di Natalino Russo
Avevamo preso l’abitudine , io e alcuni miei compagni di liceo, di canzonare i delinquenti dell’Onoratà Società, propriamente chiamata ‘Ndrangheta”, in realtà un branco e tutt’altro che onorato, parodiandone il gergo, storpiandone o ridicolizzandone il linguaggio, la parlata, le frasi più usate, i modi di dire.
Questo metterli alla berlina era il solo modo di contrastarli, eravamo una specie di antimafia ante litteram. Mi spiego con un esempio : mentre Tizio incontrando Caio, o Sempronio dice, più o meno : "Ciao come stai ? A casa tutti bene ?" e si sente rispondere: "Sto bene grazie e lo stesso a casa; e tu?"; nel gergo di cui sopra questo breve scambio di battute si dilata e diventa un grottesco : "Carissimo compare, mi onoro e mi pregio di chiedere alla Vostra riverita persona notizie a riguardo di quel supremo bene che è la salute vostra e della vostra riverita famiglia, restando la mia persona personalmente, per quanto poco valgo e poco posso,e per qualunque cosa vi dovesse occorrere a vostra completa disposizione". L 'altrettanto paradossale replica : "L'onore è tutto mio, il sottoscritto, la famiglia e la "locale ( sarebbe il controllo territoriale delle attività della congrega malavitosa) non hanno di che lamentarsi e stessa cosa spero di voi e delle vostre, ricambiando le belle parole della quale mi avete voluto onorare, mi dichiaro servo vostro,e per qualsiasi cosa disponete altrettanto di me".
Uno dei campioni di questo tipo di parodia ero io. Il "campionissimo", the number one, però,era un mio
compagno di classe, tale Scutellà, originario di un paesino situato ai piedi dell'Aspromonte, mentre Seminara si trova un po' più in basso, in collina, ma non molto distante dal mare.
Scutellà, che noi appellavamo col cognome e mai con il nome di battesimo o soprannome, era la classica maschera da teatro comico : basso, fisico tozzo, viso rotondo, sul quale i peli rispuntavano ad un'ora dalla rasatura, capelli tagliati a spazzola , o a “spingulettuni” , portava occhiali neri e rotondi come il viso, con le lenti spesse come fondi di damigiana. Il suo modo di parlare era già pomposo di suo, barocco pieno di parole tra il comico ed il surreale anche nei discorsi di tutti i giorni. Figurarsi quando ci aggiungeva la parodia. Il tono baritonale della voce, una mimica articolare, il continuo premere dell’indice sulla montatura degli occhiali per avvicinarli ancora di più agli occhi, le sue pause, o come usa dire oggi i suoi tempi comici, ne facevano un umorista coi fiocchi, uno che di quei tipi che suscitano il riso anche quando annunciano una disgrazia o pronunciano un'orazione funebre.In questo ambito e con tali personaggi ebbe luogo uno degli aneddoti più divertenti ed esilaranti della mia vita, uno di quegli episodi che portano a dire che spesso la realtà supera la fantasia.
Frequentavamo il secondo anno di liceo classico, precisamente nell’Istituto Nicola Pizi di Palmi, verso la fine di maggio ed eravamo alle prese con l’ultimo compito di Greco in classe, una prova che per qualcuno poteva voler dire vita o, o morte o, per sdrammatizzare, promozione o bocciatura. Mentre ero, dunque, intento a districarmi tra le insidie di quella lingua bella e impossibile che allora odiavo e di cui solo in seguito ho compreso l’importanza e che ancora oggi fa da base e pilastro a molte delle mie conoscenze e del mio sapere e anche del mio modo di ragionare e pensare, venni colpito alla nuca da un proiettile, di carta per fortuna, che poi terminò la sua corsa tra collo e camicia.
Recuperarlo non fu semplice, ma ce la feci, lo srotolai e lessi :"Carissimo compare, mai vita di un
uomo dipese da altro uomo, come la mia oggi da voi. Nelle vostre sante e generose mani è riposto il mio destino. Gli strali del mio severo genitore e le lamentazioni della mia querula mammetta mi attendono insieme ad un'estate che vedrà il mio corpo riverso sugli odiati libri, anziché sdraiato sulla sabbia dell’amato mare sotto gli amatissimi raggi del sole. Confido in quella vostra proverbiale e riconosciuta bontà, di cui infinite volte mi avete dato amplissima prova. Il mio è l’SoS di un naufrago: aiutatemi, ve ne prego, il foglio che mi sta davanti è ancora bianco, come neve di una montagna inviolata. Fatelo ed eterna sarà la mia gratitudine. Per qualunque cosa al Vostro servizio. Disponete di me. Resto in trepidante attesa. Ci sarà tempo, luogo e modo per sdebitarmi. E ritenendomi di già vostro debitore mi firmo : Vostro compare Scutellà."
Naturalmente sarebbe stato sufficiente un laconico: "Passami la versione". Ma, quella parodia era ormai un tormentone acquisito e irrinunciabile. Seguirono momenti di tensione. La professoressa, che si chiamava Genovesi ed era di Reggio Calabria, vigilava e ci marcava stretti affinché non copiassimo. Con molta circospezione e con mano tremante scrissi sul retro del suo biglietto la traduzione della versione. Ci aggiunsi i soliti saluti "in gergo" e feci segno a Scutellà che il pacco era pronto, ma non sapevo come fare per recapitarglielo. Gli mimai un treno, una nave, un aereo, un'automobile e persino un asino, facendogli capire che stava a lui suggerirmi il mezzo di trasporto più idoneo e sicuro. Lui ,a sua volta, facendomi sbellicare dal ridere, ri-mimò quei mezzi di trasporto scuotendo la testa dopo ognuno in segno di un no. Poi si toccò il petto e fece l'occhiolino come per dire "Ma vidu ieu" alla calabrese, in milanese "Ghe pensi mi" e in italiano "Provvedo io".
La Professoressa notò la parte finale di quello scambio di smorfie e ci richiamò: "Cari muti di Sorrento è ora di finirla, più che due mimi, sembrate due scemi". In quell'aula immersa in un silenzio irreale e carica di tensione risuonò stentorea, dopo pochi secondi la voce baritonale di Scutellà : "Grazie, anche a nome di mio compare, per aver detto sembrate e non siete. Già che ci siamo posso aver da Ella, gentile professoressa, il permesso, indifferibile e meno che mai delegabile, di recarmi alla toilette ?".
"Dove, magari c'è pronto ad attenderti un foglio con la traduzione vero?".
"Ella mi offende gravemente, non fossi, come grazie a Dio sono, il ragazzo dabbene che sono....".
"Pe quantu si ndranghitista ti cumpundi" gli gridò un compagno.
"Puru i pulici hannu a tussi, taci villico, troglodita, vermiciattolo, e scusami se ti vanto, che non sei altro, poca confidenza - lo fulminò Scutellà, che rivolgendosi nuovamente alla Signorina Genovesi, che lo invitava a moderare i termini riprese : "Ha ragione non dovevo scusarmi.. dicevo che, appunto, educazione e rispetto mi impediscono di profferire parole tanto scortesi riguardo alla sua persona".
"Ella mi offende gravemente, non fossi, come grazie a Dio sono, il ragazzo dabbene che sono....".
"Pe quantu si ndranghitista ti cumpundi" gli gridò un compagno.
"Puru i pulici hannu a tussi, taci villico, troglodita, vermiciattolo, e scusami se ti vanto, che non sei altro, poca confidenza - lo fulminò Scutellà, che rivolgendosi nuovamente alla Signorina Genovesi, che lo invitava a moderare i termini riprese : "Ha ragione non dovevo scusarmi.. dicevo che, appunto, educazione e rispetto mi impediscono di profferire parole tanto scortesi riguardo alla sua persona".
"O, piuttosto la paura di essere bocciato ? Intanto, quelle parole promettendo di non dirmele, me le hai dette, comunque per tagliare la testa al toro, il permesso è accordato, indifferibilmente e senza delega alcuna".
Scutellà, sussurrando un "povero toro", partì in missione. Tre minuti ed era di ritorno; passò, inchinandosi, davanti alla cattedra. Per giungere al suo banco, doveva passare davanti al mio, e quando fu a due metri da me aprì la e giacca prima tutta abbottonata e sotto apparve la bocca spalancata di un borsello che aveva cinto alla vita. Piegando l'indice, gesticolò per farmi capire di dare il biglietto in pasto al borsello che aveva fame. Io, coperto alla vista della professoressa dal suo voluminoso corpo, vi lanciai dentro il foglietto appallottolato con la versione tradotta: "Bravo -disse- bel tiro libero, a buon rendere". “Prego, mio dovere e privilegio - dissi io.
"Cosa succede , signori Cric e Croc ?" gridò l'insegnante rivolta a noi.
"Niente, Signorina parlavamo di basket, volgarmente detta, pallacanestro" si giustificò pronto Scutellà.
Scutellà, sussurrando un "povero toro", partì in missione. Tre minuti ed era di ritorno; passò, inchinandosi, davanti alla cattedra. Per giungere al suo banco, doveva passare davanti al mio, e quando fu a due metri da me aprì la e giacca prima tutta abbottonata e sotto apparve la bocca spalancata di un borsello che aveva cinto alla vita. Piegando l'indice, gesticolò per farmi capire di dare il biglietto in pasto al borsello che aveva fame. Io, coperto alla vista della professoressa dal suo voluminoso corpo, vi lanciai dentro il foglietto appallottolato con la versione tradotta: "Bravo -disse- bel tiro libero, a buon rendere". “Prego, mio dovere e privilegio - dissi io.
"Cosa succede , signori Cric e Croc ?" gridò l'insegnante rivolta a noi.
"Niente, Signorina parlavamo di basket, volgarmente detta, pallacanestro" si giustificò pronto Scutellà.
. . .
All'uscita di scuola confrontammo gli "elaborati", come li chiamava l'Insegnante, con quelli dei più bravi della classe, Lillo Scionti e Giancarlo Della Mura, e avendo verificato che non se ne discostavano di molto, ci sentimmo tutti la promozione in tasca, Scutellà per primo, che prese a cantare, anticipando il Piero Focaccia di qualche anno dopo: "Per quest'anno si può andare, ci vediamo tutti al mare, tutti a mollo o sul pattino, ringraziando Natalino", e quindi stampando baci sulle guance ( precursore di Totò Cuffaro detto “Vasa Vasa”) e profondendosi in abbracci e pacche sulle spalle a tutti, e a me, "il suo salvatore", più degli altri.
Otto giorni dopo, tanto durò la camera di consiglio, la professoressa giunse in classe col borsone, la qual cosa significava che la sentenza era pronta. Ottenuto , con non poca fatica, il silenzio diede inizio al rito, che ormai conoscevamo bene. Prima di consegnarci i compiti, lesse a voce alta i voti ottenuti da ciascuno, dopo, come d'abitudine, avrebbe letto il migliore ed il peggiore degli "elaborati" a mo' di esempi da emulare o di errori da evitare. I due fuoriclasse, intesi nel senso di campioni, perché in senso letterale i più “fuori-classe” di tutti eravamo proprio io e Scutellà che spesso dalla classe venivamo cacciati, ebbero entrambi un nove tondo tondo. A seguire ci furono voti tra il sette e il cinque, e un paio di due (a compagni che avevano consegnato il foglio in bianco). Io ebbi sei e mezzo...
Quando, dopo qualche istante, la professoressa fece seguire, al nome Scutellà, il numero "quattro meno meno " la scala Richter e la scala Mercalli si fusero per registrare un terremoto di quindicesimo grado. Contestazioni, proteste, urla, insulti, epiteti come "spia" e "traditore" riempirono l'aula. Sembravano le urla di una folla e, invece, a gridare era solo uno, lui: Scutellà, paonazzo e al limite del collasso e il destinatario di tutti quei complimenti ero io. L'insegnante ci mise poco a dedurre che qualcuno aveva copiato da qualcun altro. E che questi due malfattori fossero Scutellà ed il sottoscritto lo ebbe per certo quando il mio "compare", dopo essersi fatto ripetere il suo voto volle che venisse ribadito anche quello assegnato a me e cioè “sei e mezzo e quattro meno meno” urlò passando dal gergo della "ndrangheta" calabrese a quello della mafia di Sicilia : "Meschina e intollerabile disparità di giudizio fu ".
Mi arrabbiai molto con Scutellà, che, così facendo mi tradiva, e lui con me perché, a suo dire, l'avevo ingannato, dandogli da copiare delle stupidate. La professoressa, anche per placarne l’ira, volle dargli soddisfazione e, riportata con molta difficoltà la calma nella classe, comunicò che avrebbe letto non più le versioni prima ed ultima in classifica, ma quella incriminata di " Scutellà Minimo il contestatore", cosi l'appellò, parafrasando il famoso Fabio Massimo il Temporeggiatore.
Ripescò dalla mazzetta il corpo del reato, si schiarì la voce e cominciò a declamare, con voce stentorea, quella traduzione, che parola più parola meno - dopo tanti anni vado a memoria - suonava cosi: "Pericle non tralasciava occasione per ripetere agli Ateniesi come la democrazia, cioè il governo del popolo, fosse la soluzione politica ideale da preferirsi senza alcun dubbio all'Oligarchia, il governo di pochi, e alla monarchia, il governo di uno solo, e massimamente al più perverso e dannoso dei sistemi politici, la dittatura, fonte infinita di ingiustizie, miseria, violenze e guerre. La storia dei popoli era la più valida dimostrazione della giustezza di quanto andava affermando. Solo la democrazia, con il suo complesso di leggi, diritti e doveri, porta alla pace, alla giustizia, al benessere, nella libertà. Questo non avviene con le altre forme di governo non legittimate dalla volontà del popolo. Vigilate, dunque o Cittadini, perché a voi e solo a voi appartiene la sovranità. Dimostrate saggezza e perseveranza nella giustizia.......".
Quando, dopo qualche istante, la professoressa fece seguire, al nome Scutellà, il numero "quattro meno meno " la scala Richter e la scala Mercalli si fusero per registrare un terremoto di quindicesimo grado. Contestazioni, proteste, urla, insulti, epiteti come "spia" e "traditore" riempirono l'aula. Sembravano le urla di una folla e, invece, a gridare era solo uno, lui: Scutellà, paonazzo e al limite del collasso e il destinatario di tutti quei complimenti ero io. L'insegnante ci mise poco a dedurre che qualcuno aveva copiato da qualcun altro. E che questi due malfattori fossero Scutellà ed il sottoscritto lo ebbe per certo quando il mio "compare", dopo essersi fatto ripetere il suo voto volle che venisse ribadito anche quello assegnato a me e cioè “sei e mezzo e quattro meno meno” urlò passando dal gergo della "ndrangheta" calabrese a quello della mafia di Sicilia : "Meschina e intollerabile disparità di giudizio fu ".
Mi arrabbiai molto con Scutellà, che, così facendo mi tradiva, e lui con me perché, a suo dire, l'avevo ingannato, dandogli da copiare delle stupidate. La professoressa, anche per placarne l’ira, volle dargli soddisfazione e, riportata con molta difficoltà la calma nella classe, comunicò che avrebbe letto non più le versioni prima ed ultima in classifica, ma quella incriminata di " Scutellà Minimo il contestatore", cosi l'appellò, parafrasando il famoso Fabio Massimo il Temporeggiatore.
Ripescò dalla mazzetta il corpo del reato, si schiarì la voce e cominciò a declamare, con voce stentorea, quella traduzione, che parola più parola meno - dopo tanti anni vado a memoria - suonava cosi: "Pericle non tralasciava occasione per ripetere agli Ateniesi come la democrazia, cioè il governo del popolo, fosse la soluzione politica ideale da preferirsi senza alcun dubbio all'Oligarchia, il governo di pochi, e alla monarchia, il governo di uno solo, e massimamente al più perverso e dannoso dei sistemi politici, la dittatura, fonte infinita di ingiustizie, miseria, violenze e guerre. La storia dei popoli era la più valida dimostrazione della giustezza di quanto andava affermando. Solo la democrazia, con il suo complesso di leggi, diritti e doveri, porta alla pace, alla giustizia, al benessere, nella libertà. Questo non avviene con le altre forme di governo non legittimate dalla volontà del popolo. Vigilate, dunque o Cittadini, perché a voi e solo a voi appartiene la sovranità. Dimostrate saggezza e perseveranza nella giustizia.......".
L'insegnante si fermò per prendere fiato e Scutellà si alzò, fece qualche passo verso la cattedra e, con finta gentilezza, grugnì contro : "Mi permetto di farle notare, cortese nonché esimia Signorina Professoressa, la stupefacente attualità di questo discorso, e modestamente la mia impeccabile traduzione del pensiero di Pericle, il quale giusto com’era , se fosse qui oggi , si complimenterebbe con me e mi assegnerebbe ben più di uno striminzito e degradante quattro meno meno”. Era tornato lo Scutellà di sempre, calmo, ironico e fantasioso. Un vero istrione.
Ma, fu la quiete che precede la tempesta o, come diciamo a Seminara, " a megghiuria prima da morti, o i botti lenti e scufiati prima da’ “Cassa Infernale”.
Da stentorea, infatti, la voce della Professoressa divenne tuonante e i suoi occhi lampeggianti facevano il paio con labbra e lingua infuocate. : "Calma, calma, ragazzo, codesta non è un'interrogazione orale e non siamo in parlamento. Quanto all'impeccabilità della traduzione, ai complimenti e al bel voto, di cui Pericle potrebbe gratificarti, potrei convenire se tu ti fossi fermato qui. Pertanto, ti chiedo, caro e ribelle Scutellà, di usare la tua intelligenza e magniloquenza per spiegare a me e alla classe, quando mai Pericle disse le parole che tu gli hai messo in bocca, trasferendole poi nella parte finale del tuo compito e che vado a leggere, se avrai la compiacenza di tornare al tuo posto, di sederti e di tacere".
Scutellà obbedì, girò i tacchi, andò a sedersi, non prima di lanciarmi un altro sguardo inceneritore, cui aggiunse il gesto minaccioso di mettersi la mano in mezzo alla bocca, nel più classico dei gesti minacciosi, promessa di tremenda vendetta… E lei riprese, recitando la frase incriminata, ovvero la pietra dello scandalo: "Non esisterebbe quel bene supremo che si chiama amicizia, senza la disponibilità ad aiutarsi, soprattutto nel momento del bisogno e del pericolo, l'uno con l'altro, anche correndo gravi rischi; voi avete confidato in me ed io mi sento onorato di servirvi. Gli uomini sono uomini o sono niente e niente, se non la vostra benevolenza, mi dovete per quello che considero un mio dovere fare per voi. Alla nostra cara e imperitura amicizia”.
Io compresi cos'era accaduto fin dalla prima parola "messa in bocca" a Pericle. Scutellà, stravolto, sudato, paonazzo, col dito indice tra le labbra come l'omino di "Lascia o raddoppia", solo dopo l'ultima. I compagni e la professoressa solamente quando, indeciso se infuriarmi o se scoppiare a ridere, gridai verso il mio simpatico comparuccio: " Stupido, imbecille, calamaru e carnalovari, e scusami se ti vantu, quelli erano i miei saluti, non certamente parole di Pericle, mi sono giocato le vacanze anch’io, Giuda che non sei altro, va jutali l’amici….".
"La prossima volta ci metti un punto grosso come una casa e vai a capo, maccarrunazzu, susino dei calosci, scheletru vivente", grugnì lui, che aveva riperso il sense of humour".
Io, davvero fuori dalla grazia di Dio, mi avvicinai e muso contro muso, gli urlai : "Non ci sarà una prossima volta, bestione ingrato e traditore, scimpanzé col tam-tam ! Basta amicizia, non ti voglio più vedere. Vai a far del bene".
Il bene, dopo che si spensero le risate di tutta la classe, quelle dell’Insegnante in testa, ce lo fece proprio quest'ultima, che tolse di bocca a Pericle , cancellando dall'elaborato, la frase "incriminata" e assegnò, sia a me che a Scutellà, il "sei" che voleva dire promozione."
“Per una volta, disse, derogo da quello che sarebbe il mio dovere per evitare che Pericle entri da quella porta e vi prenda a pedate nel sedere e anche perché mai ho riso tanto in vita mia. Quindi, cari figghiolazzi, faccio come il banchiere Gianfigliazzi, che non punì il famoso Chichibìo, perché, con la risposta sulla gru, l'aveva fatto morire dal ridere. Dovete, però, promettere e giurare che quanto avvenuto oggi in quest’aula rimarrà un segreto della nostra classe e che non si ripeterà in futuro, poiché nella vita bisogna essere leali e sinceri. Intanto, come primo atto di resipiscenza, pretendo che i due duellanti depongano le armi e si riappacifichino".
“Risipesciamoci e chhiappamu i fica”, disse Scutellà abbracciandomi e io , sibilandogli un “Malanovamai”,
ricambiai l’abbraccio”. Dopo di che, giurammo e riportammo alla superficie dei nostri volti quel riso che avevamo messo a covare sotto la cenere. Quanto ridemmo, di gioia, di sollievo e liberazione.
Prima di lasciare la classe, quando era già sulla soglia della porta, la Signorina Genovesi si voltò e disse : "Comparucci, un ultimo consiglio, ora e in futuro, parlate come mangiate, possibilmente in buon italiano e non in gergo ndranghitistico".
Scutellà volle l'ultima battuta :" Non mi preoccupava tanto il quattro, incommensurabile e comprensiva docente massima, quanto il meno-meno, che mio padre , soggetto, avrebbe usato come indicativo presente del verbo menare, con la mia schiena, quale complemento oggetto, e un nerbo di bue come complemento di mezzo. Grazie, quindi, anche a nome della mia schiena che diventerà rosso-nera di sole e abbronzatura e non per gli ematomi e le piaghe ".
Dal giorno appresso, e fino al termine del corso di studi, io e Scutellà, incontrandoci, salutandoci, o conversando, ci limitammo a dei semplici "ciao" e a frasi semplici e non allusive, senza aggiungere, a scanso di equivoci, nemmeno il classico: " Compare ".
Il linguaggio dei boss lo lasciammo ai boss. Quello barocco, tipico di chi parla molto per non dire nulla, lo lasciammo ai politicanti. Tutti comunque, da quel momento, incrociando Scutellà, non riuscivano a non dirgli : " Ti saluta Pericle”.
E, la sua replica era sempre la stessa : " Non lo conosco , mai visto, o sentito nominare !”
Grande Scutellà . Grandissimo ! Con quanta nostalgia e affetto lo ricordo sempre, anche se , dopo quei migliori anni della nostra vita, non ci siamo più visti, né sentiti.
Ma, fu la quiete che precede la tempesta o, come diciamo a Seminara, " a megghiuria prima da morti, o i botti lenti e scufiati prima da’ “Cassa Infernale”.
Da stentorea, infatti, la voce della Professoressa divenne tuonante e i suoi occhi lampeggianti facevano il paio con labbra e lingua infuocate. : "Calma, calma, ragazzo, codesta non è un'interrogazione orale e non siamo in parlamento. Quanto all'impeccabilità della traduzione, ai complimenti e al bel voto, di cui Pericle potrebbe gratificarti, potrei convenire se tu ti fossi fermato qui. Pertanto, ti chiedo, caro e ribelle Scutellà, di usare la tua intelligenza e magniloquenza per spiegare a me e alla classe, quando mai Pericle disse le parole che tu gli hai messo in bocca, trasferendole poi nella parte finale del tuo compito e che vado a leggere, se avrai la compiacenza di tornare al tuo posto, di sederti e di tacere".
Scutellà obbedì, girò i tacchi, andò a sedersi, non prima di lanciarmi un altro sguardo inceneritore, cui aggiunse il gesto minaccioso di mettersi la mano in mezzo alla bocca, nel più classico dei gesti minacciosi, promessa di tremenda vendetta… E lei riprese, recitando la frase incriminata, ovvero la pietra dello scandalo: "Non esisterebbe quel bene supremo che si chiama amicizia, senza la disponibilità ad aiutarsi, soprattutto nel momento del bisogno e del pericolo, l'uno con l'altro, anche correndo gravi rischi; voi avete confidato in me ed io mi sento onorato di servirvi. Gli uomini sono uomini o sono niente e niente, se non la vostra benevolenza, mi dovete per quello che considero un mio dovere fare per voi. Alla nostra cara e imperitura amicizia”.
Io compresi cos'era accaduto fin dalla prima parola "messa in bocca" a Pericle. Scutellà, stravolto, sudato, paonazzo, col dito indice tra le labbra come l'omino di "Lascia o raddoppia", solo dopo l'ultima. I compagni e la professoressa solamente quando, indeciso se infuriarmi o se scoppiare a ridere, gridai verso il mio simpatico comparuccio: " Stupido, imbecille, calamaru e carnalovari, e scusami se ti vantu, quelli erano i miei saluti, non certamente parole di Pericle, mi sono giocato le vacanze anch’io, Giuda che non sei altro, va jutali l’amici….".
"La prossima volta ci metti un punto grosso come una casa e vai a capo, maccarrunazzu, susino dei calosci, scheletru vivente", grugnì lui, che aveva riperso il sense of humour".
Io, davvero fuori dalla grazia di Dio, mi avvicinai e muso contro muso, gli urlai : "Non ci sarà una prossima volta, bestione ingrato e traditore, scimpanzé col tam-tam ! Basta amicizia, non ti voglio più vedere. Vai a far del bene".
Il bene, dopo che si spensero le risate di tutta la classe, quelle dell’Insegnante in testa, ce lo fece proprio quest'ultima, che tolse di bocca a Pericle , cancellando dall'elaborato, la frase "incriminata" e assegnò, sia a me che a Scutellà, il "sei" che voleva dire promozione."
“Per una volta, disse, derogo da quello che sarebbe il mio dovere per evitare che Pericle entri da quella porta e vi prenda a pedate nel sedere e anche perché mai ho riso tanto in vita mia. Quindi, cari figghiolazzi, faccio come il banchiere Gianfigliazzi, che non punì il famoso Chichibìo, perché, con la risposta sulla gru, l'aveva fatto morire dal ridere. Dovete, però, promettere e giurare che quanto avvenuto oggi in quest’aula rimarrà un segreto della nostra classe e che non si ripeterà in futuro, poiché nella vita bisogna essere leali e sinceri. Intanto, come primo atto di resipiscenza, pretendo che i due duellanti depongano le armi e si riappacifichino".
“Risipesciamoci e chhiappamu i fica”, disse Scutellà abbracciandomi e io , sibilandogli un “Malanovamai”,
ricambiai l’abbraccio”. Dopo di che, giurammo e riportammo alla superficie dei nostri volti quel riso che avevamo messo a covare sotto la cenere. Quanto ridemmo, di gioia, di sollievo e liberazione.
Prima di lasciare la classe, quando era già sulla soglia della porta, la Signorina Genovesi si voltò e disse : "Comparucci, un ultimo consiglio, ora e in futuro, parlate come mangiate, possibilmente in buon italiano e non in gergo ndranghitistico".
Scutellà volle l'ultima battuta :" Non mi preoccupava tanto il quattro, incommensurabile e comprensiva docente massima, quanto il meno-meno, che mio padre , soggetto, avrebbe usato come indicativo presente del verbo menare, con la mia schiena, quale complemento oggetto, e un nerbo di bue come complemento di mezzo. Grazie, quindi, anche a nome della mia schiena che diventerà rosso-nera di sole e abbronzatura e non per gli ematomi e le piaghe ".
Dal giorno appresso, e fino al termine del corso di studi, io e Scutellà, incontrandoci, salutandoci, o conversando, ci limitammo a dei semplici "ciao" e a frasi semplici e non allusive, senza aggiungere, a scanso di equivoci, nemmeno il classico: " Compare ".
Il linguaggio dei boss lo lasciammo ai boss. Quello barocco, tipico di chi parla molto per non dire nulla, lo lasciammo ai politicanti. Tutti comunque, da quel momento, incrociando Scutellà, non riuscivano a non dirgli : " Ti saluta Pericle”.
E, la sua replica era sempre la stessa : " Non lo conosco , mai visto, o sentito nominare !”
Grande Scutellà . Grandissimo ! Con quanta nostalgia e affetto lo ricordo sempre, anche se , dopo quei migliori anni della nostra vita, non ci siamo più visti, né sentiti.