di Maria Zappia

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“Sulla bocca di Papula la parola si fa padrona e ti porta su e giù fra dimensioni diverse, e poi ti molla per farti padrone a tua volta e dirigere il gioco secondo la tua fantasia, e scoprire i pesi che ognuno si porta sulle spalle fino a capire dove sta il nemico, a volte dentro, poi fuori e infine accanto, che tutto in fondo è un’andata e un ritorno, e la parola incendia la paglia che tutti abbiamo dentro un fuoco che diventa solo nostro”.
"È una gabbia che chiude altre gabbie, e la libertà è solo quell’attimo di distrazione in cui un guardiano si scorda la porta aperta e una prigione col cancello spalancato non è più prigione. Bisogna coglierlo, l’attimo di disattenzione, perché non dura in eterno. L’Aspromonte questo è, una gabbia, come tutto il resto del mondo. Solo che da qui, insieme agli abitanti, se n’è andato anche il custode, pensando che non ci sarebbe stato più nessuno da sorvegliare. Se ne deve approfittare fino a quando non torna indietro”. “Ma l’Aspromonte è fatica, è solitudine,” gli ribatteva Antonio. “No,” rideva u zzu, “è esercizio fisico e spirituale. Per capire questo monte, il desiderio di libertà bisogna averlo dentro.” E si vede che io ce l’avevo avuto sempre dentro il desiderio di libertà, perché ci stavo bene qui, e se ci avessi potuto portare tutta"
"È una gabbia che chiude altre gabbie, e la libertà è solo quell’attimo di distrazione in cui un guardiano si scorda la porta aperta e una prigione col cancello spalancato non è più prigione. Bisogna coglierlo, l’attimo di disattenzione, perché non dura in eterno. L’Aspromonte questo è, una gabbia, come tutto il resto del mondo. Solo che da qui, insieme agli abitanti, se n’è andato anche il custode, pensando che non ci sarebbe stato più nessuno da sorvegliare. Se ne deve approfittare fino a quando non torna indietro”. “Ma l’Aspromonte è fatica, è solitudine,” gli ribatteva Antonio. “No,” rideva u zzu, “è esercizio fisico e spirituale. Per capire questo monte, il desiderio di libertà bisogna averlo dentro.” E si vede che io ce l’avevo avuto sempre dentro il desiderio di libertà, perché ci stavo bene qui, e se ci avessi potuto portare tutta"

Feltrinelli ci dona “La Maligredi”, un romanzo corale, il quinto dello scrittore Gioacchino Criaco in cui i dati reali, tutti collegati allo sradicamento forzato e malriuscito degli abitanti di un paese del Sud Italia - Africo - , vengono sapientemente trasfigurati dall’autore e costituiscono l’occasione per portare alla luce situazioni e dinamiche sociali che sono state o volutamente rimosse dalla storiografia contemporanea, nazionale e locale, ovvero raccontate diversamente, non certo ascoltando la reale voce dei protagonisti.
Nel romanzo, in un microcosmo lontano dal progresso e dalle contestazioni del ’68, immerso in una realtà fatta di solidarietà e di intensi legami di vicinato, si forgia la personalità di Nicola mediante l’acquisizione di valori di elevatissimo contenuto etico nel senso dell’azione piuttosto che della cupa rassegnazione I personaggi sono tantissimi e tutti ricchi di sfumature così come il registro linguistico dell’opera che va dal dialetto, al linguaggio giovanilistico, alla parlata grecanica, con sfumature liriche soprattutto nelle descrizioni dell’ambiente naturale aspromontano, patria ideale, dello scrittore.
La narrazione si dipana sia nella descrizione della storia individuale di Nicola e sia nel tracciato di fatti storici e vicissitudini di un’intera generazione di abitanti della Calabria, ai quali il boom economico degli anni ’60 giunse a brandelli e sotto forme sbagliate. Dalla fascinazione che le parole di un giovane anarchico soprannominato “Papula”, sovvertitore di folle di giovani e donne generano nell’adolescente protagonista; che assorbe nel medesimo tempo, i racconti delle donne nei vicoli, in quanto il televisore non è proprietà di tutti, si comprende la traccia ideale dell’opera e l’orientamento dello scrittore che in maniera riduttiva, viene spesso collocato in Italia, tra gli autori di noir.
Ritroviamo il carabiniere in pensione che funge da immagine speculare, quasi una linea di congiunzione tra lo Stato con le sue esigenze di ordine e il disordine della vita dei giovani protagonisti che sopravvivono con le madri nelle rughe, le figure dei pacieri, quelle dei pastori, l’importantissima immagine di Lidia, vedova bianca a causa dell’emigrazione e madre del protagonista Nicola. Tanti personaggi realmente vissuti nella Africo di quegli anni e tuttavia rivisitati, nel carattere e nei gesti, dall’autore al suo quinto romanzo e dunque al raggiungimento di una piena maturità espressiva.
Non mancano, i “malandrini” i rappresentanti della malavita locale, i perniciosi alleati della piccola borghesia terriera, che di fatto, hanno strangolato l'economia dei luoghi ferendone, in maniera irreversibile, gli assetti sociali. Nella visione dello scrittore, tuttavia, sono proprio questi personaggi, in taluni passi descritti con toni caricaturali, ad essere sminuiti: eroi deteriori, che cedono il passo ai personaggi dotati di virtù e, sia pur nel contesto narrativo, sono permeati da un desiderio di elevazione morale per sè stessi e per l'intero paese.
E’ evidente che, in questo romanzo, più che nei precedenti, emerge l'abilità letteraria di Criaco che servendosi di Nicola e trasfigurando i dati reali (rivolte delle raccoglitrici di gelsomini e ai movimenti anarchici dell’area jonica) manifesta il proprio pensiero in relazione alle dinamiche criminali esistenti nel Meridione, ai guasti determinati dall'emigrazione forzata, all'assenza di corrette politiche di sviluppo economico individuando, al contempo, la via per risolvere le fratture esistenti. Una via che consiste nel correggere il rapporto tra sviluppo urbanistico e ambiente, nell’attribuire la giusta collocazione agli apparati statali, nel superare tanti stereotipi legati al sottosviluppo del meridione, aventi oramai puro significato folklorico e nel riscoprire, reinterpretando correttamente le parole, concetti antichi radicati nella cultura magnogreca dalla quale l’autore, che proviene dai luoghi narrati nel romanzo, si sente erede. In una parola: emancipazione da modelli deteriori mediante il recupero di un’identità culturale importante e rivisitazione, in senso propositivo e giammai nostalgico, del rapporto tra intellettuale e terra di origine.