sabato 18 gennaio 2025

LEVANTINA!! (di Bruno Demasi)

- Che limbìci e limbìci – sbottò come una furia il barbiere verso i pochi clienti ancora presenti quasi a mezzogiorno dentro il salone – questo è le-van- te e qua fra poco ballano pure le sedie se non stiamo attenti!

    Le folate crescevano rapidamente di intensità mulinando sulla grande piazza e facendo volare tutto ciò che incontravano, terra compresa, mentre già si avvertivano le prime raffiche di pioggia che sbattevano a sprazzi sui vetri della porta.

- Prepariamoci minimo minimo a due giorni fitti di levantina, se tutto va bene – continuò il barbiere dirigendo la voce agli orecchi sordastri di don Saruzzo Capone, che, per essere, era alto di statura,ma magro e filiforme come una salamida , rintanato nella grande poltrona del barbiere e coperto da una tonga a strisce, aveva quasi l’aria di un ragazzo se non fosse per i baffoni e il pizzetto che incorniciavano il suo viso.

     Per la sua somiglianza con il nuovo re molti in paese avevano preso l’abitudine di chiamarlo “ Il Principino”, anche se aveva superato abbondantemente i sessanta anni, e di conseguenza la moglie, Donna Gaetanina , gigantesca e pingue come una balena, assunse a sua volta il nomignolo di “Elena”, come la regina. Quando uscivano insieme, lui scompariva al suo fianco anche se la sposa faceva di tutto per non apparire bisesta, non usava cappelli, evitava vesti larghe e appariscenti, camminava attaccata all’esilissimo braccio del marito, trattenendo pancia e seno in un continuo sforzo che la rendeva sempre  rossa in faccia coma una paparina.

    Appena Don Saruzzo ebbe finito, qualcuno dei presenti si offrì di accompagnarlo a casa a causa del vento che intanto era diventato fortissimo e faceva volare già qualche ceramida sulle teste degli incauti passanti, ma, essendo oltremodo orgoglioso, l’uomo rifiutò, prese il bastoncello ed aprì la porta per uscire. Fu un attimo: venne immediatamente risucchiato sulla piazza come un filo di paglia e andò di corsa a fermarsi con entrambe le mani alzate e con la faccia spiccicata contro il basamento del monumento a Rocco De Zerbi perdendo cappello e bastone, poi cominciò a ferriare come un pupo di pezza per la piazza e la percorse per decine di metri a zig zag senza riuscire a fermarsi, fino a quando una folata più intensa delle altre non lo sollevò quasi da terra spedendolo diritto verso la vasca della fontana centrale. E ci sarebbe arrivato subito se non fosse stato preso al volo dal provvidenziale arrivo del corpulento Coscimo Vagliano che, oltre a bloccarlo , provvide poi, tenendolo forte per le spalle, ad accompagnarlo fino al portone di casa, che si apriva su una stradella laterale a pochi metri dalla piazza.

    La levantina , come prevedeva il barbiere, durò quasi due giorni, durante i quali pochissimi uscirono di casa, e lasciò il macello sui tetti, per le strade e nelle piazze. Nel pomeriggio del terzo giorno si radunò un capannello di persone del partito dei Bianchi sotto il municipio reclamando a gran voce che si affacciasse il sindaco, che in quel periodo apparteneva al partito dei Rossi. Dopo un po’ il sindaco si affacciò mentre molte voci si alzavano contro di lui, mostrando il finimondo che aveva combinato la levantina:

- Che c’entra il municipio con il vento ? – urlò l’uomo dal balcone – Che pretendevate che mettessimo uno stuppagghio dove sapete voi al Levante?

- Vogliamo sapere cosa intende fare il comune per riparare i danni nel paese e nelle campagne, non incominciate col solito spunto all’aceto, sindaco! – disse il portavoce dei Bianchi – e vedete cosa dovete fare per la sicurezza dei cittadini che quando ci sono giornate di levantina in queste piazze sembrano peggio del ciciri al crivo e rischiano la vita!

    Il sindaco per non far finire la protesta a feto garantì che già dai giorni successivi si sarebbero presi tutti i provvedimenti del caso, ma gli animi non si calmarono e il capannello dei Bianchi salì al completo nel circolo dei gnuri per continuare la discussione. Seduto su un’enorme poltrona dietro il tavolo del biliardo, c’era don Saruzzo che era intento a leggere il giornale e sentiva e non sentiva le voci concitate: nessuno si era accorto di lui. A un tratto però il più accanito dei Bianchi, cominciò a battere nervosamente e ripetutamente il pugno sul biliardo per imporre il silenzio:

- Siete d’accordo se chiediamo al sindaco di provvedere la piazza di due lunghi passamano di ferro per permettere alla gente di tenersi quando ci sono le levantine?

- Ma quali passamano… – obiettò timidamente qualcuno – e che siamo a Trieste? Vogliamo rovinare la piazza più bella della Piana di Gioia Tauro?

- Che rovinare e rovinare … ? – ribattè l’uomo infuocato – non si rovina niente, ma si dà la possibilità alla gente anziana di passeggiare in piazza tenendosi se ha ferriamenti di testa e, quando imperversa il vento, com’è accaduto in questi giorni, serve a impedire che qualcuno di corporatura leggera 'nsamadio venga fatto volare via, come stava succedendo avantieri al povero don Saruzzo Capone che pareva un pilorgio…

- Il pilorgio di tua sorella! – esclamò ad alta voce sentendo urlare il suo nome don Saruzzo , che, appartenendo al partito dei Rossi, vedeva quella gente come il fumo negli occhi.

- Ah, qui siete , don Saruzzo? – riprese il portavoce dei Bianchi – scusate, ma non vi avevo visto e non vi volevo offendere, volevo solo dire che il primo giorno di levantina per poco in piazza non avete fatto la fine del surici nella cciappa se non fosse intervenuto qualcuno a salvarvi…

- E io ti dico invece che se continui a dire queste minchiate - interruppe don Saruzzo – la fine del surici la fai tu perché ti sparo nella mpigna e poi me ne vado in galera contento e là dentro me ne fotto una volta per sempre delle levantine!

    Gli animi si riscaldarono e tutti incominciarono a fare voci : chi per un motivo, chi per l’altro e chi non capiva bene cosa stesse accadendo urlava più degli altri.

. . .

- Catinazzo !! – urlò Donna Gaetanina al marito il giorno dopo – ancora non sei contento delle brutte figure che stiamo facendo? Te ne vai a ferriare al vento di levante quando lo sai che ti può buttare a terra pure un soffio per stutare una candela e mi hanno detto che ora ti metti pure a minazzare di sparare nella fronte a quelli del partito dei Bianchi…?
 
   Il Comune cercò di affrontare in qualche modo i danni terribili della levantina che aveva fatto cadere un numero altissimo di ulivi e di altri alberi anche in paese, ma il partito dei Bianchi insisteva per i passamano di ferro da installare sulla piazza grande e già tutti i forgiari del paese stavano con le orecchie tese, pronti ad accaparrarsi il lavoro. Alla fine di un lungo tira e molla si giunse alla mediazione di costruire un solo passamano in metà piazza e il sindaco capitolò. Il lavoro venne subito avviato e completato in meno di una settimana . E quando una domenica mattina fu inaugurato il lungo passamano in ferro che al centro della piazza collegava il monumento a Rocco De Zerbi con la fontana centrale, la gente in un solo attimo lo battezzò subito come “ Passamano del Principino”.

    I Bianchi erano al settimo cielo, nessuno però si avvicinava al manufatto neanche per sfiorarlo e piano piano da “Passamano del Principino” il nome chiamò più direttamente in causa don Saruzzo , che in pochi giorni divenne “ Il Principino Passamano”, suscitando battute e risate a non finire.

- Vogliamo vedere alla prima levantina, quando il Principino Passamano andrà a tenersi, se il lavoro è stato fatto a regola d’arte dal sindaco – sparrasiavano dovunque ad alta voce i Bianchi.

- Possono venire mille levantine, anche mbiscate con limbìci, grecale e scirocco – sentenziavano i Rossi – ormai il ferro non lo scasa più nessuno e non solo il Principino Passamano, ma tutti coloro che ne hanno bisogno si possono tenere quanto vogliono…!

    Tacitamente tutti aspettavano il collaudo dell’opera che nella fantasia popolare Don Saruzzo avrebbe dovuto fare proprio in un giorno di vento forte, ma la levantina tardava ad arrivare e quando egli usciva in piazza per farsi due passi si sentiva centinaia di occhi addosso ed evitava accuratamente di avvicinarsi al passamano, che anche di domenica nei momenti di maggiore affollamento della piazza faceva sempre il vuoto intorno a sé.

- Soldi perduti! – diceva ormai la gente – Hanno diviso in due la nostra bella piazza con questo ferro rruggiatizzo e nessuno va a tenersi, manco il Principino Passamano per cui è stato fatto!

    Queste parole giungevano immancabilmente all’orecchio di Donna Gaetanina che ormai sputava veleno e, quando era costretta ad attraversare la piazza per recarsi in chiesa, camminava rasente i muri nel lato più distante dal manufatto di ferro al centro della piazza che faceva finta accuratamente di non vedere, ma c’era sempre qualche amica che si spassava, incontrandola:

- Che si dice, Donna Gaetanina, sembra che oggi il levante cominci a soffiare a leggio…fanno bene i mariti a restare chiusi nelle case, è vero? Se non altro non si coprono di purbarata…

    La donna incassava queste battute con un mezzo sorriso e continuava a camminare, ma si sentiva lo stomaco pieno di fiele: non era cosa…!

    Un sabato pomeriggio partì prima un venticello leggero che al massimo poteva spostare i cappelli delle donne e degli uomini, ma non fare altri danni…

- E’ quello schifoso del Limbìci – dicevano in molti.

    Ma in serata le folate aumentarono e la montagna tra giorno e scuro apparve all’improvviso coperta da una folta pinnacchiera di nuvole che minazzavano pioggia:

- Levante !!! – fu il grido che rimbalzò di bocca in bocca, di strada in strada…

- Tu non ti permettere assolutamente di uscire di casa! – intimò Donna Gaetanina al marito.

    A sera tardi ormai le raffiche di vento mulinavano per le strade e sulla piazza e mille occhi con tutte le scuse possibili andavano a dare un’occhiata al passamano del Principino, domandandosi cosa avrebbe fatto il Principino Passamano l’indomani se il vento non fosse calato.

    E il vento di levante non calò affatto, anche perché per la prima volta in assoluto, anziché ricevere il biasimo e gli scongiuri degli Oppidesi, come avveniva di solito, stavolta era come se tutti lo ringraziassero e lo pregassero di continuare la sua opera almeno fino all’indomani e si sentisse quasi in dovere di dare il meglio di sé. Soffiò in crescendo per tutta la notte scoperchiando anche qualche casa, e all’alba con un cielo livido che minazzava pioggia da un momento all’altro, si produceva ancora in mille capriole, mulinelli, stoccate fortissime che piegavano le cime degli alberi quasi fino a terra.

    Alle sette e mezza di domenica la piazza appariva ormai piena di gente assiepata a distanza da una parte e dall’altra del passamano del Principino e tutti, anche se non parlavano, aspettavano di vedere da un momento all’altro il Principino Passamano in atto di collaudare il lunghissimo bastone di ferro che sfidava superbamente il vento…

    Ma Don Saruzzo non appariva…

Apparve invece all’improvviso dall’angolo della piazza con incedere orgoglioso, che sfidava imponente ed altèro la forza del vento, Donna Gaetanina, che più che mai in quel momento avrebbe potuto benissimo essere chiamata Donna Gaetanona. Incurante di tutto e di tutti , la donna a testa alta tagliò di sguincio la piazza e si avvicinò solenne e superba al monumento di Rocco De’ Zerbi , poi si accostò all’estremità del passamano , lo afferrò tenacemente con entrambe la mani e rossissima in viso cominciò a tirare fin quando non lo divelse quasi per i primi due metri, poi afferrò la sbarra divelta e piegata e andò a buttarla pesantemente sotto il balcone del municipio. Quindi tornò verso il moncone del passamano , che afferrò con tutte le sue forze fin quando lo divelse per un altro tratto… all’improvviso si levò da tutta la piazza un applauso fortissimo che nemmeno le folate di vento riuscirono a coprire, mentre tutta la gente, uomini e donne, Bianchi e Rossi, accorreva verso il passamano per collaborare all’opera di demolizione iniziata da Donna Gaetanina. In pochi minuti tutto il manufatto fu completamente distrutto insieme ai piantoni che lo sorreggevano e tutti i contorti relitti in ferro furono allegramente trascinati e ammucchiati sotto il municipio.

    E mentre Donna Gaetanina, altèra e silenziosa, tagliava ancora una volta di sguincio la piazza per fare ritorno a casa, alla gente, che applaudiva fino a spellarsi le mani, sembrò davvero di vedere camminare una regina in persona che col suo coraggio aveva restituito a tutti la loro bellissima piazza.

lunedì 13 gennaio 2025

LOLA, MASCAGNI E DE ZERBI (di Rocco Liberti)

     Stavolta il “racconto” di Rocco Liberti (perché proprio di un racconto storico si tratta) si presenta da sé e riesce a stupirci ancora una volta attraverso lo scavo infaticabile tra le sue  mille ricerche  e pubblicazioni  attraverso le quali, in un’originale rivisitazione, riemerge una storia che nessuno immaginava. E’ la vicenda, apparentemente casuale, attraverso cui un’intuizione dell’oppidese Giacomo De Zerbi prende corpo nientemeno che attraverso l’arte di Pietro Mascagni, dando vita a un’aria lirica celeberrima, che è  quasi l’icona della passionalità e del Sud e che  giunge agli onori dell’attenzione persino del “Corriere della Sera’. Un’altra pagina briosa e documentatissima, fresca e irrinunciabile come sempre di Rocco Liberti che non si finirà mai di ringraziare. (Bruno Demasi)

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                   Lola è il noto personaggio dell’opera “Cavalleria rusticana” di Mascagni e va bene! E Giacomo De Zerbi che c’entra? C’entra anche se per un curioso caso del destino. Si deve infatti casualmente a lui se lo stracantato brano in relazione si è ritrovato nel preludio della stessa. Rocco De Zerbi, nato a Reggio ma di famiglia oppidese, alquanto noto per lo scandalo della Banca Romana, cui Giacomo era fratello, aveva ottimi rapporti col musicista livornese e per un buon tratto quest’ultimo aveva espresso le musiche per una di lui opera, musiche travasate alla fine nel ”Nerone”. Vari anni fa, nel 2011, avendo soltanto qualche semplice appiglio, così affermavo su “Calabria Sconosciuta” (a. XXXIV, nn. 129-130, p. 50) nell’articolo “Il testo di “Siciliana” nella Cavalleria Rusticana è di Giacomo De Zerbi):

    “Scrive Guido Salvetti che solo un brano di carattere non fu proposto dal librettista: è la famosa Siciliana che appare a sipario chiuso – all’interno del Preludio iniziale (O Lola ch’ai di latti la cammisa) e che il Mascagni, entusiasta di una poesia dialettale ascoltata da un tale De Zerbi di passaggio da Cerignola, compose successivamente alla consegna dell’opera alla commissione del Concorso Sonzogno e che fece conoscere in sede di esecuzione al pianoforte”. Così come proposto dal Salvetti, sembrerebbe che nel caso si sia trattato di un incontro del tutto occasionale tra il de Zerbi e il compositore, ma probabilmente tra il maestro di banda pervenuto nel 1887 a Cerignola con la compagnia di operette Maresca ed ivi rimasto fino al 1895 e componenti della famiglia dell’avvocato Domenico Zerbi dovevano intercorrere già da tempo rapporti amicali. Non mi pare proprio che il giovane de Zerbi si qualificasse un menestrello che se ne andava in giro per i paesi a sfoggiare le sue canzoni! Probabilmente, avendo appreso che il Mascagni a estrarre un’opera lirica dal lavoro di Verga, si sarà immedesimato, lui calabrese di origine e quindi molto vicino alla Sicilia, nella tragica parte di Turiddu e ne avrà cavato con pronta ispirazione quanto poi avrà fatto leggere al suo amico. Almeno, questo è quanto mi sento di azzardare in assenza di documenti”.

    In verità, anche se in merito a Lola c’entra il De Zerbi, si tratta di un episodio del tutto casuale. A narrare la vicenda nei suoi minimi particolari è stato nel 1945 lo stesso musicista nel volume “Mascagni parla” stampato a cura dell’editore Salvatore De Carlo (Milano-Roma), che ha raccolto, come dice, ciò ch’è stato stenografato. Ecco quanto lo stesso ha trascritto sul “Corriere della Sera”[i], dove l’opera nel 1946 è data in prossima uscita, in un articolo fattomi conoscere da quel segugio di lavori che interessano soprattutto Oppido che è l’amico Nino Greco, scrittore, che ringrazio vivamente:

“…Rocco de Zerbi, che era un grand’uomo politico e un eccellente giornalista, aveva un fratello. Questi era uno sbarazzino, giocava e spendeva molti soldi al buon Rocco, che invece non aveva tanta volontà di spendere come suo fratello. Un giorno Rocco de Zerbi si seccò e venne a Cerignola per parlare con Beppe Pavoncelli, che era il più grande agricoltore di tutta l’Europa, tanto grande che il governo italiano lo volle nominare ministro. (Lo nominò ministro dei lavori pubblici sebbene non avesse costruito neppure una capanna).
  De Zerbi, d’accordo con Pavoncelli, per levarsi di torno il fratello, che era sempre nei suoi uffici per bussare a quattrini, lo mandò dunque a Cerignola, Pavoncelli gli disse: “Te lo prendo con tutto il piacere: Giacomino è tanto un bravo figliuolo…”. Era un omino piccino, elegante. 
 

  Così venne a Cerignola, al nostro circolo cittadino, questo giovanotto, che diventò subito amico mio. La sera mi accompagnava e io accompagnavo lui, poi lui mi accompagnava me … era sempre così. Una volta mi disse: “ho scritto anche dei libri di poesia; domani te ne porto un paio”. Difatti l’indomani me ne portò due. In uno di questi lessi dei versi in dialetto siciliano che dicevano: “Brunetta c’hai di latti la cammisa, sì bianca e russa come una cerasa…”.
   Santo Dio! – dissi – Che bella cosa poter musicare questa roba! Ci levo “Brunetta”, accomodo il verso così “O Lola ch’ai di latti la cammisa…” e ci faccio la canzone del tenore da mettere nel preludio dell’opera!” allora dico a Giacomino: ”Sai, quel tuo libretto mi ha fatto molto piacere; ci ho trovato dei versi che mi sono piaciuti tanto che li ho musicati lì per lì”. “Fammeli sentire; andiamo al circolo e fammeli sentire”. Ci chiudiamo nella stanza e gli faccio sentire la canzone. “Però mi devi dare il tuo permesso, se no non la posso mandare al concorso”. Ti pare? Del resto non è mia; è una cosa popolare… E dove la metti”. Volevo metterla in un preludio sinfonico…”.

   Mascagni appare titubante per il fatto che ad azzardare d’inserire qualcosa di cantato in un preludio sono stati i grandi Rossini e Meyerbeer, ma alla fine il fatto è compiuto. Questa l’ammissione in proposito da parte del musicista:

  “Ecco, dunque chi ha veramente creato quella canzone: il buon Giacomino de Zerbi. Nessuno l’ha mai saputo; Giacomino non ha mai avuto nessun omaggio, nessun onore, ma è proprio lui che m’ha ispirato quella canzone che migliaia di ascoltatori hanno applaudita”.

   L’articolo in questione prosegue con le paure del Mascagni di presentare l’opera, che stimava inferiore al “Guglielmo Ratcliff”, al concorso e lo scambio di missive con Puccini, che da parte sua lamentava il fiasco riscontrato con “Le Villi”. Il compositore livornese aveva in previsione di musicare un lavoro di Rocco de Zerbi, “Vistilia”, ma, come detto, non se n’è poi fatto nulla. Lo rivela una sua lettera premessa al volume a mo’ di prefazione da parte del figlio dell’autore.

   Che ci faceva il livornese Mascagni a Cerignola? Di passaggio nel 1886 con la Compagnia Maresca, di cui era direttore, è stato convinto dal sindaco Giuseppe Cannone a stabilirvisi a fine di dirigere la neonata Filarmonica. Vi è rimasto, come detto fino al 1895 e in tal periodo ha firmato ben 5 opere, tra le quali le più importanti appunto “Cavalleria Rusticana” e “L’Amico Fritz”[ii].

   Giacomo de Zerbi, figlio di Domenico e d. Maria Rosa Cotronei e, quindi, fratello al più noto Rocco, è nato il 13 luglio 1861 a Napoli, città nella quale il padre si era trasferito dopo che a Reggio nel 1847 era stato coinvolto nei noti moti popolari. Oltre a collaborare a vari giornali sia italiani che italo argentini, ha pubblicato delle novelle nel 1887 con C. Triverio di Torino col titolo di “Vita vissuta”: Queste le brevi frasi a firma F. G. non proprio benevole apparse nello stesso anno sulla “Rassegna Pugliese di scienze, lettere ed arti” edita a Trani (vol. IV, n.3 , p.47): “… in fondo in fondo di questa Vita vissuta non si può dir malaccio. C’è forse, è vero un po’ di convenzionalismo, si potrebbe desiderare una freschezza maggiore, un’originalità più spiccata, più potente. Ma già noi altri critici siamo un pochino sofistici e incontentabili, poi, oh! Incontentabili soprattutto”.

   In “Il Teatro illustrato” dell’anno 1909 (a. V, nn. 15-16, pp. 5-6) appare un suo articolo dal titolo “Una lacuna del teatro lirico-Il “regisseur”. Lamentando la necessità della presenza di un regista nei teatri lirici italiani, così concludeva il suo dire: “Egli è il principale cooperatore del direttore d’orchestra, ne costituisce il miglior complemento e fa economizzare un tempo prezioso, riuscendo ad un complesso veramente artistico:/Quando avremo qualche cosa di simile in Italia?”.

   In Argentina, dove ha soggiornato per un certo tempo, il de Zerbi ha fatto parte della redazione de “La Patria degli Italiani” e ha collaborato a “L’Italia al Plata”. Ha anche fondato e diretto “El mundo del Arte” e altri periodici[iii]. Interessanti notizie sul de Zerbi argentino si ritrovano peraltro nel “Dizionario Biografico degli Italiani al Plata”: “Scrittore facile e persuasivo, Giacomo de Zerbi è collaboratore di parecchi giornali letterari e quotidiani, ed il suo nome è legato alla splendida rivista critico-teatrale El mundo del Arte dove l’arguto e fecondo pubblicista trasfuse per tanti anni tesori di osservazioni e dotte polemiche, si da meritare un posto d’onore fra i pochi coscienziosi che d’arte teatrale trattarono con sicura coscienza di causa. Già redattore Capo della Patria degli Italiani importante giornale coloniale lo fu pure dell’Italia al Plata per parecchio tempo, cioè quando il Gobbi Beleredi ne reggeva le sorti./E’ Direttore della rivista Revista Teatral edita da Antonio Baldassini./Giacomo De Zerbi ha saputo infondere in questa pubblicazione un soffio di vita nuova”[iv]. Qualche altra nota. Nel 1882 risulta avere svolto in Italia il servizio militare quale Tenente di fanteria[v].

                                                                                                                               Rocco Liberti
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1 Se ne tratta anche in Rassegna musicale Curci, a. 1970, vol. 23-24, p. 17.
2 Città di Cerignola, Savino Romagnuolo, Il livornese di Cavalleria Pietro Mascagni. 
3 Agostino De Biasi, Il Carroccio, vol. 6, 1917; Pantaleone Sergi, Patria di carta, Pellegrini, Cosenza 2012, n. 48.  
4 Dizionario Biografico degli Italiani al Plata, Buenos Aires 1899, ff. 119-120.
5 Annuario militare del Regno d’Italia, Carlo Voghera, Roma 1884, p. 118.

mercoledì 8 gennaio 2025

LA SCOMMESSA DEL DIALETTO COLTO: “I SEPOLCRI” NEL VERSO CALABRO DI CICCIO EPIFANIO (di Ciccio Epifanio )

     Quale valore assume oggi la trasposizione dialettale di una grande opera letteraria italiana in dialetto calabro? Non più quello che fino ad alcuni decenni fa, quando l’alfabetizzazione era ancora molto precaria, consisteva in una meritoria opera di facilitazione anche a chi era digiuno di lingua italiana o di conoscenze letterarie, della conoscenza dei grandi della nostra letteratura nazionale. Si ricordi in proposito forse la più monumentale e conosciuta traduzione in dialetto calabro della Divina Commedia eseguita da don Giuseppe Blasi, il sacerdote di Laureana di Borrello che ha legato il suo nome per sempre a questa impresa. E’ evidente che oggi tale valore consiste nella testimonianza di un’epoca e della sua sofferta carenza di alfabetizzazione letteraria per tutti.

    Vi è oggi però un altro valore, forse meno pretenzioso sul piano sociale, ma molto più ricco a livello culturale, che rende la traduzione di un capolavoro letterario nel nostro dialetto un’operazione altamente significativa sul piano glottologico, semantico e antropologico, e in questo Ciccio Epifanio è un maestro consolidato ormai da decenni con la sua ricerca linguistica e musicale “ sul campo”: dimostrare che il verso della lingua calabra è in grado non solo di percorrere i sentieri scontati della letteratura popolare, ma anche di riproporre in una veste del tutto inedita e altamente suggestiva le opere più alte dell’ingegno letterario italiano senza confini di epoca, di metrica, di poetica.

    E’ il caso della riedizione del carme “Dei Sepolcri” di Ugo Foscolo in lingua calabra , un capolavoro nel capolavoro che Ciccio Epifanio ci propone come sua nuova fatica di scavo letterario e linguistico senza eguali. Un carme “difficile” in endecasillabi sciolti, composto nel 1806 e pubblicato nell’anno successivo, nato presumibilmente in seguito a una discussione del Poeta con Ippolito Pindemonte ( cui il carme è dedicato) sulle disposizioni contenute nell’Editto di Saint Cloud, esteso in Italia proprio quell’anno, con cui Napoleone Bonaparte regolamentava le nuove pratiche sepolcrali. Ed è tanto più meritoria questa trasposizione dialettale quanto più questo carme rappresenta la transizione del Foscolo da posizioni letterarie stucchevolmente neoclassiche a posizioni preromantiche mediante cui vuole restituire valore al monumento funebre e contesta duramente l’editto napoleonico che pretende di livellare al massimo tutte le sepolture, da realizzare fuori dai contesti urbani.

    Pur nel preciso rispetto di tutta l’economia metrica e sintattica del Carme, l’Autore, per dare compiutezza e discorsività alla traduzione dialettale, sposta le tradizionali sequenze di analisi dell’opera riuscendo però a mantenerne intatta non solo la struttura generale, ma anche  l’ efficacia discorsiva ed evocativa.

  La prima parte si apre con due domande retoriche riguardanti entrambe l’utilità di una tomba, che svolge il ruolo simbolico di monumento agli affetti in virtù del quale essa assume un significato enorme per la corrispondenza tra vivi e morti: presso il luogo in cui riposano i resti del defunto i vivi trovano conforto, ma soprattutto rinnovano la memoria. E’ questo il passaggio  forse più complesso dal punto di vista filosofico oltre che poetico, ma Ciccio Epifanio riesce a renderlo con estremo rigore analitico mediante l’uso di un lessico attentamente fedele alla tradizione linguistica calabra e con l’aggiunta, solo dove necessario, di lessemi di nuovo conio che rimandano all’etimologia più antica del nostro dialetto.

   La seconda parte contiene un’analisi esaustiva di tutte le principali concezioni della morte stratificate nel corso del tempo e nelle varie civiltà. Contestualmente viene analizzato anche il modello di sepoltura, a partire da quello arcaico, per giungere a quello classico , senza trascurare quello cattolico. Particolarmente incisive le annotazioni di Ciccio Epifanio in scoppiettante lingua calabra riguardanti tutte le superstizioni e i rimandi all’arte medievale: ne emerge superba la visione complessiva della tomba quale elemento fondamentale per la crescita e lo sviluppo della civiltà.

    La terza parte, probabilmente la più commovente in questo complesso e mirabile lavoro di editing nella lingua calabra, è quella che riflette mediante il ricordo delle sepolture di grandi personaggi della storia sul valore civile e pubblico della sepoltura, sul linguaggio irrinunciabile della tomba che trasmette esempi ed ideali irrinunciabili ai vivi.

   La quarta parte , più che mai in questa trasposizione dialettale, si sofferma attentamente sul valore etico della morte, che rende tutti uguali. Qui affiora chiaro e indelebile il concetto di poesia eternatrice che è l’unica fiorza che sopravvive all’usura del tempo e persino alla morte stessa. Il Foscolo e l’Autore di questa trasposizione dialettale si appellano alle muse chiedendo che la poesia, anche quella che rinasce nel verso dialettale, proprio come una tomba restaurata , preservi in eterno dall’oblìo il ricordo delle persone. E se le convinzioni materialistiche sono ricorrenti nell’opera del Foscolo, a maggior ragione esse appaiono chiarissime nella rielaborazione lirica di Ciccio Epifanio che si addentra senza timore in quella “ dottrina delle illusioni” che vivifica col sentimento quanto viene negato dalla logica: l’illusione che traccia un collegamento sempre nuovo tra vivi e defunti, una corrispondenza d’amorosi sensi.

    Sono tanti i punti di connessione tra la grande costruzione lirica di Foscolo e questa trasposizione letteraria ricchissima di pathos alimentata dal verso di Ciccio Epifanio con i suoi riscontri personali e musicali concisi, energici e vibranti.  Persino nella grafia personalissima adoperata dall’Autore per esprimere suoni esistenti soltanto nel dialetto calabro  si trova una originale motivazione lirica e poetica . E se il Foscolo in questo carme si interroga sul ruolo della poesia, lo stesso interrogativo, riguardante il valore della nostra lingua dialettale permea quest’opera singolare che alla lingua dei padri aggiunge un altro mirabile monumento. (Bruno Demasi)
 

I SEPURCHI

Sagri e santi pe’ sempi mu siti
O cumandamenti dill’antichi!
(Dalla  Leggi di' XII Tavuli)



I PARTE

All'umbra di'cipressi a llocu scuru
di amurusu chjantu cunortati
è forzi di la morti menu duru
lu longu sonnu dill’eternitati?
Quandu lu suli cchjù pe’mmia no’ luci
e mmancu nterra cchjù viju nzumari
li erbi, li nimali e ll’atri nduci
e ogni cosa vaci a riggettari.
E scarzi di promisi jend’avanti
li uri cchjù no’ zzumpanu pemmia
e a li me’ ricchji non è cchjù ntinnanti
di lu to’ verzu o amicu l’armunia
e nda lu cori cchjù no’ mi lusinga
l’amuri e di li Musi lu cantari
unica nzing’a sta vita raminga
na pethra mu distingui e ‘u teni cari,
chist’ossa, dill’athr’ossa chi pe’ mmari
e nterra morti va spargendu pari.
E’ veritati o Pindemonte caru
ca la speranza è ll’urtim’ammoriri
e ndhrupa tuttu l’oblìu paru paru
chi n’operusa forza fa’ moviri,
e ll’omu li reliqui’e ogn’atra cosa
lu tempu va’ cangiandu senz’abbentu,
alleggiu alleggiu senza mai mu posa
cu lu so’ fari eternu a passu lentu.
Ma pecchì prim’ancora pemmu mori
l’omu s’havi a privar’ill’ ilusioni
ca cu lu teni caru nda lu cori
poti fari cu iju discusioni?
Non vivi puru quand’è suttaterra
undi d’u jornu manca l’armunia
se cu li modi soi faci ‘u nci sperra
nda menti lu ricordu a’ so’ jenia ?
lu celu nci ndotau sta rispundenza
di amurusi senzi all’umani,
cusì cu mori dopu la spartenza
cumunica cu nnui chi stamu ccani.
Se chija terra chi lu ricogghjiu
quand’era picciriju e ncezzi pani
l’ossa nci guarda comu voli Ddiu
d’u malu tempu e dd’i li pedi sthrani:
e petra di lu ndhrillu lavurata
lu nomi mu nci sarba cu la data,
e odurusa unda profumata
dill’ossa u nci cunzul’a purbarata.
Sulu cu nuju affettu di jenia
dassa dill’urna poca gioja senti,
e sse smircia quan’esti di javia
vidi l’anima sua fujiri ardenti
pemmu s’accuccia sutt’a li grand’ali
di lu perdunu di Ddiu rifuggiu certu,
ma li so’ossa dassa tali e quali
sutt’a li ‘rdichi di margiu disertu
undi no’ donna preg’a lu so’ amatu
e nno’ passanti mu ghjica si cura
mu senti di li tumuli u rihjatu
chi di la terr’annui manda natura.
Eppuru nova leggi oji ndi ‘mponi 

i sepurchi fora d’i sguardi pietusi:
Sutt’a na pethra senza manc’u nomi
stannu li nosthri morti ora chjusi.
E senza tomba lu to’ sacerdoti
ngiaci ora Talia, chi attia cantandu
ndall’orticeju soi cu garbu e doti
crisciu n’afraru e tu jivi volandu
e nci nducivi di surris’u cantu
chi u lombardu pungia Sardanapalu
chi nci piaci sulu: e si fa vantu, 

lu ngusciu di li voi ligati o’ palu.
Chi di li ngoni padani e d’u Ticinu
puthrùni u fannu e di mangiari chjnu.
O bella Musa pecchì non veni cchjù
non sentu dill’ambrosia lu spiru
signu palisi quandu veni tu
sutt’a sti chjanti undi jeu suspiru
lu tettu meu maternu e tu ‘rridendu
venivi a ju sutt’a chiju lecciu
chi ora li so’ frundi va sphrundendu
80 pecchì no’ cuppa l’urna di lu vecchju
comu quandu friscura nci spandia
e d’umbra lu scialava e carmaria
forzi tu inthr’a ncuna sepurtura
cerchi l’amatu capu di Parini?
A iju nuja umbra di friscura
nci riserbau nda li soi giardini
la città liscirdi e allattatura
di vuci di scugghjati canterini
No’ pethra, no’ parola e forzi l’ossa
nci nzangulija cu la testa muzza
lu lathru chi jainthr’a cchija fossa
cu li peccati soi mò lu sumbuzza.
Gratt’ammenza li sthraci la luntruna
affàmicata cani ramingandu
e di lu teschj’undi fuju la luna
nesci la mala pigula volandu.
E cu lu bruttu picciu accusaturi
alija supr’e cruci chi li stiji
lusthrunu a li sperduti sepurturi,
spasi pe’ la campagn’ammij’a miji
mbatul’a lu poeta lu sprenduri
di lu sirinu o dea nci luci o latu
ahi supr’e morti mai surgi nu hjuri
se no’ d’umanu chjantu è onuratu.


II PARTE

Di quandu nozzi, tribunali e artari
nci dèzzuru all’omani lu signu
mu su’ pietusi d’iji e d’i so’pari,
cacciàru i vivi a lu hjatu malignu
e a li feroci bestiji li resti
chi la natura cu la so’ rrovìna
si prica novu aspettu mu nci’allèsti
e ad’athri senzi poi mu li distina
'mbrema di grolia e p’e li figghj’artàri
eranu l’urni di cunsagraziuni
e fu temenza li ‘ntìchi giurari
e la pathria virtù fu religiuni .
No’ sempri d’i sepurch’i pethri scuri
inthr’a li chjesi furu pavimentu
e nnò d’i morti li ‘ncenzati oduri
dezzuru e’ suppricanti nocumentu.
E mmancu di li schelithri pittàti
furu di li città quathri li mura :
Li mammi cu li vrazz’annudicati
sgrugghjunu di lu lettu cu’ paura
mu mbrazzanu li nipijeji amati
schjantati di lu thrigulusu ngusciu
chi ll’animi d’i loru thrapassati
nci llananu cu’ grandi scatafasciu
cercandu all’eredi l’orazioni,
l’indurgenzi, li missi e lu rosariu,
requam eterna e benidizioni
a pagamentu di lu santuariu.
Ma cipressi e cethri l’aria mpregnandu
di mbarzamu odurusu di natura
pe’ sempri virdi jivan’umbriandu
supr’allurni a mimoria futura
E vasi di cristallu preziusi
cogghjivanu li lagrimi amurusi.
Rrobbavanu l’amici a lu suli
na spisia, la sutterrania notti
mu ‘llumina, ca l’occhj’ill’omu lu suli
vannu cercandu quand’arriv’a morti
e l’urtimu rihjatu manda u pettu
a chija luci di spujenti’aspettu
Li funtani scurrendu a schjoppu nettu
d’amaranti facìanu mu riluci
la rasula e a lu surcu bell’aspettu
nci davanu li violi e cchjù duci.
E cu jiva mu nci cunta li patuti
a li defunti e ill’anima lu pisu
nu hjarbu comu di prati hjuruti
sentiva comu se di paradisu.



III PARTE

Pietusu ngannu chi fa’cari l’orti
di campusanti a li vergini ‘ngrisi
undi li mbija l’amuri ch’è fforti
pe’ la perduta mathri a ju paisi:
Undi pregaru li Geni mu ndavi
la paci a lu riturn’u valorusu
chi thrunca fici la thriunphata navi
di lu gran pinu e si scava‘u tambutu.
Ma undi manca lu ngrisi fururi
e mministhri o’ viviri civili
sedunu la ‘mpullenza e lu thremuri;
pompusi munumenti a nnovu stili
si jizunu alla morti; vanu sprenduri.
Già lu dottu, lu rriccu e lu currìvu
onuri e vantu a lu talianu regnu
inthr’a li regi è sutterratu vivu

e ppe’ llodi nu stemma unicu ‘ngegnu.

Annui la morti riposata paci
mu nd’una ell’amicizia mu ricogghji
no’ di thrisori eredità mu vaci
ma caddi senzi e di lu carmi mu cogghji
esempiu di civili poisia
e liberali cantu d’armunia
Sci! Beni meu, l’anima si ‘ncanta
cu’ avanti all’urni di li forti aspetta
e bella fannu o’ pellegrinu e santa
la terra ch’inthr’adija li riggetta.
Jeu quandu l’urna mi trovai davanti
chi stipa l’ossa di ju grandi ‘ngegnu,
chi sphrundendu lu suverchju a lu regnanti
nci mmosthra, pemmu si rreji lu regnu,
quantu di sangu custa lagrimari.
E ‘llarca di cu’ a Rrom’a li Celesti
novu olimpu nci jizau, e ll’artari
di chiju chi nda la cunca cilesti
cchjù di nu mundu vitti rotijari
‘ntornu a lu suli fermu ‘lluminatu,
chi a lu ‘ngrisi nci fici capacitari
la leggi chi guverna lu stijatu
Mbijata tia gridai pell’aria duci
china di vita e pell’acqui dorati
chi appenninu scurri e ti cunduci
pe’ lu ristoru di li to’ vajati.
Toca dill’aria tua vesti la luna
di sthralucenti luci li cunthrati
e li cumbicinati a un’a una
di vigni e di livari arriminati
milli di hjuri ‘ncelu izanu hjati.
E tu Firenze lu carmi divinu
mprima sentisti chi a’ lu gran poeta
nci rallegrau l’ira e lu caminu
e lu so’spertiajari senza meta.
E tu lu dioma nciasti e la jenia
a chiju duci di Calliope labbru
chi amuri ‘nGrecia nudu e a Rroma jia
cantandu e nu velu cu lu garbu
a Veneri Celesti nci stendia
Ma cchjù bijata ca tu sarbi e stimi
li groliusi spogghji l’unichi forzi
di quandu di li toi spundati cimi,
li gran potenzi senza fari sporzi
scantunandu sustanzi e artari
e pathria ti nzurtavanu pari pari
Ca se brama nci mpiccica di grolia
all’animusi menti e nci fa meritu
mu cangianu lu corsu di la storia
prestu speriamu mu vidimu l’esitu.
E cca venia Vittoriu mu s’ispira:
Cunthr’a li pathrij numi assai sthrubbatu  

sulagnu si mentia mu gira
pe’ undi l’Arnu è cchjù assulicatu.
E videndu ca nenti nci nducia
la vista e nnuja cosa nciava cura
cca si fermava e a lu visu havia
na nzinga di speranza e di paura
Mo’ cu’ sti grandi eternu stànzia
e ll’ossa pathria bramanu pathria.
Ma di ja sagra e religiusa ngona
nu Numi parla e grolia suspira
pe’ li martiri Greci a Maratona.
Chi cunthr’a Persi nci mmosthraru l’ira.
E Atene a mimoria ‘mperitura
li tombi nci sagrau pemmu l’onura.


IV PARTE

Lu navicanti chi sutta l’Eubia
velijava nda lu scuru li scintilli
e lampijari d’armi iju vidia
n’agghjentu di guerreri cchjù di milli,
Chi cumu li nimali a lu macellu
li carni cu li spati si squartavanu,
e facivanu di morti nu fracellu
e falò di corpi chi brusciavanu
e mmandhri di cavaji scapulanti
sup’a li testi di fanti morenti
e chjantu e inni all’aria risonanti
e di li Parchi lu cantu strhuggenti.
Filici tia Politu chi a lu ventu
li virdi anni toi jivi volandu
e se u pilota cu grandi talentu
la vila pe’ l’Egeo ti jiu jizandu
d’antichi fatti sentisti cuntari
dill’Ellespontu li sciarri veraci
e la risacc’a li Retee portari
l’armi d’Achilli ndall’ossa d’Ajaci.
A generusi groliusu onuri
sempri la morti nci sapi stipari
no’ sennu furbu e nno di rre favuri
a Ulisse l’armi ficiaru sarbari
ca lu ramingu si li vitti levari
dill’unda smossa di li dei mpernali.
E ammia chi tempi e chi disiju d’onuri
mi ficiru p’e lu mundu spertijari
ammia mu cantu dill’eroi l’arduri
mu chjamanu li Musi bell’e cari
maisthri dill’umanu ragiunari
seduti a guardia d’i sepurchi cari
E quand’u tempu cu li friddi ali
pur’i rrovini vaci a scancellari
li Pimplee di cantu celestiali
puru i diserti fannu risonari.
E puru lu silenziu a chija via
si faci cantu di grand’armunia.
E oji nda la Throidi ‘bbandunata
eternu sprendi a cu passa nu locu:
E’ di la Ninfa a Giove maritata
chi a Giove lu scialau assai e no’ pocu.
E di lu scialu Dàrdanu fu figghju
chi a Throja nci dezzi la jenia
e di ja la genti giulia e lu prestiggiu
chi a li romani nci spianau la via
Ma quandu Eletthra poi ntisi la Parca
chi dill’elisi la chjamava a coru
dicendu ch’era ura mu si ‘mbarca
a Giove nci mandau l’urtimu accoru.
E amurusu chjantu nci facia
e premurusa accussì dicia:
E se ti furu cari chjoma e visu
e ti scialaru li carizzi duci
e la sorta pe’ mmia non ha surrisu
a la morta amica dunanci la luci
ammenu d’ija mu resta lu scrusciu
e lu ricordu a mimoria futura.
Cusì moriva e l’amurusu ngusciu
sentia l’Olimpiu e ciangia sbentura
e cu lu capu eternu già pegatu
chjoviv’ambrosia sup’a la so’ amata
e tomba e locu fici cunsagratu,
e ncezzi eterna fama e nominata.
E ja la tomba Erittonio annoma
e li giusti e sagri cinniri di Ilu
ja l’Iliachi fimmani la chjoma
sciogghjivanu facendu grand’appilu
‘mprecandu aih di mariti lu virdettu
chi amaru e ngratu nci stipau lu fatu.
E ja Cassandhra cu lu numi mpettu
vinni e cantau lu carmi disperatu
chi predicia di Troja la rrovina
e amurusu cuntu jia facendu
e giuvaneji cu vuci ciangiulina
e lamentusa jiva suspirandu:
Ah se mmai d’Argo aundi di li Greci
garzuni li cavaji nci badati
li Dei vi ‘saudiscinu li preci
pemmu a la pathria vosthra mu tornati
sulu fumanti sthraci vui viditi
d’i mura chi di Febu furu izati
Ma nda sti tombi eterna rinomanza
ndannu e grandi di Throja li Penati
ca di li Numi è donu e facurtanza
puru’a rrovina mu su’ nominati
E vvui parmi e cipressi cca chjantati
di li nori di Priamu crisciti
di veduvili chjantu abbiverati,
la mimoria di li pathri proteggiti
e cu divotu e chinu di rispettu
li frundi’avvui si priva mu vi tagghja
menu di lutti si jinchi lu pettu
e santitati all’artari ngagghja.
La mimoria di li pathri proteggiti
nu jiornu ammenza di st’antichi rrami
nu vecchju orbu erranti vui viditi
e scaliandu ntornu cu li mani
mbrazzari l’urni ell’urni nterrogari,
e di li nnicchji lamentusu ngusciu
nesci e a lu vecchju si menti a cuntari
di Throja la città chi pe’ lu scrusciu
tuttu lu mundu fici sbarrugari,
ddu’ voti rasa e ddu’ voti jizata
pemmu li Greci si ponnu vantari
la thriumphali urtima bravata
Lu sagru vati j’animi pricandu
cu lu cantu eterna grolia nci duna
a li principi Greci e pe’ quantu
terra lu pathri oceanu scantuna
E tu di chjantu mu si assai onuratu
Ettori aundi lagrimatu e Santu
è lu sangu pe’ la pathria verzatu
e lu to’ nomi pemmu è sagru vantu
nzin’ a quandu l’urtimu domani
sprendi lu suli sup’e sciaguri umani

  Ciccio Epifanio