di Bruno Demasi
Era un cammino segnato quello di Stelio Pandolfini e quello di Piminoro (il villaggio di montagna che sovrasta la Piana):
incontrarsi e condividere poi per sempre una storia di stranieri (alla Camus)
che mal si adattano alla convenzione del tempo o a quella geografica nella
quale sono costretti a vivere.
Nella nebulosa sempre più fitta di poeti che spesso producono industrialmente parole in libertà, e si nutrono di scritti e di premi e di occasioni che passano inosservati ai più, Stelio Pandolfini, nonostante la sua umiltà e il suo ricercato silenzio, potrebbe stagliarsi come un gigante. Una dimensione di gigante e di “straniero” nei panni stretti di borghese nella sua Oppido, che lo vide nascere e crescere educato spontaneamente al culto dell’impegno civile, all’ideologia votata agli ultimi , a quei lavoratori d’Aspromonte maciullati dalla storia, al gusto del bello e del buono impastato quotidianamente sulle pietraie e i rovi di queste
strade. “Straniero” più che
mai anche in quella Roma dove consumò ardentemente la seconda parte della sua
esistenza, conclusa il 10 giugno del 2011. “Straniero” infine , perché mal
disposto a piegarsi agli interessi commerciali e pubblicitari quando pubblicava
due veri capolavori: “La fiumara va così” e “Il sogno. Ogni uccello nel suo
bosco”. Non per nulla il primo dei due è dedicato a Rocco Scotellaro , il poeta
contadino lucano, la cui parabola umana ed artistica per tanti versi è vicina a
quella di Stelio Pandolfini.
E poi Piminoro, il paese dei miei avi, a sua volta “ straniero”, perché costretto a nascere lontano dalla patria lontana di Fabrizia/Serra/Mongiana, a crescere su un’anonima balza rocciosa frustata dal Levante per tre quarti dell’anno. “Straniero” anche per il suo orgoglioso dialetto che in due secoli e mezzo è rimasto quello dei padri , testardemente impermeabile persino alle suggestioni dei media. “Straniero” in questa provincia e nel mondo perché geloso della sua povertà e del dono della fatica silenziosa per strappare alla terra il nulla quotidiano , solo per non morire.
Ecco! Due stranieri nel corpo e nell’anima che si sono incontrati. Probabilmente le prime volte quando Stelio osservava dal basso della sua casa oppidese le bianche pietre riarse del villaggio montano, che via via veniva divorato dall’emigrazione, e ne restava avvinto. E soprattutto quando iniziò d’estate ad affittare qualche povero e fresco basso nel paese del suo sogno, per trascorrervi quasi in solitudine la sua insolita e bellissima vacanza estiva lontano dai posti e dai locali alla moda e da tanto vociare insulso e interessato dei nostri paesi.
Questa simbiosi di due stranieri mi ha sempre commosso, tanto che, quando già Stelio viveva ormai da anni a Roma, dopo tante percosse subite dalla vita, gli chiesi tramite la sua carissima nipote Teresa, a suo volta finissima e vera poetessa, qualche verso da lui dedicato a Piminoro. Erano gli anni ’90 del secolo scorso!
Mi rispose mandandomi quattro piccole cartelle dattiloscritte con altrettante e stupende liriche, in gran parte inedite, che conservo gelosamente e che oggi pubblico qui, accompagnate da questo biglietto autografo:
“ Caro professore,
eccoVi le composizioni promesse. Prendetele per quello che sono, un affettuoso omaggio alla nostra dolcissima Piminoro, e accoglietele quale gesto di simpatia che ora m’induce a darvi del voi e nel contempo a sperare possa in seguito venire ricambiata con un tu più appropriato.
Cordialmente
Stelio Pandolfini”
L’ho ringraziato allora. Lo ringrazio ancora quest’oggi col cuore traboccante di gratitudine, come Oppidese e come Piminorese.
FRESCURA
Sentieri di felci
e pergole verdi
rossi pomodori
gialli fiori di zucca
nere more
Bambini ruzzolanti
sulla strada
Il gorgogliare bianco
del ruscello
Una capra sul tetto
danza e bruca
Terra di Piminoro
dall’aria imbalsamata
NOTTURNO
Sc sc sc sc sc sc sc !:
Comincia il concerto dei grilli
Gli ultimi campanacci son passati
è stanco il giorno
Saliremo l’una o l’altra viuzza
fra porte spalancate
Deschi luminosi
e file di santini e di ritratti
Qualche invito ad entrare
assaggiare un bicchiere
parlare dell’oggi e del domani
Il solito scalino
Echi di feste lontane
tarantelle in sordina
Il sonno
chiaro
Ci desteranno voci di campagna
Canti di gallo
e voli di colombi mattutini
CALVARIO
Ogni paese di Calabria
ha il suo Calvario
Ma di tutti
o piccolo borgo
è tuo il più bello
indorato del bianco silenzio
voce di questa terra forte e cruda
ove fatica a crescere la spiga
Eppure nei dirupi s’apre il seme
e amica è diventata la brughiera
La tua storia su un cocuzzolo
sbattuto dal Levante
Ovili accanto al letto
cuori velati di pena
donne nere
Respiri lontani
carezze di ore
ti preparano nuova sorte
Hanno un bivio tutte le strade
sospeso fra quiete e dolore
A me piace pensarti
coi gipponi sgargianti della festa
vedere al di là del calvario
gioiose bandiere
RIMPIATTINO
Sono un uomo che gioca a nascondino
tutto il giorno
come quando portava i calzoncini
Ho compagni i paesi
i monti e le fiumare
trovati e ritrovati ad ogni passo
Capo Vaticano Sant’Elia l’Aspromonte
Oppido Santa Cristina Piminoro
Son rincorso Rincorro
per luoghi lontani i ricordi
Giro rigiro la memoria
fra sembianze sopite vecchi amori
Fanciullezza che torni
da dietro un sasso un cespuglio
Bello dopo il meriggio ribagnarsi
dentro i sogni dell’alba
prima che il sole rosso
beffardo te li rubi