martedì 30 aprile 2024

FORTUNATO SEMINARA A 40 ANNI DALLA SCOMPARSA (di Bruno Demasi)


     Il I maggio 2024 ricorre il quarantesimo della morte di un grande narratore calabrese troppo presto dimenticato soprattutto dai suoi conterranei: se oggi chiedi chi sia stato Fortunato Seminara a uno studente di una qualsiasi scuola, non dico della Calabria, ma addirittura della Piana di Gioia Tauro, difficilmente potrà risponderti perché fra mille fantasiosi progetti quasi nessun collegio dei docenti ha mai sentito il bisogno dalle nostre parti di inserire nel piano di studi almeno una misera ora settimanale di lettura e analisi delle opere dei nostri grandi. E grande sicuramente è stato Seminara, non già perchè avesse aderito all’inizio della sua produzione letteraria ai canoni del cosiddetto Realismo o ad altri clichè, che sono sempre riduttivi, ma perché unanimemente ritenuto tale dalla critica letteraria del secondo dopoguerra, a partire da Vittorini, da Silone, da Italo Calvino, dallo stesso Corrado Alvaro che ne ammirava e additava la non comune vis descrittiva, la sintassi rigorosamente pulita e misurata, il virtuosismo espressivo : tutti tratti distintivi di una vena narrativa  straordinaria.

      Vide la luce a Maròpati (RC) il 12 agosto 1903 in una famiglia contadina, che, malgrado le ristrettezze dei tempi, riuscì a farlo studiare nel seminario di Mileto, poi a Reggio Calabria, quindi a Pisa e infine all'università di Napoli dove conseguì la laurea in legge. Di fede socialista, trascorse alcuni anni di esilio volontario in Svizzera e in Francia, ma il suo amore per questa terra lo spinse presto a ritornarvi. E proprio dal microcosmo di Maropati, dalla sua casa in campagna ( che pochi anni prima della sua morte sarà proditoriamente incendiata ) cominciò a collaborare ad alcune riviste di notevole spessore. Il suo primo romanzo Le baracche è del 1934, ma per la crudezza dei contenuti subisce la censura fascista e potrà essere pubblicato solo otto anni dopo. Come dice Gaetano Manacorda, “Il romanzo colloca in un mondo calabrese primitivo e barbarico la storia di una ragazza, vittima dell'ambiente e della violenza di un uomo, che l’Autore racconta in uno stile fortemente realistico ma non senza impreveduti apporti di toscanismi letterari” .
 
    Ci sono in nuce in questa prima prova letteraria tutti i valori e i contenuti, le passioni e i valori sociali che ricorreranno poi nei romanzi successivi : Il vento nell'oliveto (1951) e La masseria (1952). Con Donne di Napoli (1953) e Disgrazia in casa Amato (1954) Seminara trasferisce l’ambientazione dei suoi romanzi dal mondo rurale a quello urbano , anche se i personaggi mantengono ancora una psicologia arcaica ed affiorano prepotenti i disvalori della vendetta e degli odi familistici tipici di una borgesia di origine rurale. Sono caratteri che ritorneranno anche nel romanzo La fidanzata impiccata (1957) e nel suo seguito intitolato Il diario di Laura. Nel 1957 viene pubblicata la raccolta di racconti Il mio paese del Sud, composti addirittura prima dei grandi romanzi, che riconducono al più arcaico mondo calabrese tanto amato dall'Autore . Le ultime tre opere pubblicate, L'altro pianeta (1967) ; Quasi una favola (1976); I sogni della provinciale (1980) ci restituiscono uno scrittore disancorato dai valori che avevano animato le sue prime opere, ma sempre immerso nella profonda realtà umana e sociale della sua terra che costituiva e costituisce il suo tratto poetico irrinunciabile.

   Si è scritto molto di Fortunato Seminara e , ci si augura, molto ancora si possa e debba ancora scrivere, ma le parole migliori su di lui furono quelle usate da Italo Calvino sul quotidiano La Repubblica due giorni dopo la sua morte: "…In Seminara l’amalgama proprio del neorealismo tra stilizzazione novecentesca e tematica sociale delle classi povere si collegava più direttamente che in altri alla tradizione del verismo paesano meridionale. Ciò che lo scrittore calabrese portava di suo era un ritmo inferiore amaro e come tormentato da un oscuro rovello. Ciò si vide soprattutto (più che nella Masseria, uscito nel dopoguerra da Garzanti con ambizioni di romanzo sociale di vasto impianto) nel Vento nell’uliveto che, rifacendosi alla sua esperienza diretta, dava la migliore misura d’un lirismo contenuto nelle situazioni e nette cose. Recensendo questo romanzo, Forti­ni aveva ricordato il Tolstoj del Mattino d’un proprietario di campagna… Vittorini presentava Il vento nell’uliveto in esplicita polemica con quello che il neorealismo era diventato, sottolineando in Seminara 'un senso dell’universale che il tono sommesso e impensierito raffor­za invece di attenuare'. Sempre nei Gettoni uscì an­che, nel 1954, Disgrazia in casa Amato, che è una cupa storia d’odi paesani: un padre di fami­glia per una misteriosa vendetta viene sfregiato al volto con un colpo di coltello; si chiude in casa e si mette a letto, come paralizza­to dalla vergogna e dallo sconfor­to; moventi e colpevoli restano nell’ombra; solo un ‘atmosfera fa­miliare assediata da una tortura morale domina il racconto…
     ...Seminara era un uomo tarchiato e taciturno, un volto corrucciato che ricordava un po’ il suo conterraneo Corrado Alvaro, ma con capelli crespi e occhi pungenti. Ci eravamo conosciuti agli inizi degli Anni Cinquanta e lo consideravo un coetaneo, sia pur un poco più anziano, perché il suo atteggiamento non era diverso da quello di tutti noi che avevamo esordito nel dopoguerra, con la stessa soggezione verso gli scrittori delle generazioni precedenti che potevano emettere sentenze inappellabili su quello che scrivevamo. Solo avvertivo in lui una concentrazione più ostinata, un silenzioso orgoglio. Un giorno lo sentii dire: 'Devo mettermi all’ opera, perché ho un programma di cose da scrivere tra i cinquanta e i sessant’anni'. Trasalii. Mai avevo pensato che avesse tanti anni più di me. Quelli che per me erano allora gli 'anziani', i 'maestri', erano quasi tutti molto più giovani di lui. Seminara aveva dietro di sé anni oscuri di vita di paese, di attese del postino con la risposta dell’editore che non arrivava mai. I miei rapporti con Seminara erano soprattutto epistolari, legati all’invio di manoscritti di cui alcuni non arrivavano alla pubblicazione, fatto che non mancava di provocare rancori e lunghi intervalli di silenzio. Invano cercavo di scoraggiare una delle sue ambizioni, che era il romanzo di epica sociale sul tipo delle Terre del Sacramento di Jovine, con personaggi oratori e profetici, che certo non corrispondeva alla sua vera vena. Con soddisfazione avevo potuto invece scrivere qualche mese fa al vecchio amico malato che avevo letto con piacere il suo ultimo romanzo…La vitalità del protagonista, un mulattiere che riesce dal nulla a metter su una raffineria d’olio per finire inghiottito dagli intrallazzi politici e burocratici del capoluogo, e l’attualità del tema: un 'Mastro Don Gesualdo' dell’epoca del boom economico e delle speranze deluse dell’industrializzazione in Calabria, fanno l’interesse del libro. Nell’opera di Seminara si potrà dunque seguire un mezzo secolo di storia del profondo Sud e soprattutto gli accenti d’una voce grave e pausata, dal profondo di un’anima ricca di nobiltà e di ritegno".

    Calvino in questo pezzo, come anche  Mario La Cava in tante pagine sparse, hanno detto  davvero tutto su Seminara  perché  hanno colto  l’essenza vera e intima della sua arte che non è incasellabile in nessuna corrente letteraria, ma va trovata  in una calabresità ancestrale e “colta” , illuminata da una sete infinita di riscatto sociale e culturale che pochissimi sono riusciti ad esprimere come lui.

lunedì 15 aprile 2024

IL CAFFE’ DI DON ROCCO LIBERTI (di Rosario Condò e Rocco Liberti)

    La prima parte di questo interessante e spassoso articolo vide la luce, a firma di Rosario Condò, autore anche della gustosa ricostruzione grafica dell'entrata del bar Liberti  a Oppido, negli  anni  Settanta del secolo scorso su un semplice, ma gloriosissimo periodico mamertino stampato in ciclostile, "MAMEPTINON". La seconda parte invece, a firma di Rocco Liberti, nipote del protagonista  principale  di questa bella pagina, è completamente inedita. Entrambe  illustrano con rigore storico e documentario uno spaccato di vita mamertina  a cavallo tra il XIX e il XX secolo e proiettano il lettore  con immediatezza nel passato glorioso di un paese che all'epoca, malgrado i ricorrenti terremoti e le ristrettezze dei tempi difficili,  coltivava a ragione speranze di ulteriore grandezza sia a livello urbanistico sia a livello sociale e culturale. Atmosfere quasi cittadine, vita semplice e persino allegra nel poco che offriva il quotidiano, ricchezza di industriosità, lavoro immane nei campi e nei piccoli e grandi opifici di paese: tutto mostrava la voglia di crescere e di migliorarsi che nel tempo è inesorabilmente venuta meno.(Bruno Demasi)

 
    Ogni paese grosso o piccolo che sia ha sempre avuto in tutti i tempi i suoi Personaggi, uomini di cultura, notabili ecc., ma nella vita paesana di ogni giorno non sono mancate persone, che, pur non appartenendo a quel rango, si sono tuttavia rese meritevoli di stima e benevolenza per chiarissime qualità e determinate attività professionali, artigianali, commerciali e via dicendo o per locali caratteristici, che in uno col proprietario hanno fatto epoca e il ricordo dei quali si è tramandato per diverse generazioni.

   Il “Personaggio” con il suo locale che presentiamo, cercando di mantenerci nella più ristretta brevità, è “Don Rocco Liberti” proprietario della bottega detta “il Caffè” esistita in Oppido Mamertina fino al 1924 e da lui iniziata probabilmente tra il 1880 e il 1885 nei locali del piano terra rialzato di casa Frascà, i cui lati principali erano posti a fregio rispettivamente sul Corso e sulla via Oratorio col numero civico 47, dirimpetto alla farmacia Simone e con ampio angolo visuale sulla grande piazza Umberto I, “il salotto di Oppido”.

   Al “Caffè” si accedeva per due ingressi: dalla via Oratorio e dal Corso, superando tre gradini di marmo bianco di Carrara. Ai lati, dal limite delle portiere e ancora dentro, facevano bella mostra eleganti vetrine, con esposizione di bottiglieria delle migliori Case di liquori del tempo e alcune specialità in artistiche confezioni, quali il Corfinio in anfore pompeiane di terracotta con fine decorazione, ottima imitazione dell’antichità. Sulle pareti esterne campeggiava in grande formato e stampata su lamiera l’effigie dei “due vecchi” la famosa pubblicità del rinomato cacao Talmone mentre la porta dell’ingresso principale sul Corso era sormontata dall’insegna con la dicitura “CAFFE’ Rocco Liberti”.

   L’interno non era molto vasto, però si qualificava di giuste proporzioni per le necessità che allora richiedevano tali generi voluttuari, che, fatta eccezione per le caramelle e simili, proprie dei ragazzi, erano riservati soltanto alla cosiddetta “gente perbene”. Il locale risultava arredato con scaffalatura di sobria eleganza e l’esposizione dei dolciumi e della confetteria multicolore appariva ben disposta, specialmente l’assortimento della cioccolata. Questa era così bene offerta in mostra entro una speciale bacheca a scomparti poggiata con piano inclinato sopra una parte del bancone di vendita, che attirava subito l’attenzione della clientela. Il tutto s’inquadrava nello stile caratteristico della seconda metà del XIX secolo.

   Don Rocco, così lo chiamavano tutti in Oppido, era un bel pezzo d’uomo dall’aspetto gradevole, dal carattere multiforme, serio abbastanza e al tempo stesso faceto e arguto e non gli veniva meno il senso dell’umorismo. Difatti, non appena si presentava l’occasione, non mancava mai di attuare allegre burle e piacevoli scherzi, che molti ancora ricordano.   Religioso di ferma credenza, praticante ma non bigotto, teneva l’amministrazione e le cure della chiesetta del “Calvario” e ne seguiva con zelo l’andamento delle Sacre Funzioni, specie durante il periodo particolarmente impegnativo della S. Pasqua.

    Ci sapeva fare e bene nel commercio e non si accontentava di trattare soltanto i generi dolciari e il caffè, che preparava ottimo, ma si occupava pure di mercanzia di ogni genere, insomma un vero bazar, che teneva in altro locale attiguo al Caffè, con scaffali bianchi e rifiniture dorate, coi colori che si armonizzavano ai merletti, trine, rocchetti di filo e via discorrendo. A smerciare questa roba ci pensavano i familiari tra una faccenda e l’altra della casa. Si offrivano anche grandi caratteri dorati e nastri per le corone funerarie. Diciamo che c’era di tutto.

   Per inquadrare il soggetto nella giusta dimensione quale primario commerciante oppidese del suo tempo stimiamo opportune dire come egli, pervenuto da modeste origini, ha saputo, con le sue diverse attività, attirarsi l’unanime stima e le simpatie dell’intero paese. Il suo nome era divenuto talmente familiare che perfino i ragazzetti, quando volevano acquistare le caramelle “a vetro” (zucchero lavorato) da lui prodotte e che allora costavano cinque un soldo, dicevano “andiamo da don Rocco” e uscivano felici dal Caffè e con la bocca addolcita.

   I genitori gli sono venuti a mancare prestissimo (il padre, Giuseppe, faceva di professione il merciaio e la madre, Teresa Franconeri, apparteneva pur essa a una famiglia di commercianti, precisamente di “liquoristi”) e da ragazzo, con tenace volontà, si è messo a lavorare per procacciarsi il necessario per vivere, senza tendere la mano a nessuno, affrontando vari mestieri, dal musico a quello dell’umile conduttore nel Circolo dei Nobili, a quel tempo situato nei “bassi” del palazzo Saverio Grillo, a nord della Piazza Umberto. È stato appunto in questo locale che ha avuto inizio la rapida ascesa di don Rocco. Capitava spesso al Circolo Candido Zerbi, persona facoltosa e di primo piano nella vita oppidese e Senatore del Regno dopo l’unificazione nazionale, che, stando a conversare con gli amici, osservava ammirato la sveltezza, i modi garbati e la vivace intelligenza del giovane. Presolo a benvolere, ha deciso di toglierlo da quel lavoro e con la spontanea e generosa offerta finanziaria lo ha avviato al commercio aprendogli un negozietto di generi diversi (zucchero, caffè e altri generi coloniali). In breve volgere di tempo Don Rocco, con la modesta fortuna racimolata, frutto della sua avvedutezza negli affari, è riuscito a impiantare il “Caffè” dianzi descritto.

   In quel tempo le macchine automatiche per la preparazione rapida del caffè erano soltanto nella mente del Padreterno e don Rocco approntava la gustosa aromatica bevanda con delle enormi caffettiere dette “alla napoletana”. Per soddisfare la numerosa clientela mattiniera (braccianti, contadini, operai ecc.) si alzava di buonora per accendere il fuoco nella fornacella e fare il caffè, che serviva fumante nelle tazze, con l’aggiunta di uno “schizzo” di anice per chi lo preferiva. La bevanda costava allora cinque centesimi, dieci con lo schizzo. Ottimo gelatiere, preparava eccellenti gelati e rinfreschi con materie genuine, soprattutto in occasione delle due principali festività di Maria SS.ma delle Grazie a Tresilico e di Maria SS.ma Annunziata a Oppido. Per attirare l’attenzione dei festaioli esponeva davanti alla bottega e sui ripiani di artistici tavolini in ghisa, opportunamente addobbati, alcune forme di piombo, che allora si usavano per comprimere la pasta del gelato nei colori appropriati e per ottenere con bell’effetto l’imitazione della frutta: il grappolo d’uva, la pera, la pesca, il pomodoro ecc. Eccezionalmente, il servizio veniva attuato anche quando era richiesto per sponsali e altre cerimonie importanti. Don Rocco produceva pure nel suo Caffè olio di mandorle, che forniva a farmacie, drogherie e a privati e fra l’altro teneva bibite rinfrescanti purgative. Insomma, il Nostro si forniva di tutto quanto era allora possibile per soddisfare le richieste più impensate della vasta clientela, non solo oppidese, ma financo di paesi come Varapodio, Castellace e S. Cristina[1].

    La bottega del Caffè, nel posto in cui si trovava e con la farmacia Simone accanto, costituiva il punto più elegante e movimentato della cittadina e nelle giornate festive il passeggio con i giovinotti vestiti a nuovo s’intensificava e le consumazioni del caffè, dei liquori e altro toccava punte massime. Dobbiamo aggiungere che per i giovani c’era pure una deliziosa attrazione, perché don Rocco aveva avvenenti e belle figliole in età da marito, rinomate per tutto il paese e dintorni, sia per le fattezze muliebri stupende quanto per la serietà e le preclari virtù. Don Rocco in famiglia era affettuosissimo, ma altrettanto severo e non si scherzava facilmente quando si trattava dell’educazione dei figli. Una delle ragazze, la più simpatica e svelta aveva appreso l’arte del padre e con disinvolta compostezza serviva anche lei nel negozio, cosa per quei tempi assai rara, dato che ancora le donne nei nostri paesi non comparivano mai nei locali pubblici. Di essa, appena diciottenne, un giovane professionista di Vibo V. giunto in Oppido per assumere la condotta zooiatrica, praticando con una certa frequenza il locale, se n’è invaghito e l’ha sposata nel lontano 1910.

    È giunto adesso il momento di dare una pennellata di buon umore al nostro racconto per mettere in risalto la vena comica del Nostro, il quale attuava i suoi scherzi e le sue burle con arguta semplicità nel clima del suo tempo altrettanto semplice e bonario sotto alcuni aspetti. Ecco uno dei suoi gustosi scherzi.

   Indirizzata male, capita nel Caffè una persona sugli anni, con un paio di baffoni e vestito con cura contadinesca, probabilmente sceso da Piminoro, che chiede: -Ho bisogno di una fotografia a mezzo busto. - Don Rocco lo squadra da capo ai piedi e lì per lì pensa: -Questa è la volta buona- e risponde: - Si, ma non sono io il fotografo. È mio fratello, che vado subito a chiamare. Intanto voi tenetevi pronto su questa sedia.

   Che cosa non combina il Nostro! Va nel retrobottega, si ficca in capo un berrettone, si avvolge al collo una sciarpa di lana, cambia la voce e fa: -Volete una fotografia? Eccomi da Voi. - Apre uno scaffale e trae uno di quegli scatoli a forma di cubo con dentro la sorpresa, che i ragazzi acquistavano spesso e dove la sorpresa era costituita da un pupazzetto che scattava fuori a mezzo di una molla azionata premendo un pulsante. Dice: Bene! Aggiustatevi la cravatta, volgete lo sguardo verso di me, sorridete e state fermo. - Tac! Si apre lo scatolo e balza fuori un pulcinella. La fotografia è bell’e fatta!

    Il povero contadino, rimasto perplesso e confuso, non sa se arrabbiarsi o ridere e con voce risoluta tuona: - A me non pare che tutto questo significhi una fotografia! - Allora don Rocco, senza punto scomporsi, con la sua rituale bonomia e col mezzo sorrisetto sotto i baffi risponde: -Ma, amico mio, non vedete che qui si vendono dolci e caramelle e si fa il caffè? A questo punto al malcapitato non resta che un “Scusatemi tanto e buon giorno”.

   Il tempo con la sua inesorabile fretta correva veloce. Erano passati molti anni di fecondo lavoro con fugaci gioie e immancabili avversità, quando un giorno, un triste giorno, il proprietario dei locali del Caffè Maestro Vincenzo Frascà pregava don Rocco di trasferire altrove il negozio perché venuto nella necessità di demolire il vecchio palazzo per dare corso ai lavori per la costruzione del nuovo edificio finanziata col mutuo spettante ai terremotati del 1908. Per Don Rocco è stata una trafitta al cuore. In pochi giorni il Caffè è stato smontato e adattato in un “basso” di sua proprietà situato sulla stessa via Oratorio, un fuori mano, lontano dal movimento cittadino e con davanti la mole del palazzo Malarbì. Lo sconsolato barista aveva lasciato nell’antico locale i più cari ricordi e da lontano sentiva i colpi del piccone demolitore e quei colpi demolivano pure la sua personalità. Rattristato e intelligente com’era, giudicava impossibile un ritorno allo splendore di un tempo e dopo il trasferimento coatto, passato qualche anno appena, finiva i suoi giorni il venerdì santo del 1924. Aveva 69 anni.

   Con la fine del Caffè ottocentesco e del suo proprietario si chiudeva definitivamente un’epoca di serena semplicità e di misurato benessere. Pochissimi, anzi rari, sono rimasti coloro i quali ricordano qualche cosa di quanto abbiamo detto e per un caso, seppure di scarsa importanza, il nome è citato nell’opera “Oppido Mamertina riassunto cronistorico” del Frascà. Difatti a pag. 185 si legge “In questa casa, Via Oratorio, N. 47, nel “Caffè” del compianto Rocco Liberti, a pian terreno, tutte le bottiglie di liquori si rovesciarono e molte si ruppero” (Terremoto del 16 novembre 1894).

Rosario Condò
* * *   
Non ho alcun ricordo di mio nonno. Quando è morto, mio padre andava appena per i 16 anni. Conosco di riflesso solo quanto le tre “ziane” rimaste in Calabria raccontavano allorquando si verificava un incontro familiare. In ogni occasione era un continuo ridere tanti erano gli episodi esilaranti. Rocco Liberti era sì sempre pronto a combinarne una delle sue, ma non gli era da meno il suo dirimpettaio, il farmacista Dott. Vincenzo Simone, che non si faceva pregare per escogitare nuove marachelle tenendogli bordone alla grande. Tra i due buontemponi si faceva a gara. Un giorno una donna piuttosto anziana si è presentata in farmacia a richiedere, forse pronunziando male il termine, una strana medicina, il verbiakir (?). Don Vincenzo non ha perso tempo in mezzo e, rivolgendosi alla malcapitata, si è così espresso: No, non ce l’ho. Ce l’ha sicuramente il barista di fronte. Andate da lui. La poveretta ha obbedito all’indicazione offerendo che glielo aveva suggerito il farmacista. Don Rocco, capita l’antifona, ha subito individuato un pesante mortaio di marmo e glielo ha caricato offerendole di portarlo a chi glielo aveva detto. Quando il Simone, che non se lo aspettava, ha visto arrivare di nuovo la poveretta vacillante con quel pesante carico in testa, è scoppiato in una sonora risata, ma mal gliene è incorso perché ha ricevuto per premio una serie d’improperi d’ogni genere. Quando è troppo è troppo!

  Lavorava al Caffè come inserviente o aiutante di vario genere un certo giovane non molto dotato che ne subiva di cotte e di crude. Siccome era lesto di mano, il Liberti quando doveva assentarsi per andare a casa sua distante qualche metro, lo invitava a montare in una specie di soppalco tramite una scala che subito ritirava. Il poveretto era costretto a stare fino al suo arrivo, pochi minuti certo, in quella scomoda posizione e non faceva che imprecare “mannaja don Rocco, mannaja don Rocco”. Con tale accorgimento si ottenevano due cose: si evitavano sottrazioni di ogni genere e il bar restava guardato a vista. Nei primi giorni di maggio per tanti commercianti la metà era Terranova con la festività del SS. Crocifisso. In un’occasione il giovane, vedendo che si tardava a partire tanto si è reso noioso con la sua richiesta: E quando jmu a Terranova? che quegli ha preparato la solita valigia e gli ha detto di precederlo. Allora a Terranova si andava col caval di S. Francesco e a portar anche qualche oggetto durava fatica. In quell’occasione però la valigia era più pesante del solito. Il tizio procedeva come poteva, ma borbottava sempre più: chi misi don Rocco nda sta valigia? Diavuli? A un certo punto non ne può più e ne forza l’apertura. La sorpresa: conteneva anche delle pietre e ben grosse. Immaginarsi le contumelie indirizzate all’autore del gesto!

    I ragazzi soliti a passare davanti al Caffè non mancavano di allungare la mano per fregare qualche caramella, ma allo scartarla si accorgevano che dentro c’era solo una pietruzza. Era l’accorgimento usato a guardarsi dai possibili ladruncoli. Me ne ricordava ogni tanto mio suocero, che qualche volta n’era stato vittima.

  Erano tante le storielle che le “ziane” avevano nel loro repertorio, ma a me piaceva soprattutto quella dell’arrivo dei parenti. Un bel giorno, avendo appreso che a Oppido c’era una famiglia di Liberti, un nucleo del prossimo litorale dallo stesso cognome e che in origine apparteneva di sicuro al medesimo ceppo per ricerche documentarie che ho effettuato, si è proposto di recarvisi in visita. Veniva da un centro assai più importante e, quindi, doveva trattarsi di gente facoltosa e altolocata. Figurarsi quindi le aspettative! Soprattutto da parte delle ragazze, che fantasticavano come loro natura. Il giorno del preventivato arrivo all’ora di pranzo stavano perciò in vigile attesa. Certo, sarebbero giunti con una automobile, mezzo allora alquanto raro, sfoggiando chissà quali vestimenti! Nell’attesa sbirciavano da qualche agevole posizione, quando hanno avvistato un vecchio carrozzino o carretto e da questo qualcuno chiedere della famiglia Liberti. Immaginarsi la disillusione quando hanno visto scendere gente vestita piuttosto dimessamente e con qualche paniere o scatolo in mano! Si sono subito dileguate e non volevano saperne di approcciarvisi, ma mio nonno, ch’era sì amante di burle, ma si qualificava pur sempre persona seria, si è imposto esclamando: - Sono venuti come parenti e come tali dovranno essere accolti. Naturalmente, a distanza di tempo nelle ricorrenti narrazioni la vicenda veniva colorita e di parecchio. Le “ziane” vedevano le cose sempre a suon di satira anche se piuttosto bonaria. D’altronde non ne lesinavano del pari a loro stesse. Le autoironie erano perciò frequenti. Ne ricordo qualcuna. Ormai piuttosto attempate, un giorno si trovavano a Bagnara in occasione della nota festa di agosto. Stanche, si sono sedute su una panchina. A un bel momento quella ch’era al centro prima mira lei stessa, poi dà un rapido sguardo alla sorella a sinistra quindi a quella di destra e subito autoderidendo lei e le altre sbotta in un: “O figghiòli, parìmu propriu ‘e tri testi di’ lametti”. Al tempo la marca di lamette Tre Teste, che offriva alla vista tre teste di biondone, era alquanto in voga.

    Non so se c’entrasse mio nonno, ma a Oppido gli ideatori di burle pesanti non mancavano proprio. Raccontavano sempre le mie zie che sul finire dell’Ottocento al tempo delle lotte comunali tra i partiti Bianco e Rosso, il vincitore di un certo anno ha allestito nel salone del Comune un sontuoso pranzo con invitati e portate di ogni tipo. A essere ospitati erano naturalmente quanti facevano parte dei vincitori. Gli altri dovevano accontentarsi a guardare dalla piazza coloro che gozzovigliavano e di sicuro si rodevano. Erano tempi di fame e a molti mancava perfino il pane. Ma era tutto finto compresi i camerieri che mimavano di recare solennemente in braccio le varie portate.

   Se non ho conosciuto mio nonno, ho ben impresso il ricordo del farmacista Simone, avendo questi vissuto fino alla bella età di 94 anni (+1964). Era sempre presente nel suo locale, ma a prendere i medicinali dagli scaffali si offeriva Maria. Questa, contadina tracagnotta, era sempre pronta a rispondere al comando seduta solennemente su una sedia accanto. Si qualificava piuttosto rustica e faceva di tutto, la cameriera, la baby sitter e la conduttrice di un fonduscolo. Era caratteristico vederla salire verso Oppido tutta bardata sul mascolino con gli scarponi e a cavalcioni su un’asina frammezzo le cofane laterali. Era senza dubbio una gran lavoratrice, ma spesso scaricava le sue ire sul povero Melo, un orfano di madre ch’era a tutto servizio. È vero, non era una gran cima almeno dal punto di vista cognitivo e comportamentale, ma lei non gliene perdonava una e le botte non mancavano. Alla fine il poveretto è stato assunto dal Comune in qualità di spazzino e ha operato meglio e più degli altri.

   Allora non c’erano i mezzi di oggi che in un battibaleno ti fanno arrivare qualsiasi ordinazione e a ogni richiesta di un medicinale la risposta solenne e melliflua del farmacista era sempre la stessa: Arriverà con l’autobus delle cinque. Naturalmente, a furia di ripetersi, in paese era diventata una ricorrente battuta. Il dott. Vincenzo era sempre gioviale e trattava con molto garbo e alla consegna di ogni flacone profferiva con tanto di sorriso un: Servito! Naturalmente, la risposta era inequivocabilmente: Favorito, grazie! Quell’unica volta che mi ha detto Favorito al posto di Servito ho corrisposto con quest’ultimo termine. Non è da dire quando me ne sono accorto la profluvie di Scusate e di Favorito. Lo scambio del termine veniva davvero piuttosto facile e naturale. Sono stato amico dei figli Mario, professore alle Medie, calciatore della Mamerto dei vecchi tempi, allegro e gioviale conversatore, ma soprattutto di Armando, farmacista anche lui. Quest’ultimo andava pazzo per i polizieschi e i gialli e lo scambio era continuo. Pure lui persona dabbene.

   Anche tra i Simone la propensione allo scherzo doveva essere di casa. Lavorando qualche tempo alle Poste di Varapodio, ho conosciuto un fratello del farmacista, Domenico (i Simone provenivano proprio da quel paese), il titolare di una Esattoria, che non era da meno del congiunto. Quando capitava di andare nel suo ufficio si profondeva in effusioni, inchini, offerta di sedia e di quant’altro, ma il tutto restava sempre nell’aria. Era solo una recita. Una volta ch’è capitato all’ufficio postale d’accordo in tre ci siamo sbracciati a imitarlo all’unisono. Lui ha subito capito l’antifona e, tutto sornione, si è messo a ridere sotto i baffi rifiutando ogni esagerata profferta. Era un’azione che si ripeteva a ogni occasione. In verità, non ce la lasciavamo mai sfuggire. Vendetta tremenda vendetta!

Rocco Liberti

[1] Leggo in una delibera di Giunta del 26 novembre 1910 che per la venuta in Oppido degli onorevoli De Nava e Nunziante a motivo dell’istituzione del Comitato per l’istruzione e l’educazione popolare il 16 precedente hanno fornito paste dolci Giuseppe Franconieri e veneziane, biscotti e liquori Rocco Liberti. Al tempo c’era anche un Caffè Lucisano. Nel 1909, come da delibera dell’1 settembre 1909 il titolare Giuseppe Lucisano aveva procurato caffè e rosolio al presidente e ai componenti del seggio elettorale. Nel dopoguerra il caffè Lucisano era allogato in bassi ubicati nella parte bassa della piazza Umberto I, oggi di proprietà Gugliotta. Ne ricordo il titolare, un vecchietto alquanto bassino (ndr).

venerdì 12 aprile 2024

I VERSI E I GIORNI SENZA PACE DI LORENZO CALOGERO (di Bruno Demasi)

    Alcune semplici verità, a parer mio, sono state scritte da  Eugenio Montale sulle pagine del “Corriere della sera” a proposito del calabrese Lorenzo Calogero subito dopo la strana e solitaria morte di questo grande poeta, a cui solo il tempo ha dimostrato e sta dimostrando vera e disinteressata amicizia. Osservò che egli era “dotato di reale temperamento poetico” e che “non scriveva la sua poesia, la viveva… restituendo in parole il soffio della vita”. Forse qualcuno scioccamente potrebbe obiettare a Montale che quasi tutti i poeti “ vivono” la loro poesia, ma tale obiezione, particolarmente oggi, sarebbe facilmente smontabile perché la grandissima parte dei “poeti” si limita a scrivere (tanto) e non sa, o forse non può , vivere (almeno un po’) la vera poesia. Essa per Lorenzo Calogero fu la stessa aria che egli respirava, il sangue e la linfa che malgrado tutto nutrivano i suoi dolorosi giorni oppressi da un male orribile , quel “ male di vivere” a cui lo stesso Montale dedicò una propria lirica dicendo di averlo sfiorato spesso, ma col quale Lorenzo Calogero fu invece costretto a combattere per tutta la vita, quella malattia del cuore, del cervello e dell’anima che trancia il presente e il futuro e consente al massimo di trascinare la propria esistenza solo nei ricordi, nel passato.

   Era nato nel 1910 a Melicuccà, nella povertà di un territorio abbandonato a se stesso nella profonda provincia di Reggio Calabria e, dopo varie traversie, anche familiari, era riuscito a laurearsi in Medicina e Chirurgia, iniziando a esercitare nel suo paese e altrove, ma proseguendo in maniera molto discontinua. La sua ossessiva ricerca era quella di relazionarsi con gli altri attraverso la sua poesia, la sua ragione di vita, il suo canale espressivo e argomentativo univoco che aveva bisogno come l’aria di qualcuno che pubblicasse i suoi versi. Cercò di entrare in contatto con altri poeti, di scrivere su riviste di grande tiratura, di interessare vari editori alla propria opera che intanto cresceva a dismisura, ma non ci riuscì. L’ ossessione della morte iniziò presto a opprimerlo e a inibire ogni suo tentativo di ribellione e di ricerca del bello , come la lunga relazione epistolare e poi il trasporto vissuto per Graziella. Tentò due volte il suicidio, a 32 anni e a 46, e concluse la propria tormentata eistenza nel paese natale in circostanze rimaste purtroppo oscure: qualcuno dei vicini di casa lo vide per l’ultima volta il Il 21 marzo del 1961 e dopo quattro giorni il suo corpo senza vita fu trovato nel suo letto. 


     Fece clamore la sua povera e solitaria morte e il mondo della cosiddetta cultura si mobilitò a posteriori per dire e scrivere di tutto e di più, come spesso accade, sulla parabola esistenziale e sull’opera quasi del tutto ancora sconosciuta di questo sfortunato poeta senza tempo e senza schemi. Appena ad un anno di distanza dalla sua morte venne pubblicato da Lerici il primo volume delle sue “Opere poetiche” e, come osservarono in tanti, ne scaturì quasi un vero e proprio caso letterario, nel quale Lorenzo Calogero fu da varie parti assimilato ad Athur Rimbaud. Il cerchio della critica letteraria italica, che per decenni lo aveva sistematicamente ignorato, sembrava chiudersi dentro il solito clichè che uccide la memoria e la storia di un artista assimilandolo scioccamente ad un altro grande del passato apparentemente simile a lui.

   Negli stessi mesi veniva pubblicato sul Corriere della sera l’articolo , sopra ricordato, di Eugenio Montale, al quale, a parte gli indiscussi meriti già attribuiti, serie obiezioni si potrebbero muovere allorquando egli afferma che il problema riguardo a questo infelice poeta, vissuto in questo lembo estremo di Calabria, sarebbe quello di “definire entro quali limiti l’apporto del Calogero alla poesia italiana del nostro tempo debba ritenersi positivo” , capire che “la difficile poesia di Calogero, deve attendere la sua verifica dall’invecchiamento”, prendere atto che «Questo poeta costituzionalmente incapace di vivere si era creato un habitat di parole poco o nulla significanti, non tanto espressioni quanto emanazioni del suo ribollente mondo interiore” 
 
    Tre giudizi che il nobel per la poesia si sarebbe potuto risparmiare per un duplice ordine di motivi: intanto perché un artista della parola come Montale non può arrogarsi il diritto di giudicare tout court un “collega”, come Calogero, minimizzandolo, guardandolo quasi dall’alto dei propri blasoni poetici; secondariamente perché la qualità della poesia vera non si giudica come un vino affermando più o meno “ vediamo se con gli anni questi versi diventeranno d’annata o si trasformeranno in aceto”; infine, che Lorenzo Calogero fosse “costituzionalmente incapace di vivere” è pura, dolorosissima verità ( lo testimoniarono i suoi ricorrenti ricoveri in luoghi di cura per la malattia mentale, le sue dolorose rinunce a tutti e a tutto, ma non all’ossigeno dei suoi giorni, la poesia) ma è molto discutibile affermare, come fa sbrigativamente Montale, che egli “ si era creato un habitat di parole poco o nulla significanti…” perché l’espressione poetica di Calogero è tutt’altro che vuota e poco significante, ha invece sintassi e contenuti e armonie incredibilmente lucide e serie:

 

Se i tormenti sono tristi,
l’edera non è mattina o si colora.
Si vela o duole una viola
e dondola nube odorosa
su l’orizzonte lucida di brina.
Ecco quanto di tanta vana speranza resta
o fugge rapida o semplicemente,
silentemente accade.
I carnosi veli, i velli di bruma,
le origini stellate assalgono l’aria,
le tumide vene delle vie le ore.


    Quelle che per Montale sono “ parole poco o nulla significanti” ci appaiono invece paradigmi di vita, di sofferenza e di ricerca espressiva del tutto personali, all’interno dei quali occorre trovare la vera grandezza di queste liriche assolute e inimitabili.

   Non voglio e non posso riportare stucchevolmente qui, in questo breve e commosso ricordo di colui che ritengo davvero un grande della poesia, altri suoi brani poetici, lasciando che sia la declamazione di alcuni suoi versi fatta magistralmente da Roberto Herlitzka, che qui di seguito riporto, esempio e testimonianza per chi ancora non conosce Lorenzo Calogero. 



   Non sono neanche in grado di tentare una sia pur breve analisi della sua sterminata produzione poetica di cui la benemerita ( oggi non più esistente) casa editrice Lerici ha pubblicato nel tempo con coraggio i seguenti titoli:

POCO SUONO (1933-1935)
PAROLE DEL TEMPO (1932-1935)
MA QUESTO … (1950-1954)
COME IN DITTICI (1954-1956)
AVARO NEL TUO PENSIERO (1955)
SOGNO PIÙ NON RICORDO (1956-1958)
QUADERNI DI VILLA NUCCIA (1959-1960)



     Ad altri il compito di ritornare a ragion veduta e senza i soliti orpelli critici e beceri sulla figura e sull’opera , ancora in buona parte sconosciuta, di questo grande . Forse occorrerebbe a tale proposito prendere esempio dal modus operandi del mondo culturale americano che non vive in nessuna torre d’avorio e non lavora mai storcendo il naso. Ne è stato un esempio il progetto ( non pagato e non milionario) di traduzione delle poesie di Lorenzo Calogero (An Orchid Shining in the Hand: Selected Poems 1932-1960, a cura di J. Taylor) che, non a caso, vinse il Premio dell’Academy of American Poets, che testimonia il vero valore di quesa poesia, colpevolmente dimenticata anche da noi Calabresi, e che avrebbe molto da insegnare agli Italiani in materia di esegesi e di critica letteraria.


Bruno Demasi

martedì 2 aprile 2024

IL BELLO E IL MENO BELLO DELLA DEMOCRAZIA (di Rocco Liberti)

    Il sistema proporzionale, ma non solo esso, a Oppido Mamertina nelle elezioni amministrative dei decenni passati sembrava fatto apposta per fomentare non solo accordi sottobanco e battaglie accese ( o presunte tali) tra antagonisti durante la tornata di votazioni, ma soprattutto lotte intestine nei vari partiti per le scelte delle candidature: il quadretto che ne traccia magistralmente Rocco Liberti in questa pagina, che rievoca vicende da lui vissute con coerenza e  in prima persona nell’agone politico,  è puro divertimento , tanto più spassoso quanto più vero fin nei minimi particolari, molti dei quali misericordiosamente sottaciuti per ragioni fin troppo ovvie. Era la politica del calcolo centellinato del voto, della ricerca affannosa dell’ approvazione popolare, ma soprattutto del desiderio di legittimazione ideologica della quale in fondo non fregava niente a nessuno. Era sicuramente un’ubriacatura di personalismi, di frasi roboanti, di ostentazioni familistiche che prendeva il posto del decisionismo fascista che fino a pochi anni prima aveva completamente impedito alla gente di pensare in proprio. Era soprattutto l’Italietta provinciale della Democrazia di cui tutti si riempivano la bocca, ma che davvero  pochi esercitavano con coerenza e vero slancio verso il bene comune.(Bruno Demasi)

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   A Oppido, come in altri centri, un appuntamento periodico era rappresentato dalle rituali sedute del consiglio comunale. Non abituati a seguire discussioni di carattere politico, amministrativo e altro dato che il vecchio regime faceva da solo senza chiedere permesso a nessuno, tali si configuravano davvero dei richiami indifferibili. Si partecipava sicuramente per essere edotti di quanto si operava nell’interesse dei cittadini, ma contemporaneamente la sirena si qualificava il piacere di assistere alle frequenti liti tra oppositori. I commenti naturalmente venivano espressi fuori l’edificio, davanti al quale si formavano chiassosi capannelli. A suscitare una vera attrazione anche gli interventi dei consiglieri poco dotati d’istruzione, che naturalmente avevano il diritto di dire del pari le proprie ragioni. Solo che offrivano un italiano dialettizzato con espressioni che inducevano al riso. Ce n’era più d’uno in particolare che non lasciava passare seduta senza alzarsi alla fine per dire la sua e, quando non lo faceva, qualcun altro lo invitava a pronunziarsi. Naturalmente gli astanti stavano sempre in attesa. 

    Ma non erano soltanto i consiglieri dotati di estrema bonomia ad attirare i curiosi perché c’era dell’altro. Negli interventi spesso si trascendeva e i capi partito non stavano a lesinare nel dirsene di cotte e di crude. Per fatti personali si è arrivato perfino a minacciare denunzie alla magistratura, ma il tutto è presto rientrato. Una volta nei primi a. ‘70 dal pubblico è intervenuto con un’espressione triviale un certo galoppino e il sindaco del tempo ha immediatamente invitato a chiamare i carabinieri, ma anche in tal caso con la pace dei buoni tutto è finito e, come scherzosamente si dice: “a tarallucce e vino”. 
 
    A Oppido, nonostante la contrapposizione tra i diversi schieramenti risultasse piuttosto estremistica, non ricordo particolari di sorta circa avvenimenti che abbiano potuto trascendere il normale rapporto tra i cittadini. Peraltro, a elezioni concluse ogni alzata di scudi rientrava sempre nel normale alveo comunitario. Una volta purtroppo sono stato testimone di qualcosa che avrebbe potuto produrre gravi conseguenze, ma in seno agli adepti di un solo partito, la DC, quello che, per la particolare costituzione, avrebbe dovuto invece dare l’esempio a tutti! Era il 1974 e si qualificava il turno di nuove elezioni amministrative. Consigliere eletto nella trascorsa tornata, non mi è venuta più la voglia di proseguire, anzi debbo dire che mi ero sentito obbligato ad aderire dietro l’insistenza di quotati amici. Non ero entusiasta d’immischiarmi in un agone politico anche perché m’immaginavo tanti possibili e poco nobili retroscena. Per fare il politico ci vuole davvero un fegataccio ed essere rotto a iniziative non sempre encomiabili. Ma veniamo a noi. Fuori dalla corsa a nuove elezioni di mia spontanea volontà, ero però rimasto vincolato nel direttivo del partito come consigliere. Non volevo romperla tutta, ma, col senno di poi, vi avrei di certo ottemperato.

Quell’anno la lotta per accaparrarsi la maggiore quantità di voti e il sostegno di gran parte degli eletti si giocava a man bassa. Ma, contrariamente al solito quando la proposizione del candidato sindaco era pacifica, i due galletti che si contrapponevano da tempo (peraltro l’outsider, che in origine prima militava anche se non in maniera eclatante in altra formazione, era stato cooptato dall’altro. Dice un noto proverbio calabrese: cu’ intra ti menti, fora ti caccia. Niente di più vero!), davano adito a soluzioni proprio fuori dal normale arrivando a trescare con un partito prima sempre avverso e le velate minacce non mancavano. Si sperava che tutto procedesse civilmente, ma non è stato così. Alla riunione di partito che doveva risultare conclusiva nella sede ordinaria di Corso Vittorio Emanuele II c’eravamo tutti, candidati eletti al Consiglio Comunale e componenti della Direzione. Faceva molto caldo in ogni senso e l’aria che si respirava non era sicuramente delle più accoglienti anche perché si era vociferato che più d’uno sarebbe arrivato munito di pistola. Sono entrato piuttosto titubante e mi sono collocato nel gruppo assieme agli altri, ma, quando mi sono accorto che due volponi cercavano di prendere posto vicino alla porta piuttosto che in sala, mi è venuto immediatamente un cattivo pensiero. Con la scusa di contattare un collega ch’era uscito, al ritorno mi sono sistemato avanti a loro. Subito uno sguardo attento da parte dei due, come per dire: Ci hai fregato! Intanto, fuori c’era un viavai di gente che attendeva di conoscere come si sarebbero svolte le cose. Dove è andata mai a finire tutta quella miriade di persone? In breve tratto passeggiavano con viva attenzione su e giù anche il capitano della polizia e il maresciallo dei carabinieri Martino. A un bel momento dentro si dà il via alle singole concioni. Quando un consigliere dal tono enfatico propone la propria candidatura a scattare con animosità è l’ex sindaco, che voleva fortemente la riproposizione, il quale, afferrata una sedia, gli si lancia contro per colpirlo. A quel punto non ci ho visto più. Spalanco la vetrata, chiamo i due militari e li metto immediatamente sull’avviso: Venite, perchè perché qui si stanno ammazzando! Indi, insalutato ospite, me ne sono decisamente involato. Vedendomi uscire e sentendo del trambusto tutti fuori a chiedermi notizie su quanto avvenuto. Ho detto solo: é uno schifo! Fin qui la mia diretta testimonianza.

   Ho saputo dopo, vero o non vero, che il padre del principale antagonista era intervenuto da una casa vicina con un coltello, ma, conoscendo colui che riferiva la notizia, non c’è da credervi eccessivamente. Farfugliava di essere stato ferito a una mano, ma il giorno dopo non si notava alcunchè. In realtà, tutta la massa di gente ha fatto ressa nel locale e non si è capito più nulla, quando di colpo è venuta a mancare la corrente elettrica (fatto voluto?). Immaginarsi la confusione a che punto sarà arrivata. Mi diceva l’indomani un egregio esponente del Partito: ci siamo ritrovati d’improvviso con tutto il paese dentro e non è stato per nulla agevole potersi districare da quella massa. Sedata ogni cosa, fuori fino a tarda notte si sono formati tanti capannelli nei quali ognuno diceva la sua. Non è mancato il lato comico. Dopo di me frettolosamente era uscito altro personaggio, ma, non essendosene accorti o volutamente, in tanti hanno declamato che quegli, che nella congiura era parte in causa, era scappato per primo e in breve era già pervenuto sulla costa Viola. Quando si dice la brutta nomèa! Il giorno dopo non mi restava altro da fare che recarmi all’ufficio postale e presentare con raccomandata le dimissioni al Direttivo Provinciale. Altri lo hanno fatto, ma soltanto in sede comunale, per cui ne hanno passato di cotte e di crude prima che si arrivasse a una soluzione. Plaudivano al mio gesto, ma, nonostante li avessi consigliati opportunamente a imitarmi e di mandare tutto e tutti a quel paese, non avevano avuto il coraggio di farlo. Qualcuno, dopo averne passate ancora tante, si diceva pentitissimo per non avermi dato ascolto. Così è finita in gloria la mia brevissima e forzata carriera politica.

   Qual è stata la conclusione? Si è trovato un posto altolocato per uno degli antagonisti e la contesa alla fine è sbollita e così DC e PSI, dopo tante lotte anche furibonde, hanno amministrato assieme. Però, quel che non ti aspetti! Ammalatosi gravemente il sindaco, in seguito non è stato tutto rose e fiori. Tramontato l’idillio, sono ricominciate le tresche. Dopo appena alcuni anni (1975-1978) quegli, ancora giovane, ha terminato inopinatamente la sua vita e tutto è finito nelle mani del consigliere male incappato in occasione del tafferuglio nella sede della DC. Si è tirato bene o male fino alla fine della legislatura, quando si è dato il via a nuove elezioni. L’ex-sindaco non riproposto ha presentato una sua lista all’insegna di un Libro. Risultato: non si è qualificata alcuna maggioranza, per cui non restavano che le dimissioni. A questo punto, dopo la fase commissariale, ritorna in campo colui che per tantissimi anni, dal 1952 al 1964, aveva guidato eccellentemente il Comune. Date le difficoltà partitiche, si è fatto nuovamente ricorso all’alleanza col PSI, ma stavolta senza mene sottobanco. Da parte di tutti si è chiesta un’alleanza con canoni ben precisi controfirmata dai segretari dei due partiti e da due persone rispettabili. Era il 15 novembre 1980.

    Anche se io ero stato al corrente come tutti dei vari maneggi intercorsi, sono venuto a conoscenza del documento appena nel giugno del 2009. Mi è stato offerto come cimelio storico dal defunto amico prof. Antonio Musicò, uno dei firmatari. Data la poca leggibilità dello stesso, ne ripropongo qui la parte iniziale: 
 
...esaminata la situazione politico-amministrativa che si è determinata nel comune di Oppido Mamertina dopo le elezioni del venti di Giugno con l’apertura di una crisi grave, le cui conseguenze non sfuggono ad una forza politica responsabile;

    considerato che con lo scioglimento anticipato del Consiglio Comunale incombe ai partiti politici il dovere primario ed ineludibile di proporre soluzioni meditate ed adeguate alla gravità della crisi medesima, il segretario democristiano e il segretario socialista sono concordi nel ritenere indispensabile sin da ora l’impostazione di un serio discorso tra i due partiti al fine di assicurare le maggiori garanzie di governabilità del Comune nell’ambito di precise e chiare scelte politiche”.


    Dal 1980 al 1989 tutto è scorso piuttosto liscio, ma nell’ultimo anno ancora una mazzata, la morte improvvisa del sindaco, per cui si è dovuta ripetere l‘ennesima soluzione. Anche questa non è durata a lungo perché il solito sindaco, per ragioni legali, è stato costretto a dimettersi. Di nuovo un ricambio e via daccapo. È successo di tutto. Hanno fatto amicizia perfino oppositori storici come comunisti e missini. E fermiamoci qui!

Rocco Liberti