di Giuseppe Campisi
Rosarno
(Reggio Calabria) – La funzione vespertina è terminata ed i parrocchiani fanno capannello
attorno al loro giovane sacerdote, minuto inversamente che caparbio, brizzolato
ma dal bisbiglio continuo, quasi come stesse recitando un rosario. Don
Roberto Meduri titolare della parrocchia di Sant’Antonio del Bosco,
banlieue di Rosarno, ha buone parole per tutti e tanti consigli da dispensare
affatto sentendosi come Gesù nel tempio, ma ha soprattutto un’altra
apprensione, quella di sgattaiolare fuori dalla chiesa per andare a celebrare
un’altra messa, forse quella più importante dell’intera giornata. Difatti
freme, e facendosi aiutare a raccattare il necessario - messale, camice, casula
e santa comunione - ripone il tutto ordinatamente in una cesta improvvisata a
mo’ di gerla e corre via sul furgonetto bianco già messo in moto nel piazzale
antistante.
Prima tappa – dalla base del quinto stradone - è la zona industriale che
lambisce il porto nella parte alta, dove sono concentrati i moduli che danno
riparo agli africani di Rosarno e dove si reca per raccogliere i suoi primi
“fedeli”, un gruppetto nutrito perlopiù composto da ragazzi ghanesi che lo
accolgono festosamente con un sorriso che lui non tarda a ricambiare, scendendo
a salutarli chiamandoli per nome, uno ad uno, come si conoscessero da una vita,
sempre disponibile nella sua mise leggerissima che fa letteralmente a pugni col
freddo pungente della sera. E poi di nuovo via, saettando con ansia verso la
meta, il campo d’accoglienza dei migranti allestito come tendopoli in campo
aperto a San Ferdinando. Lungo il tragitto, buio pesto nonostante
l’imponente
picchetto di lampioni e tanta, troppa immondizia disseminata
per la strada come una manciata di montagnole di cui non si cura più nessuno. Certo,
sono strade interne, percorse solo dai migranti, dagli invisibili, lontano
dagli occhi severi dell’occidentale infastidito. Ed ecco spiegato l’abbandono.
Ad attenderlo altri “parrocchiani” - che fanno torma attorno al pulmino della
“Presenza” divenuto oramai fin troppo familiare – ed una capanna bianca, tirata
su con legni incerti e canne di recupero e rivestita di sacchi di nylon
improvvisati. Il nuovo santuario della tendopoli, al cui interno trovano posto
in una contegnosa spartanità sedie di fortuna spalmate su tappeti arabescati
strausati ed un po’ sdruciti a fare da pavimento sul freddo selciato che
accoglie la comunità.
Al centro della piccola trabacca campeggia, austera ed imperiosa, una croce di
legno senza Cristo, che
separa da un piccolo tavolino di plastica ricoperto da
una telo morbido ingegnato ad altare ed una flebile luce alogena ad illuminare
i volti e gli occhi d’ebano seppur stanchi e consumati dalla vita di uomini e
donne in preghiera, stretti attorno a lui, il piccolo sacerdote, che
distribuisce in un bilinguismo interpretato ed incessante, la parola di Dio ad
una assemblea omogenea quanto attenta. E’ la storia di una umanità – divenuta
qui - diversamente cristiana. La chiesetta scoppia di presenze raggranellate
con pervicace amorevolezza e che ripagano “il don” dalle fatiche
preparatorie e dalle innumerabili ristrettezze quotidiane incitandolo a
perseverare nella sua missione di carità. Il clima è inaspettatamente gioioso.
Una sinestesia di suoni, colori e voci con uno scopo fin troppo lapalissiano:
il noi. I canti, gospel spontanei nella lingua tradizionale africana sono l’eco
della raccolta ed allo stesso tempo la melodia che accompagna una così
originale liturgia secolare, fatta di verbo e di preghiera partecipata.
La vera espressione della missione cristiana che si realizza nella conferma
della dignità della persona
umana, al di là della pigmentazione della pelle e
delle differenze sociali. Inutile dire che - su una popolazione di immigrati
“residenti” di circa 4000 persone - i cristiani presenti sono una piccola
minoranza, quasi una rappresentanza, che convive come nucleo, compreso e
compresso, all’interno d’una fratellanza musulmana di ben più ampia portata. In
questo pullulare di mani rugose e ferventi che battono il tempo alla ricerca di
un Dio in terra straniera, questo minuto missionario dagli occhiali traballanti
ma col sorriso sempre irrefutabile intende applicare fedelmente il
“comandamento dell’amore” facendosi un servitore della chiesa per gli ultimi.
E’ lui il punto di riferimento di tanti disperati che gli si rivolgono – a
qualunque ora del giorno o della notte – in cerca di conforto materiale e
spirituale non rimanendo delusi.
La celebrazione termina gioiosamente, così com’era iniziata, nell’attesa
smaniosa del prossimo incontro che non tarderà a venire in vista delle prove
del coro, altra punta di diamante oltre alla squadra di calcio
da cui la comune
radice Koa, che sta per Knights of the Altar (cavalieri dell’altare). E’ tarda
sera ormai e si riparte per fare ritorno alla chiesa di Sant’Antonio del Bosco
rosarnese, nel cuore della Piana. E lungo il tragitto è facile allora
riflettere per meglio comprendere che nel realizzare ghetti come questi si
compie istituzionalmente il trionfo di una sorta di neocolonialismo alla
rovescia. E nell’abbandono al proprio destino di questi ultimi, non solo
evangelici, lo Stato autocertifica, ancora una volta, il fallimento di una presunta
superiorità progressista dell’occidente, che par essere solo materiale ed
inverosimilmente già morale. In queste lande desolate ed argillose non si
scorgono alti papaveri porporati col sermone pronto all’uso da sciorinare nel
chiuso delle comode cattedrali del perbenismo cattolico o spatàri politici di
professione con la soluzione take away adattabile ad ogni stagione.
Qui c’è solo la frontiera del vero ed un piccolo ed isolato prete di trincea
che si sporca le mani ogni giorno senza nulla a pretendere, che si adopera
alla bell’e meglio per rendere attuali e più vive le pulsioni essenziali dei
precetti evangelici che raccomandano – manco a dirlo - amore a perdere (MNews.it - Foto di Salvatore Colloridi)
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