti si trattava di un quantitativo scarso per il quale non era proprio confacente originare cause di sorta. Altra lite tra il Comune e Costantino Buda. A questo proposito si rinvia al numero successivo. Ne deriva un invito agli abitanti di “esperimentare l’azione popolare contro gli amministratori di Tresilico”. In finale ci si rivolge loro in tutta celia a “sostenere con tutte le loro spaventevoli (!) forze, i metodi amministrativi del Sig. Alfredo De Zerbi”. In verità, si profilavano sempre quest’ultimo e la sua amministrazione il bersaglio univoco del partito popolare e dei suoi maggiori aderenti.
  
   Posseggo, anche se in via fotostatica, altro numero mutilo del giornale “Il Martello”, è il nr. 9 del maggio dello stesso anno. In prima pagina è ancora un richiamo all’inchiesta Ferri, che ha riguardato la Congregazione di Carità. Indi, si fa nota la vicenda vertente su uno scambio di parole sulla pubblica piazza tra due esponenti dei due partiti avversi seguìto da qualche bastonata. Al fatto era presente il sindaco De Zerbi, che si è fatto avanti solo in una seconda fase impugnando una pistola al grido di “in nome della legge”. Non è chiaro se si tratti dello stesso frangente e dei medesimi personaggi in un secondo trafiletto, ma vi erano coinvolti il cocchiere Tommaso Natale e Giuseppe Trimboli da Platì. Su questi è intervenuto parimenti il sindaco che ha costretto il primo a portarsi in caserma. Davanti a questa si è offerta in successione alquanta popolazione, che si è data al grido di “Vogliamo il Natale libero”. Appena lasciato andare, i presenti hanno accompagnato il malcapitato con sostenuta dimostrazione al Circolo Democratico. È chiaro quindi come le critiche al sindaco si rivelino ognora di prammatica. Ogni scusa è sempre buona per dare addosso all’avversario politico. Tra l’onorificenza di Cavaliere della Corona d’Italia concessa a Giovanni Longo e i fiori d’arancio tra Grazia Longo figlia dello stesso e Paolo Capoferro da Bagnara ancora rampogne al sindaco e le consuete notizie sul paese, che, come suol dirsi, farebbe acqua da tutte le parti.

    I rioni baraccati sono in una pessima condizione: “L’erba cresce rigogliosissima, le acque stagnanti albergano miriadi d’insetti, l’immondizia e qualche altra cosa di peggio appestano l’aria, i bovi, le capre, i suini pascolano indisturbati tra una baracca e l’altra”. E le Guardie e gli spazzini che fanno? I primi sono impegnati nei servizi di p. s. . Gli altri senza un efficace controllo hanno poco da rendere. Perorando d’interessarsi della piazza principale, i cui lavori sono costati parecchio, ancora un quadro poco idilliaco in relazione alla diruta cattedrale: “Cavalli, muli, asini, capre, galline trovano un comodo stallatico, ed una certa quantità di erbe per pascolare”. In verità, un’antica cartolina fattami avere in copia documenta proprio come tali animali venissero fatti sostare sullo stesso sagrato

    Già nella seconda metà dell’800 molte notizie su Oppido e la sua amministrazione civica si leggevano in vari periodici che uscivano fra Palmi e Reggio. Alcune testate:"Il frustino", a Reggio, con direttore il tresilicese Domenico Carbone Grio, "Il Metauro", a Palmi, con gerente Salvatore Vitali, "Il piccolo", di Palmi, gerente Francesco Quaranta.


Rocco Liberti

sabato 23 novembre 2024

LA NASCITA DEL “SERVIZIO” POSTALE NELLA PIANA DI GIOIA TAURO ( di Rocco Liberti)

            L’istituzione a Oppido Mamertina e frazioni


     Sicuramente poche istituzioni civili ebbero un effetto dirompente e benefico sulla società e sulla crescita dei paesi aspromontani come l’istituzione e il progressivo consolidamento del servizio postale: non solo veicolo di comunicazione in sé , ma nel nostro caso un vero e proprio ponte con i paesi lontani, anche extraeuropei, nei quali già a partire dalla fine dell’800 si dirigeva la grande e dolorosa emigrazione calabrese. Il quadro che ne traccia Rocco Liberti in questa ricchissima pagina è molto eloquente: le poste italiane già nel momento della loro difficoltosa istituzione a livello locale nascevano come “servizio” sociale, non con quella connotazione di impresa commerciale che poi col tempo, e specialmente oggi, hanno assunto. Un servizio di grande portata perché reso a un contesto umano e sociale il più delle volte povero, oppresso da mille mali e da mille carenze strutturali, non ultima la mancanza di una rete viaria che fu faticosamente creata e migliorata col tempo e col sacrificio di tutti, mentre oggi in gran parte appare abbandonata a se stessa forse anche perché la comunicazione virtuale in prevalenza ha soppiantato quella cartacea.
   Un’altra pagina che ci  deve a lungo far riflettere sul nostro stato sociale e culturale di oggi in rapporto a quello di ieri, di cui dobbiamo ancora una volta ringraziare la penna e la memoria di Rocco Liberti.
(Bruno Dermasi)

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     Risulta alquanto evidente che il termine posta nel tempo antico stava a significare il posto dove si assicurava il giusto riposo agli uomini che recavano messaggi da un capo all’altro nonché alle bestie trainanti carrozze e similari mezzi di locomozione in riferimento e dove peraltro ne avveniva lo scambio. A tutto sopraintendevano i cosiddetti mastri di posta, delle persone che esercitavano parimenti il lavoro di osti. In buona sostanza, la stazione di posta, com’era chiamata, era in funzione presso una locanda vera e propria situata in un punto nodale, ma il luogo che accoglieva quei viandanti si rivelava sempre affatto confortevole: una vera e propria stalla con paglia, fieno e un misero giaciglio.

     Sin dai primordi il servizio postale si qualificava del tutto privato e ad usufruirne si stagliavano in primo piano individui o enti danarosi, i quali potevano pagare, come i mercanti, i nobili, le università e le banche e la storia ci riporta addirittura al mondo romano, quando n’erano incaricati i cursores. Dal ‘600 in poi, aumentando l’interesse, è divenuto un monopolio statale, che poteva essere affidato anche a delle famiglie. Molto nota a riguardo la Tasso, a un ramo della quale è appartenuto il poeta Torquato, che nel Centro Europa n’è stata a lungo detentrice. A quel tempo, precisamente nel 1639, si data la nascita di un vero ufficio postale a Boston negli USA. In successione il servizio postale è stato variamente disciplinato, avendo d’altronde seguito di pari passo l’evolversi degli Stati, cui era soggetto[1].

    L’affidamento in affitto del servizio di posta a famiglie private si verificava anche in Calabria. Da un atto notarile rileviamo che nel 1794 la Tenenza di Posta di Drosi nella Piana di Gioia era appannaggio della famiglia di d. Antonio Montalto per un periodo di sei anni dietro esborso di 110 ducati, così come avvenuto entro il sessennio[2]. Drosi era sicuramente un punto d’incrocio sul percorso della via consolare Popilia. All’epoca sovrintendeva a Napoli nel settore d. Matteo Franco, con titolo di ispettore generale delle regie poste[3]. Altra “posta” si trovava nel 1780 anche a Seminara così come pure ancora a Drosi[4]. In periodo borbonico era dato rilevare nella Piana delle officine postali. Nel 1819, nell’anno dell’emissione di un apposito regolamento voluto da re Ferdinando I, ne risultavano a Palmi, Seminara e Rosarno. Col 1857 si aggiungerà Gioia Tauro. Sinopoli arriverà invece nel 1861 all’inizio del nuovo evo.

    In merito alla situazione postale nell’abolito regno sul finire della dominazione borbonica come pure nel resto dell’Italia siamo debitori a Stefano Jacini, il politico ed economista noto per una nota inchiesta e ministro dei lavori pubblici tra 1860 e 1867:

    «Nel 1859, le provincie dell’Italia centrale e superiore possedevano 1256 uffizi postali, ed invece in tutto il regno delle Due Sicilie questi uffizi sommavano a 376 soltanto; nelle provincie subalpine, nelle lombarde e nelle toscane mercè il sussidio delle vie ferrate, lo scambio delle corrispondenze si faceva più volte al giorno, fra tutti i paesi posti lungo le linee ferroviarie, a Napoli il servizio dei sette corrieri che dalla capitale andavano alle provincie, percorrendo le strade cosiddette consolari, aveva luogo soltanto tre volte la settimana»
[5].

    A tal proposito bisogna aggiungere che in tutti i treni c’era sempre un vagone postale che fungeva da ufficio ambulante, con terminologìa perdurata fino ai nostri giorni e, comunque prima ch’entrassero in attività i centri di raccolta automatica. Le stazioni ferroviarie hanno così ereditato il nome delle antiche stazioni di posta.

    Una relazione sulla condizione del servizio postale in Italia e, di concerto, anche nelle terre ch’erano appartenute al regno di Napoli, ci si rende nota per il 1863, dopo che nell’anno decorso era intervenuta un’apposita riforma. Così si faceva presente:

    «Sinora non si potè bene ordinare questo servizio che per 1.422 comuni rurali, coll’opera di 1.202 portalettere. Per le province napoletane e per la Sicilia questo servizio è ancora incompleto, e si stanno studiando i mezzi abbastanza celeri di trasporto»[6].
   
     Proprio in quel 1863 il ministero dei lavori pubblici autorizzava l’apertura di una officina postale anche a Oppido. Ne veniva ad informare il comune il sottoprefetto di Palmi con lettera del 25 aprile. La realtà non si presentava però delle più rosee e in data 26 maggio 1865 si dichiarava non potersi provvedere perché non vi erano state inserite somme all’uopo in bilancio, per cui era giocoforza servirsi delle officine di Palme o di Radicena. Tuttavia, si stabiliva di inoltrare istanza presso la direzione compartimentale al fine di provvedersi speditamente. Il problema si sarà presto risolto se il 23 luglio susseguente il comune nominava un ufficiale postale in persona di Giuseppe Princi con lo stipendio di £ 350 addossandosi anche il carico per il trasporto della corrispondenza. Intanto, in data 3 luglio dell’anno precedente, motivo la destituzione del pedone postale Domenico Cotugno, ci si lamentava di non poter procedere alla sua surroga. N’era causa il rifiuto dei pedoni del paese a impegnarsi in un tal servizio.

    Dopo queste prime notizie dobbiamo scorrere i registri comunali fin quasi alla fine del secolo prima che ne sortiscano di altre. L’8 marzo 1893 l’ispettore centrale delle poste e telegrafi, cav. Dalmati, informava il comune del furto avvenuto nel locale dell’ufficio postale nella notte tra il 4 e il 5, per cui chiedeva l’avvio di lavori utili a prevenire altri eventi del genere. Il 31 maggio 1893 si esaminava la richiesta del titolare postale e telegrafico Giuseppe Chiliberti perché l’ufficio da lui diretto fosse collocato nei bassi della sua abitazione in via Annunziata con pigione a carico del comune. Una tale sistemazione, che avveniva nella casa poi di proprietà della famiglia Zinghinì, ha avuto poca durata perché col 1896 si è provveduto altrimenti. Il Chiliberti, avanti negli anni, è pervenuto a sposare una sua impiegata oriunda di Bagnara, Giordano Giuseppina, che gli è succeduta e ha diretto l’ufficio fino agli anni ’60 del passato secolo. Dopo un periodo, in cui ha tenuto l’ufficio in qualità di reggente, nel febbraio del 1928 n’è stata nominata titolare.

    Dopo aver peregrinato per diversi locali privati, vedi Mittica (via Marconi, ove è rimasto a lungo), Cannatà (Corso Luigi Razza), Frisina (Corso Vittorio Emanuele II), lo Stato, con il solerte impegno del sindaco avv. Giuseppe Mittica, ha provveduto alla costruzione di un apposito edificio per le Posta all’angolo tra le vie Cavour e Mazzini. N’è stata costruttrice la ditta Surace della stessa Oppido e l’inaugurazione è avvenuta nel 1962 alla presenza dell’allora sottosegretario on. Dario Antoniozzi. Nel locale Mittica ha funzionato a lungo anche il servizio telefonico, dopo lo spostamento dato a un privato, Natale, che ha operato a lungo sullo stesso Corso Razza.

  L’8 febbraio 1895 Lando Gaetano perorava l’istituzione di una colletteria postale a Messignadi, paesino che vantava 1300 abitanti, per cui si faceva viva istanza al ministero delle poste e telegrafi. Il pedone, ch’era nominato dal comune di partenza, aveva l’incombenza della raccolta della corrispondenza nei paesi sedi di colletteria. Quest’ultima, ch’era collegata a un ufficio postale, era sede di raccolta della corrispondenza nei piccoli comuni agricoli.

     Il 29 marzo 1906 veniva a sua volta a proporsi, ma invano, l’istituzione di una colletteria a Piminoro, un servizio, si diceva, «reso ormai importantissimo, per la emigrazione in vasta scala, verificatasi in questi ultimi anni». Il 28 luglio del 1908, accusando le regie poste «del modo assolutamente deplorevole», con cui era condotto l’iter, si avvisava che il fattorino Salvatore Albano, pagato dal comune con £ 240 annue, aveva espresso di non potercela più fare a recare la corrispondenza in tanti paesi e che per la fine del mese avrebbe cessato senzaltro dal carico di portare pacchi e corrispondenza a Piminoro. Non era possibile svolgere un lavoro che lo conduceva contemporaneamente a Oppido, Piminoro e Zurgonadio. Se l’ufficio di Oppido distava da Zurgonadio solo un chilometro, Piminoro n’era lontano ben 7 di chilometri, che si svolgevano su una strada «pessima». All’amministrazione comunale perciò non restava che reiterare la richiesta oppure provvedere all’aumento del soldo per il fattorino. Queste le dure premesse al provvedimento: «i cittadini in Piminoro hanno pur essi il diritto sacrosanto, al pari di tutti gli altri cittadini del Regno, di avere il sollecito ricapito della loro corrispondenza, e che lo Stato ha il dovere di trattarli al pari dei cittadini dimoranti in Castellace ed in Messignadi, ove è stato impiantato un ufficio e una colletteria postale, ed ora non si sa comprendere la ragione di tale abbandono».

    A lungo hanno operato nelle diverse Frazioni degli uffici postali che hanno consentito agli abitanti di usufruirne senza doversi spostare dal luogo di residenza, ma procedendo in avanti ogni cosa è mutata. Piano piano ogni agenzia o collettoria che fosse è stata eliminata e ognuno ha dovuto cercare di adattarsi. Se per l’addietro notavi folle di persone in sosta agli uffici del centro, nel prosieguo, date le possibilità offerte a distanza da nuovi enti, ogni cosa è rientrata in un normale alveo. Un particolare di rilievo. A Oppido hanno svolto il loro impegno a lungo due uffici postali con il secondo ubicato a Tresilico, Comune autonomo fino al 1927. Unendo le due Comunità, a Tresilico l’ufficio è rimasto attivo ugualmente fino a pochissimo tempo fa.

Rocco Liberti

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[1] La storia della Posta e del francobollo, www.poste italiane.it.
[2] Oggi il servizio della distribuzione della posta nel nostro territorio è concentrato in un apposito ufficio a Rizziconi, nel cui comune rientra Drosi. Che non sia un retaggio dell’antica Tenenza?
[3] ROCCO LIBERTI, Rizziconi e Drosi, “Quaderni Mamertini” n. 27, Litografia Diaco, Bovalino 2002, p. 29.
[4] BRUNO FERRUCCI, La storia della posta in Calabria, “Calabria Turismo”, IX-1976, n. 30, pp. 41-46.
[5] STEFANO JACINI, L’amministrazione dei lavori pubblici in Italia dal 1860 al 1867, Ministero dei lavori pubblici, E. Botta, Firenze 1867, VII, pp. 14-15.
[6] Annali universali di statistica, economia pubblica, legislazione, storia, viaggi e commercio compilati da Giuseppe Sacchi e da varj economisti italiani; volume CLVIII della Serie Prima, volume decimottavo della Serie Quarta, Apile (sic! Aprile), Maggio e Giugno 1864, Milano, Presso la Società per la pubblicazione degli annali universali delle scienze e dell’industria, 1864, Prima relazione, p. 294.