domenica 30 luglio 2023

“ASPROMONTE, LA TERRA DEGLI ULTIMI”

di Bruno Demasi
      E’ il titolo del film di Mimmo Calopresti ambientato nell’Aspro- monte degli anni ’50 già a lungo proiettato nelle sale cinematografiche prima del Covid e ora fatto conoscere al grande pubblico televisivo. Già capolavoro, anche se per nostra fortuna non possiede le stimmate dal meridionalismo di cassetta che da qualche tempo impazza non solo sui social, ma nel giornalismo, nella saggistica e nella narrativa di alcuni autori ancora indecisi se condannare la ndrangheta o giustificarla o, addirittura osannarla come baluardo di non meglio qualificati nemici colonialisti.

    Mimmo Calopresti riparte da Zanotti Bianco e dal paesaggio lunare che, al posto dell’Eden Borbonico vantato da tanti meridionalisti di ritorno e mai esistito, egli trova “scendendo” in Calabria dopo la terribile alluvione del ’51 : condizioni di vita subumane, mancanza di case, strade, medici, scuole, pane; sovrabbondanza di fame e pidocchi. 
   Ispirato dalla “Via dell’Aspromonte” di Pietro Criaco, la montagna lucente che il Poeta ( il personaggio che dà cuore e anima all’intero racconto, interpretato magistralmente da Marcello Fonte) definisce come “la terra di quelli che ancora rispettano i padri, la terra dei poeti e della civiltà…”, è un reportage da un inferno di silenzi e di paure. Essenzialmente  un film che Calopresti definisce racconto insieme neorealistico ed epico “il realismo di un mondo povero, anzi poverissimo e l’epicità della battaglia per riscattare la propria condizione di canaglia puzzolente”.
    Senza tanti giri di parole e ricostruzioni storiche strampalate, vi appare nella sua nudità una terra  marginale appartenente a uno Stato lontanissimo e inconsistente, a una chiesa troppo arroccata nelle sue torri eburnee e nei suoi problemi intestini per curarsi degli ultimi, la stessa terra in cui le donne muoiono di parto (allora come forse anche oggi)  per mancanza di strade e di ospedali.
    Una terra da cui fuggire, ma che ti incita a restare a combattere insieme alla maestra che ad Africo arriva dal Nord, rimboccandoti insieme agli altri le maniche per costruire la strada pur sapendo che si sarà aspramente combattuti in maniera diamentralmente opposta, ma equivalente, dal prefetto che non tollera l’autodeterminazione degli Africoti e dal capo ndrina che non ama le strade aperte perché vi possono transitare sopra i carabinieri e rompere le scatole a tutti.

    La terra in cui non mancano il piombo, i morti, gli arresti e la poesia che Mimmo Calopresti mette in bocca all’aedo senza tempo, la cui voce affiora spesso nel film: “I sogni sono quelle cose che ti fanno pensare che sei libero, e che ti fanno essere quello che sei”.
   Un film sicuramente  da capire, ricco di metafore e realismo che qualcuno potrebbe definire antico, ma non vecchio; bello, ma non edificante; senza dubbio impegnato, ma purificato da stucchevoli ideologismi di ritorno. 
   Un film da vedere e da far vedere e comprendere soprattutto ai piccoli dei nostri paesi di un Aspromonte non più lucente, ma ormai irrimediabilmente opaco e sporcato dalla politica di due dopoguerra  corrotti, avidi e  micidiali.

martedì 18 luglio 2023

“ IL FANTASTICO REGNO DELLE DUE SICILIE” SMONTATO PEZZO A PEZZO DA PINO IPPOLITO ARMINO ( di Bruno Demasi)


    Una constatazione molto semplice , ma altrettanto documentata, di Antonio Gramsci, secondo cui nel mezzogliorno d’Italia “..le paterne amministrazioni di Spagna e dei Borbone nulla avevano creato: la borghesia non esisteva, l’agricoltura era primitiva e non bastava neppure a soddisfare il mercato locale, non strade, non porti, non utilizzazione delle poche acque che la regione, per la sua speciale conformazione geologica, possedeva…” avrebbe dovuto dissuadere dal sostenere il contrario chiunque, anche coloro che ideologicamente si sentono distanti anni luce dal grande Sardo. Eppure, capitanate da un certo Pino Aprile, abile rimestatore di becere propagande duosiciliane nuove e antiche, malamente confezionate da sedicenti storici come Del Boca o da Alianello, negli ultimi dieci anni schiere disordinate e disordinanti di neomeridionalisti hanno invaso media, librerie ed edicole ammannendo le loro sempre più fantasiose ricostruzioni di quello che, secondo loro, era stato il più florido eden socioeconomico e culturale del mondo, quel Sud, a dir loro, strangolato, disperso e depauperato dai Piemontesi con l’Unificazione della Penisola.
 
  A confutare tutti, ma proprio tutti, gli stucchevoli cavalli di battaglia dei filoborbonici ha pensato Pino Ippolito Armino in un sintetico , ma esauriente, catalogo “ delle imposture neoborboniche” che per i tipi dell’editore Laterza ha visto la luce col titolo ironico ed eloquente “Quel fantastico regno delle Due Sicilie” che andrebbe tenuto sul comodino e sfogliato costantemente specialmente da quel nugolo di studiosi improvvisati che ormai da tempo imperversa e detta eresie storiografiche non solo nel mondo pseudoaccademico, ma soprattutto sul web, gonfiando a dismisura la convinzione pericolosissima della gente meridionale che tutte le responsabilità dei nostri mali atavici siano da rinvenire soltanto nell”invasione” piemontese e nei suoi presunti effetti, anziché in ferite preesistenti che si tenta malamente di dissimulare: “vere e proprie fake news che hanno un’eccezionale capacità di presa perché forniscono una spiegazione semplice e problemi complessi. Mentre una crescente e inafferrabile distanza separa sempre più il Mezzogliorno dal resto d’Italia, si preferisce ‘ inventare’ un nemico esterno, cattivo quanto basta, per addebitargli ciò che siamo e che non vorremmo essere.”.
 
     Emblema principale di questo ‘nemico’ esterno è quel Giuseppe Garibaldi a cui il medesimo Mezzogliorno, che lo avrebbe visto invasore, aveva tributato con smmaccato servilismo medaglie, onori e intitolazioni di piazze e strade fin nei più sperduti villaggi dell’appennino meridionale e siculo. Quel generale, che la propaganda neoborbonica oggi vorrebbe invece ridurre a uno scapestrato quanto venale mercenario al soldo dei Piemontesi, che con un migliaio di avanzi di galera della sua stessa risma avrebbe sbaragliato la nobilissima causa borbonica ( forte di un esercito regolare mille volte più grande e più armato). Pino Ippolito Armino dimostra con dovizia di partricolari e carte alla mano, che questo pilastro sbrecciato della propaganda neoborbonica è frutto di fantasie malate: Giuseppe Garibaldi non fu al soldo di nessuno, tantomeno di Cavour, e la sua impresa, peraltro riuscitissima, non fu partorita da un Settentrione desideroso di usurpare le fiabesche ricchezze del Sud. 
 
   Sarebbe sufficiente solo questa disamina per scompaginare le teorie infondate e volutamente superficiali di tanti neomeridionalisti ormai di professione, ma l’Autore va ben oltre e stila un vero e proprio elenco ragionato e chiarissimo delle varie costruzioni fantasione su cui si fonda oggi la nuova propaganda secessionista del Sud che, non a caso, pur sembrandone antitetica, si coniuga benissimo con l”autonomia territoriale differenziata” di cui da sempre si fa portavoce la Lega, che ha cancellato dal suo blasone la parola” Nord” non solo per carpire la buonafede degli elettori meridionali, ma soprattutto per strumentalizzare la malafede dei neomeridionalisti e dei capipopolo che non mancano mai.
   Il repertorio ragionato delle “imposture” filoborboniche, a cui rimando il lettore che voglia attentamente fornirsi un quadro reale e veritiero dei fatti, parte da una disamina sobria del reale intento della lotta risorgimentale e dalla confutazione ferrea del cosiddetto “genocidio” dei Meridionali e di quello che , secondo certa propaganda, sarebbe stato un “ complotto inglese” ad armare, con la complicità dei Savoia e del Cavour, la spedizione garibaldina. Prosegue con logica serrata e puntualità rigorosa di riscontri storiografici, con un’analisi approfondita e lucida del ruolo svolto in tutta la vicenda risorgimentale da Carlo Pisacane , da Giuseppe Mazzini e dallo stesso Garibaldi e dal ruolo vero svolto sulle loro rispettive azioni dalla Massoneria nazionale ed internazionale del tempo. 
 
   Passa poi a descrivere e a smontare una ad una le altre favole neoborboniche che dobbiamo sorbirci , nostro malgrado, quotidianamente sui social: il brigantaggio meridionale assimilato ignobilmente alla lotta partigiana, il presunto saccheggio del Sud durante e dopo l’Unificazione, la fantomatica ricchezza del Mezzogiorno preunitario e dell’industria napoletana usurpate e disperse dagli invasori, l’emigrazione coatta dei Meridionali dopo l’Unità, la fiabesca istruzione del Sud borbonico che, in realtà, presentava il quadro desolante di un analfabetismo maschile e femminile almeno doppio rispetto a quello che negli stessi anni si registrava nel Settentrione della Penisola.

  Ed è forse proprio da quell’analfabetismo, all’epoca sicuramente voluto e imposto dalle politiche borboniche, e da quello di ritorno voluto e determinato in questi anni dalle politiche che hanno affossato l’istruzione pubblica, che oggi rinascono i mostri e i mulini a vento contro i quali continuiamo a scagliarci noi Meridionali addebitando, con fare donchisciottesco, le nostre ataviche colpe e ferite a un nemico lontano e  inesistente e non a quel “sonno della ragione” di cui parlava Gramsci e di cui in questo bellissimo saggio, scritto con cura ed eleganza, Pino Ippolito Armino ci offre una visione lucida e razionale che tutti dovremmo conoscere sul serio.

lunedì 10 luglio 2023

Mémoires 8: LA FATICOSA RIPRESA DOPO IL 1943 (di Rocco Liberti)

      Sembrano passati molti più anni di quanti in realtà ci separano da quel fatidico anno conclusivo, almeno per  i nostri paesi, di una guerra infelice e suicida per tutti, ma specialmente per i paesi interni dell’entroterra di Gioia Tauro distanti tra loro anni luce per chi era costretto a spostarsi a piedi da un luogo all’altro su strade che tuttavia non erano molto dissimili, quanto a cura e manutenzione, rispetto a quelle che siamo costretti a percorrere oggi. 

      Rocco Liberti ci offre in queste struggenti pagine, ancora una volta rese preziose e originalissime dai ricordi diretti e incancellabili di un ragazzo, la storia di una realtà paesana oppressa ancora dalle mille ferite lasciate della guerra, ma fortemente motivata a ritornare alla normalità, anzi a crescere ed uscire dal proprio isolamento: ne sono testimoni i tentativi caparbi di mettersi al passo coi tempi con la rinascita del cinematografo e i primi tentativi di ripristinare forme di comunicazione e di commercio. Finiva lentamente un’epoca per lasciare spazio tra incomprensioni, paure verso il nuovo e slanci sociali ancora confusi, a una ripresa difficile e tarda a venire.

    Ancora una volta un quadro emblematico per capire non solo le radici recenti di Oppido Mamertina, ma di tutte quelle realtà dell’Aspromonte e della Calabria che Rocco Liberti in altre sedi ha studiato e narrato con dovizioso rigore di storico.(Bruno Demasi)

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               Conclusa la prima fase della guerra e restituiti molti al focolare domestico, rimanevano ancora due lunghe annate perché si potesse affermare che fosse finalmente arrivata la pace. Non si presentava agevole a chi era tornato dopo tanta assenza riprendere un tenore di vita normale tanto più che uno stato vero e proprio era da ricostruire. Bisognava innanzitutto far rientrare in un ordine accettabile condotte non propriamente adamantine e ripristinare i molti servizi andati alla malora. Il problema più impellente era costituito dalla scomparsa dell’acqua potabile. I tedeschi, distruggendo i ponti e ulteriori essenziali strutture, avevano reso inutilizzabile l’acquedotto. Bene, poiché un acquedotto non si costruisce dalla sera alla mattina e si rivela indispensabile avere l’acqua a disposizione sia per bere che per cucinare e altri indispensabili usi, si è stati costretti a cercarla dove era reperibile. Il prezioso elemento, ottenuto in precedenza attingendo alle fontane rionali (erano pochi nuclei familiari e i conduttori di esercizi pubblici a usufruirne all’interno degli edifici), è stato trovato e a dovizia, ma faceva d’uopo inoltrarsi nei fondi agricoli di privati cittadini finanche a buona distanza. Si è verificata una vera mobilitazione e cortei di donne e bambini si recavano dove lo si rinveniva, nelle contrade nomate Caddàri, Russu, Santa Vènnera, Pedajsa ecc. Si avviavano armati di catìni (secchi), bùmbuli (brocche piccole), cortàri (brocche grandi), ma anche barili e bottiglioni. Prelevato quanto necessario sotto l’occhio vigile del proprietario timoroso di eventuali asportazioni di diversa natura, ma costantemente e benevolmente accolti, se ne ritornavano trionfanti al domicilio.

  Durante il percorso avevi agio di sentire le giovincelle cantare a voce piena le allegre canzoni in voga: Reginella campagnola, Rosabella del Molise (Don Giacinto si trasformava in Sor Giacinta dal nome di una monaca dell’Orfanotrofio), Piemontesina ecc. Quelle di tipo guerresco, Faccetta nera, Lilì Marleen, Giarabub e la stessa Mamma avevano ormai lasciato il passo. Adesso sì che ci si comportava spensieratamente! Gli stadi trascorsi erano stati realmente duri! In verità, c’era la fontana con numerose bocche del lavatoio dell’ex Comune di Tresilico, nota come ‘a Funtana randi, ma l’afflusso era veramente proibitivo per la numerosa popolazione che vi si riversava. Era rimasta intatta perché servita da altro antico acquedotto.

    Bene per quanto fondamentale in cucina e per ciò che si configurava usuale, ma per il lavaggio di lenzuola, coperte, materassi e altra roba come fare? Nessun timore! C’erano le fiumare: Mazza, Petra, Russu. Quando occorreva si andava in gruppi e si rimaneva l’intera giornata. Sciacquato e risciacquato ogni capo, lo si stendeva sui grossi massi presenti e si provvedeva a far colazione. I maschietti si mettevano in caccia di granchi e anguille. Sul vespro era tutto a gonfie vele e si rincasava soddisfatti. Non basta. Con i blocchi di pietra che si ritrovavano a Mazza si costruiva il “gurnale”, una pozza d’acqua dove nei pomeriggi assolati e lontano da occhi indiscreti ragazzi piccoli e grandi all’ignuda vi s’immergevano. Dobbiamo confessare che ci è andata ottimamente perché talvolta poco discosto si conducevano i maiali ad abbeverarsi. Quanta incoscienza! In antecedenza nella stessa fiumara mentre ci si recava a Farone mi è capitato di avvistare dei militari intenti a lavarsi camicie od altro. Erano a corto di acqua anche loro già prima. 
 
     C’erano però ancora due anni da trascorrere con il conflitto che continuava a distanza. Noi avevamo solo l’incognita di come sbarcare il lunario. Per sopravvivere vigeva sempre il matafaro ossia mercato nero che s’indirizzava particolarmente inverso Napoli, il primo grosso centro allora faticosamente raggiungibile. Le persone partivano da Oppido recando bidoni di olio, da noi in abbondanza e sugli scalcinati treni di allora si trasferivano in quella città che ne aveva passato di cotte e di crude, ma che peraltro si offriva alquanto rischiosa per i furti che a volte dovevano subire. I soldi che ricavavano dalla vendita del ricercato prodotto servivano a comprare specialmente sigarette americane, ch’erano molto appetite, Chesterfield, Philip Morris, Lucky Strike, Pall Mall ecc., ma anche dell’altro ch’era poi rivenduto ottenendo col guadagno quanto necessitava a sostentare le famiglie. Tempi veramente difficili! Mio padre inizialmente ha rimediato nella città partenopea un impiego nell’allora Ufficio Regionale del Lavoro e, con l’appoggio di alcuni parenti ivi domiciliati, vi si è sistemato, ma è rimasto poco. Gli allarmi notturni e diurni per attacchi da parte dei tedeschi e la precipitosa ricorrente fuga nei rifugi antiaerei erano di norma e la paura si registrava a novanta. Venuto in licenza si è trovato ridotto talmente male che mia madre lo ha costretto a rinunciare. Da ciò, anche su assillante insistenza di donna Fortunata Gioffrè Polistena, che a mia nonna faceva un’insistente corte, è nato il progetto di ridare vita al cinema muto Mamerto con altro sonoro. Mio nonno, Michele Cannatà, negli anni venti aveva avviato un accorsato cinemateatro, che aveva riscosso gran successo, ma che si era visto costretto a chiudere a breve anche per difficoltà di carattere politico. Il podestà dell’epoca, avv. Simone, gli stava sempre addosso con le scuse più risibili. Il locale era stato quindi suddiviso in modesti appartamentini nei quali si erano allogate ben cinque famigliole, Garreffa, Rulli, Mammoliti-Palumbo, mastro Gustino calderaio di Cittanova e un canestraio di San Giorgio Morgeto. Mi ha fatto allora molta impressione il fatto che il capo-famiglia dei Mammoliti, un contadino che aveva trascorso per condanna vario tempo in un’isola, come allora usava il Fascismo, se ne ritornasse a Oppido con una cassetta colma di libri anche se d’avventura o di carattere storico.

    Perdurando lo stato bellico, si è dato inizio al riavvìo dell’impresa, che al periodo era proprio tale impostare qualcosa di serio e di stabile, facendo sloggiare chi vi abitava e riportando il locale più o meno alla sistemazione originaria con nuova intestazione di Cinema Italia. Ma, dove acquistare un proiettore di non eccessivo costo? Il luogo non poteva essere che Napoli e qui si sono recati gli interessati o solo qualcuno di essi. Rintracciato quanto si confaceva al caso, sono ritornati con baracca e burattini, cioè hanno portato in patria l’apparecchio unitamente al fornitore dello stesso, un certo Liberato, l’unico a poter rimontare i pezzi anche perché si trattava di un oggetto piuttosto obsoleto. Era quanto allora si trovava e ad un prezzo accessibile. Liberato si è installato a casa mia e vi è stato ospite per un mese o forse più. Alla fine un regalo per la popolazione che attendeva fiduciosa. Da una finestra che dava sulla piazza, una sera tra l’euforia generale è partito il fascio di luce che proiettava un film su un telone ivi installato. E ora cominciano i dolori! Il vescovo Canino si è proposto subito di traverso e, bandendo una crociata, il giorno 29 luglio 1944 ha gridato e fatto gridare dai pulpiti avverso alla nuova espressione artistica e d’intrattenimento. Ha ordinato sconsideratamente di predicare che presto su Oppido sarebbe scoppiata una “bomba di gas asfissianti” senza aggiungere commento alcuno. Figurarsi lo spavento della gente a queste improvvide, e mi limito, esternazioni, ma il sentimento popolare pian piano ha dato il giusto valore a siffatte incoscienti, a dire poco, comunicazioni. Il cinema è stato avviato, ma la paura dell’anatema ha colpito l’animo di tanti, paucciàni e non, per cui l’afflusso è stato limitato. Spesso ai gestori non restava che mettere mano nelle tasche proprie per pagare l’affitto della pellicola. Edotto della non facile situazione, il monsignore ha giocato perfino la carta dell’acquisto pur di bandire il diavolo, ma nel colloquio svoltosi non si è addivenuto ad alcuna soluzione, e meno male. Con le sue ridicole offerte il vescovo avrebbe conseguito solo di affamare i suoi chiamiamoli così antagonisti. 

     Ma la civiltà eraimpossibile fermarla e, dopo che due dei tre soci hanno alienato la loro quota al terzo, Polistena, il prosieguo del cinema è andato a gonfie vele. Non poteva essere altrimenti. I tanti secoli superati ci hanno insegnato che il cammino del progresso non può essere arrestato e che a un bel momento tutto arriva alla logica conclusione. Il mondo di Charlot e Ridolini era ormai finito da un pezzo! In successione, nell’agosto del 1945 c’è stata una intimazione di mons. Canino all’abate Palaia perché si ritirasse dalla processione di San Rocco. Il povero parroco era ritenuto reo di aver permesso alla commissione che per la festa la macchina del cinema fosse collocata in un basso della piazza maggiore e vi proiettasse un innocuo lungometraggio di vita militare, “Lotta nell’ombra”. N’è derivato un vero assedio al portone del seminario da parte di tanti cittadini inferociti. È stata indotta ad intervenire la forza publica a fin di calmare gli animi e riportare tutto alla normalità. Il film è stato regolarmente offerto dal negozio di Francesco Liberti a una gran folla e tutto si è concluso in discreta concordia. Oltre a vari generi di pellicole il cinema ha ospitato di tanto in tanto compagnie teatrali, in particolare siciliane. Era un tradizione! Si ricordava spesso quella di Giovanni Grasso, che aveva recitato col celebre comico Angelo Musco.

   
     I residenti di Oppido per recarsi in altri paesi a fine di commercio od altre esigenze non avevano allora le comodità odierne e spesso era sufficiente il caval di San Francesco. Terranova, Varapodio, Messignadi, Castellace, Taurianova e perfino Gioia Tauro si raggiungevano a piedi e qualcuno si spingeva anche a Reggio, vedi Gustinaccio. Questi faceva come attività lavorativa lo spallone, cioè facilitava l’attraversamento della frontiera con la Francia e secondo valichi accessibili a gente cui era impedito di usufruire del passaporto. I veicoli disponibili erano perlopiù carrozze, carrozzini, calessi, ma non tutti potevano permetterselo, per cui sovente si affidavano a traìni (birocci, carretti), muli, asini, che impiegavano molto per pervenire a destinazione. Sostenevano comunque il loro ruolo anche se i viaggiatori alla fine erano stanchi e pesti. Tanti si portavano sino ad Amato e alla stazione ferroviaria prendevano il cosiddetto trenino, la Calabro-Lucana, per Taurianova da una parte o per Gioia dall’altra. C’era però un intoppo soprattutto per i traìni. Al Marro era obbligatorio scendere dal mezzo e farsela a piedi fino alla zona pianeggiante. I muli proprio non ce la tiravano. In un frangente buon per me sono stato graziato. Essendo piccolo mi è stato concesso di procedere senza smontare dal carro. Era mattina presto e faceva freddo. Ogni tanto la fortuna c’è! Oggi, quando si vuol dire che uno è malconcio, si pronunzia la frase “pari ‘o cavaju du’ Mastruzzu”. Il Mastruzzu (“mastro di non eccellenti qualità”) Tripodi manteneva attaccato al suo calesse un cavallo ch’era tutto acciaccato e si muoveva come un brocco. Nel tratto fuori porta procedeva sempre a rilento, ma all’ingresso del paese si lanciava tutto pimpante. Invero, a far da regista era la frusta del suo conduttore, che lo sollecitava baldanzosamente. Non potendo martoriare la povera bestia lungo il tragitto alla fine si prendeva la rivincita per far notare che anche lui possedeva un buon destriero. 

    I mezzi che trasportavano le merci richieste dai negozianti di Oppido si ritiravano nelle tarde ore pomeridiane uno dopo l’altro. Si era soliti assistere a un vario alternarsi. Tra i carrettieri si offrivano i Mammoliti e i Lucisano, tra i carrozzieri Versace (questi avevano anche il monopolio dei carri mortali (i cocchi con cui si accompagnavano i morti al cimitero) e Marvello (Marbèju). Si evidenziavano pure alcune auto, ma la spesa non era alla portata di chicchessìa. Godevano del diritto di noleggio Creazzo, Barletta, Sereno, Liberti, Barbaro (‘u Milordu) e qualche altro. E c’era anche l’autobus! Ma si qualificava un mezzo molto arcaico, che per il suo lento avanzare era stato soprannominato ‘a lumaca. La ditta Buda, interessata all’unica tratta Oppido-Gioia, aveva acquistato un torpedone modernissimo per i tempi nelle ultime fasi delle ostilità, ma lo Stato, necessitando, glielo aveva requisito, per cui è stata costretta a riadottare quello accantonato. 


     In quella fase il paese era molto popolato e i cittadini per necessità varie si spostavano di frequente. Ricordo con nostalgìa l’apparire a sera dell’autobus, che aspettavamo ognora con ansia. Rientrava con gente sistemata pure sull’imperiale e ai lati sui parafanghi. Non c’era alcun rischio tanto non accennava di sicuro a furiose corse. D’inverno sopraggiungeva col buio e noi come interagivamo? Stavamo in attesa di scorgerne i fari accesi quando si fermava all’ufficio postale di Tresilico per consegnare la corrispondenza. Quindi, in un baleno percorrevamo di corsa la strada che ci separava e, non appena ripartito, ci sistemavamo sui predellini o dietro su una scaletta. Non eravamo visti poiché a lato dell’autista, invece del vetro, era stato inserito un foglio di compensato. Che sfarzo! Ma, o fosse il peso o fosse altro, il mezzo talvolta veniva fermato di botto, vi scendeva tosto e con tanto di verga il fattorino Peppino ci induceva a correre le cento leghe. Prendere l’autobus di primo mattino era pure una preoccupazione. Non sempre si riusciva a recuperare un posto, per cui era inevitabile alzarsi presto ed essere pronti agli spintoni. Quando ne avevamo di bisogno, c’era mio cugino Alfredo, che, gestendo un bar vicino al luogo della partenza, si alzava assai per tempo e ce lo procurava sedendosi lui fino al nostro arrivo. Oggi siamo proprio agli antipodi! Quante auto in un ormai spopolato abitato come Oppido! E le braccia per guidarle? Forse qualcuno ne conduce due per volta, una con la mano destra e l’altra con la sinistra!

    Il largo antistante la sede della GIL nell’epoca fascista era stato chiuso, anche se vi si affacciavano le case dei Gioffrè e dei Polistena e in esso si svolgevano a iosa le manifestazioni del regime. Però, man mano che le cose peggioravano, le balde riunioni si diradavano. Potevi avvertire soltanto la presenza di qualche colonia ancora ivi bloccata e l’odore di quanto bolliva in pentola per i ragazzi del Reggino che provvisoriamente vi albergavano. Avvenuto il peggio, in una notte tutto è scomparso e si è inventata ogni cosa in merito al comportamento di chi fino all’ultimo aveva diretto l’istituzione. È stata la stessa cosa per la Casa del Fascio, scassinata la quale tutte le documentazioni sono state sparse sulla Piazza Umberto I. È naturale! Succede perpetuamente così a ogni cambio di regime. Addirittura nottetempo i locali della GIL sono stati presi di mira e alcuni, possessori o meno di appartamento, se ne sono accaparrate delle stanze. Lo stabile al completo se lo sono divisi in tre famiglie (una viveva in casa d’affitto, le altre bene o male un’abitazione ce l’avevano) e da quello ch’era stato trasformato in cortile sono sollecitamente sparite le recinzioni in legno rendendo transitabile l’intero braccio di strada. Ma lo spazio, definito “arretu a’ GIL” cioè addietro alla GIL, è divenuto luogo di convegno dei ragazzi della zona, monelli e non. Vi si accedeva innanzitutto da uno stretto vicolo che si collegava alla piazza Mamerto, una stradina che è finita con l’essere spartita tra le famiglie confinanti. 
 
     C’era diuturnamente un viavai di ragazzi che ne combinava di tutti i colori avvisandosi anche liti furiose. Assai temibile la squadra di Satanassu, i cui componenti si protendevano avanti con pericolose sassaiole. Arrivavano diuturnamente minacciosi e in bande vere e proprie. Ma a prevalere si attestava certamente di più il gioco. C’erano i passatempi conosciuti come: a’ mmucciatèja (a nasconderella), a’ mmucciatèja a’ mazzola (a nasconderella con la mazza), a presu, a presu e lìbbaru (a prigioniero, a prigioniero e libero), a manna (a cavalcioni sul dorso), a picciotti e carbinèri (a picciotti e carabinieri), o’ gattuzzu (lippa), o’ vìzzari (astragalo), e’ carti (briscola, scopa, ‘o mazzettu, all’asu latru (asso ladro) ecc.), e’ brigghia (ai birilli), o’ traguardu (al traguardo). Per quest’ultimo si segnava per terra, racchiudendola con delle linee, un’area con determinati passaggi. Si sviluppava facendovi transitare sopra con un colpo delle dita aperte il coperchio di una cromatina (scatola di lucido per le scarpe). Vinceva chi superava tutti gli ostacoli (tra tanti: ‘u strittu ‘i Messina). Si qualificavano in genere giochi tradizionali, ma la fertile immaginazione infantile ne inventava periodicamente di nuovi. Uno svago assai seguito era anche ‘a guerra francesi (la guerra francese), che si dipanava sull’ampio sagrato della cattedrale. Due squadre schierate sulle estreme si sfidavano e pervenivano ad avvicinarsi l’una all’altra, non mi è chiaro se per catturarsi a vicenda od occupare le opposte posizioni. Probabilmente ogni squadra doveva difendere il proprio campo e impedire all’altra di approssimarsi al limite rappresentato dalle barre in ferro che delimitavano il sagrato a est e ovest.

Rocco Liberti