di Natalino Russo
Il quindici dicembre intascai la tredicesima e dopo pranzo, rinunciando alla solita passeggiata in compagnia dei colleghi, comprai La Notte, un giornale del pomeriggio di Milano, e , dopo avere ordinato un caffè, mi sedetti al tavolino di una bar per leggervi le ultime notizie. La mia attenzione fu catturata da una rubrica, intitolata “Chi ha dà a chi non ha” nella quale apparivano gli appelli di chi chiedeva qualche aiuto per Natale. All’inizio della rubrica veniva spiegato che il lettore interessato a soddisfare qualche richiesta avrebbe dovuto chiamare il giornale e indicare il numero di riferimento della richiesta stessa, dopodiché gli sarebbe stato comunicato il nominativo e l’indirizzo dell’inserzionista bisognoso. Il mio sguardo cadde su un annuncio che recitava così : ”Anziana, triste, sola e in miseria, per questo che potrebbe essere l’ultimo suo Natale terreno, chiede in regalo una piccola stufa, le cui serpentine, accendendosi, come luminarie natalizie, possano darle un po’ di luce e di calore” Codice richiesta 451968.
Oltre alla poetica bellezza della frase, anche il numero di codice che, frazionato in 4.5.1968 , corrispondeva alla data di morte di mio fratello Giacomo, contribuì a farmi scegliere proprio quell’appello per compiere la mia piccola opera di bene, per cui chiamai il giornale ed ebbi le informazioni necessarie. L’indomani nel piccolo mini market sotto casa feci riempire due scatoloni con generi di prima necessità e nel negozio di elettrodomestici situato all’angolo della via comprai una piccola stufa a 4 serpentine. Chiamai un taxi ( allora non avevo ancora la patente e, tantomeno, l’automobile) e mi feci portare in via Farini.
Entrai in un caseggiato enorme, una casa di ringhiera. In portineria chiesi della Signora Savina Brambilla e due minuti dopo varcai l’uscio di in un monolocale al primo piano: fosse stato a piano terra avrebbe meritato il titolo di “basso” tanto era squallido e disadorno, le pareti erano umide e scrostate e i numerosi santini che vi erano stati affissi attenuavano appena appena la sensazione di trovarsi in un tugurio.
Lì mi accolse, con un dolcissimo sorriso, una vecchietta accasciata, più che seduta, su una poltrona con una piccola coperta a quadri rossoneri ( bellissimi colori) a coprirle le gambe. Le dissi che ero là per il suo appello su La Notte e dalla sua risposta appresi come, oltre che sola e triste - così si era autodefinita nell’annuncio - era pure paralizzata. “Questo è per lei , dissi, dopo avere deposto su un piccolo tavolo i due scatoloni- e anche questa, aggiunsi, porgendole una busta” dopo di che mi chinai per darle un bacio, accompagnato da un “Buon Natale”. Quindi, mi apprestai a uscire. Non volevo umiliare quella donna facendole pesare quel gesto di carità…
“Aspetti, signore, non vada via , mi disse. Aspetti, mi tenga un po’ di compagnia“ . Mi piacque sentirmi dare del signore. “Per favore, metta sul tavolo tutto quello che ha portato, deve esserci parecchia roba, non doveva, bastava molto meno”. Insistette e non me la sentii di deluderla. Cinque minuti dopo quel tavolo sembrava lo scaffale stracolmo di un negozio. Mi indicò altri due scatoloni vuoti, riposti in un angolo della stanza, e mi disse: ”Per piacere, tolga il cappotto e si fermi, la prego”. Le sue parole avevano davvero il tono di una preghiera. “Gli scatoloni ora sono quattro – proseguì -riponga in ciascuno di essi, in parti uguali, tutto quel ben di Dio”. Feci quanto richiestomi.
Lei aprì la busta che le avevo dato dentro la quale avevo messo cinque banconote da diecimila lire. Me ne porse quattro e mi disse di metterne uno in ogni scatola. Poi, di colpo, come per magìa, tirò fuori da sotto il plaid che le copriva le gambe, un campanello e lo agitò tre, quattro volte. Dopo pochi secondi apparve sulla porta una ragazzina di dodici, tredici anni. “Ditemi, nonna Savina che c’è? “Vieni dentro, non aver paura, Monica, togli quella manina davanti alla bocca, questo signore è un amico, non ti mangia mica. Prendi quei pacchi, sul tavolo, uno alla volta e portali alla signorina Adalgisa del secondo piano, al signor Di Vito, il vecchietto qui di fronte, il terzo al Parroco in Chiesa ed il quarto a tua mamma. Una volta tanto sono io che posso dare, grazie a questo bel giovanotto, qualcosa a voi tutti. E queste sono per te, cosi ti compri il cappottino che desideravi per Natale”, concluse, porgendole l’ultimo diecimila.
“Per me lascia soltanto la stufetta, anzi la prego - disse rivolgendosi nuovamente a me - la metta in funzione”.
La scartai dalla sua custodia e le serpentine cominciarono a regalarci un pizzico di luce e di calore. La ragazzina , nel frattempo, aveva cominciato il ”trasloco” ma non prima di avere stampato un bacione con lo schiocco sulla guancia di Savina. “E’ la figlia di una signora che svolge le mansioni di custode in realtà la portineria non esiste, mi spiegò, è una famiglia poverissima, che però mi aiuta a sopravvivere, insieme ai miei vicini. La striminzita pensione sociale che ho basta appena per luce e medicine”.
Restai esterrefatto, mi vennero i lucciconi. Pensavo di dare prova di generosità e avevo ricevuto una lezione indimenticabile. Nessuno ama i poveri più degli altri poveri. Una vecchia, poverissima, dava agli altri tutto, ma proprio tutto, quello che aveva ricevuto ed era felice di farlo.
“Grazie per avermi permesso di essere generosa ” disse commossa, commuovendomi. In quella stanza spoglia, con le pareti scrostate ed umide, con una sola minuscola finestrella, odorante di miseria, ma anche di dignità, imparai più che in un’aula universitaria, o in un convegno della Fao: non aveva nulla, ma dal momento che non aveva più desideri e speranze, non le mancava nulla. Tranne, come mi disse in seguito, il fatto di non potere andare da Dio, ma, ne sono certo, Dio andava da lei.
La ragazzina aveva finito il suo andirivieni. La sua mamma venne a ringraziare portando un vassoio con il caffè appena fatto. Quasi contemporaneamente si udirono delle voci, una lontana di donna e una vicina di uomo, entrambe gridarono le stesse parole : “Grazie Savina, sei un Angelo”. Erano la signorina Adalgisa e il Signor Di Vito, due dei beneficiati. Non c’è solidarietà più grande di quella tra poveri. Chiesi permesso per qualche minuto e mi assentai.
Un’ora dopo, circa, aiutato da un operaio, portai in quella stanza una sedia a rotelle.“Questa le servirà per andare in chiesa - le dissi - basterà che i suoi amici le diano una mano per portarla in strada. Un piano non è poi tanto”. Tentò di baciarmi le mani, non glielo permisi, ma mi lasciai abbracciare e la abbracciai. Pianse, piangemmo.
L’unica a sorridere fu la piccola Monica quando le diedi un paio di guanti, rossi per fare pendant col cappottino, che le avevo comprato.“Lei è un grande - mi disse Savina. “Mai quanto lei - le risposi.
In quel momento entrò nella stanza un omone, sulla quarantina, era il papà di Monica, si chiamava Carletto e si rivelò subito un simpaticone.Agile, nonostante i troppi chili che l’amico Lleio, con occhio da intenditore, avrebbe stimato in centosessanta, in quattro e quattr’otto fu in grado di organizzare una cenetta per altrettante persone, della quale, come mi chiese Savina, io avrei dovuto essere l’ospite d’onore, ma non sapevano l’onore che stavano facendo a me, per cui non ebbi alcuna esitazione ad accettare.
Con l’aiuto di Monica, mi incaricai dell’approvvigionamento di bevande e dolci e un paio d’ore dopo ci accomodammo, o meglio ci stringemmo attorno a quel minuscolo tavolo rettangolare al quale Carletto aveva aggiunto un tavolinetto, leggermente più basso. Nonna Savina a un capo del tavolo e all’altro, inevitabilmente Carletto. Sua moglie, la signora Tita e il signor Di Vito da un lato e a quello opposto io, in mezzo la piccola Monica destinata in un primo momento a sedersi accanto alla sua mamma, ma che espresse il desiderio di stare vicino a me e venne accontentata, e più in là la signora Adalgisa una simpatica signora alta e magra sulla settantina, che fu contenta di trovare in me un nuovo e attento ascoltatore della sua storia, che prese a raccontarci agli antipasti finendo al dolce.
Era stata una sartina. Si era sposata tardi, a quasi quaranta anni, con un uomo di cinquanta, più per bisogno di compagnia e per paura della solitudine, dopo la morte dei genitori, che per amore. Aveva desiderato subito di avere un bambino, ma come spesso capita quando si desidera troppo una cosa, la cosa non si avverava. Col marito spesero una fortuna in medici e cure e quando stavano per rassegnarsi, rattristati anche dal fatto che alla loro età non era possibile, con le leggi vigenti, adottare un bambino giunse la lieta novella: era incinta. Poco o nulla le importò che il medico, agli auguri ed alle congratulazioni, aggiunse che sarebbe stata una gravidanza difficilissima, da trascorrere a letto e nella più assoluta immobilità. Cosi la portò avanti di buon grado, senza mai lamentarsi.
Nacque uno splendido bambino e cominciò un periodo di grande felicità.
Anche il semplice affetto che nutriva per il marito si tramutò in amore,quando questi divenne anche il papà del suo tesorino. Sette anni pieni di gioia durò quello stato di grazia.“La vita - ci disse - miei cari giovani non è felice o triste, la vita è piena o vuota, con un scopo o vana. La loro era piena di quel figlio. Tutto iniziava e tutto finiva con e per lui”.
“Un anno a Pasquetta - prese a raccontare in prima persona - andammo a fare pic-nic in campagna. Dopo aver pranzato, mio marito si spaparanzò su una sdraio, con un libro in mano e di lì a poco, neanche fosse stata ‘La noia’ di Moravia, avrebbe cominciato a russare. Io stavo rimettendo ogni cosa al suo posto. Il bambino su una biciclettina, che gli avevamo regalato un mese prima, inanellava giri su giri del prato su cui ci eravamo accampati. Ad ogni passaggio risuonava il suo “ciao mamma ciao papà” e regolarmente suo padre sussultava per subito dopo riassopirsi, sussultare e riassopirsi. Ad un certo momento, fermatosi per rifiatare, insistette perché venissero tolte alla bici le due rotelline laterali di sicurezza. ‘Sono bravo, sembro Coppi’ gridava. Io mi opposi, ma mio marito dicendomi: ‘Se lo tieni nella bambagia diventerà alto, ma non crescerà mai’ le tolse. Il bambino riprese a scorazzare e suo padre a dormire.
Cadde. Urlò, una sola volta. In quel prato largo come piazza del Duomo, c’erano un solo sasso e una sola testolina di bambino. Le probabilità che l'una cozzasse contro l'altro era una su un miliardo.Ma ,accadde.
Mio figlio, nostro figlio mori.
Noi morimmo con lui.
Me la presi con Dio, con mio marito, con il mondo intero, soprattutto con me stessa.Questa gamma di nemici su cui scaricare il mio dolore mi salvò la vita, se vita si poteva ormai più chiamare, perché costituì una valvola di sfogo.Mio marito invece se la prese solo con se stesso per via di quelle maledette rotelline.Si riteneva responsabile d’averle tolte.Morì dopo tre mesi durante i quali non aveva versato una lacrima, né detto una parola.
Infarto, dissero i medici, ma sarebbe stato più esatto dire crepacuore.
Io, meno fortunata, sopravvissi. Non so dirvi come, ogni giorno credevo d’aver toccato il fondo e questo fondo si spostava più in basso.
Decisi di sfidare il Dio cattivo che mi aveva tolto tutto.
Non lontano dal punto dove mio figlio aveva trovato la morte c’era un burrone:quello che ci voleva perché la trovassi anch’io. ‘Domani - mi ripromisi- partirò dal punto dove c’era il sasso, correrò per duecento metri e volerò non verso il basso, ma verso l’alto fino a raggiungere mio figlio e mio marito’.
Quella stessa notte Dio raccolse la mia sfida, ma non volle vincere, non volle castigarmi anche se me lo sarei meritato a causa della mia poca fede; anzi volle salvarmi, trarmi fuori da quella disperazione disperata e, per farlo, si servì del mio bambino che mi apparve in sogno e mi disse: <<Mamma non farlo. Io e papà siamo felici. Qui. Vorremmo tanto riabbracciarti, ma tu potrai venire a stare con noi, e per l’eternità, solo se lascerai a Colui che te l’ha data, la facoltà di toglierti la vita. Quando ciò avverrà, papà ed io ti porteremo da Lui, in palmo di mano.La Bibbia dice che c’è un tempo per vivere e un tempo per morire. Per te è tempo di vivere, anzi di tornare a vivere, non contro di Dio ma in grazia Sua.Lui non ha forse perso un figlio, unico come me, e potendolo salvare non lo fece, perché così potremo salvarci tutti noi? ‘Chi crede in me vivrà’ diceva Gesù. Chi crede da vivo, ora, non dopo, intendeva. Credere dopo sarà tardi. E tu adesso devi credere in Lui. Qui il tempo non ha la stessa misura che in Terra: un secolo è meno di un anno, quindi ci vedremo presto per noi e tardi per te, ma ci vedremo.Unisci le tue preghiere terrene alle nostre celesti. Un abbraccio da me ed un bacio da papà. Ciao mamma>>.
Dopo il suo “ciao” mi svegliai e d’istinto pensai che era stata suggestione.Poi, con calma, la sera guardando il cielo ebbi l’impressione che una stella brillasse più delle altre ed ebbi come un lampo nel cervello: come poteva mai essere suggestione se il mio angelo parlava come un professore e se da scolaro di seconda elementare citava la Bibbia ed il Vangelo e se nemmeno io ero addentro alle Sacre Scritture , come facevano a essere solo terrene quelle parole, se il mio bambino parlava come un Dio? Compresi, e fu la mia salvezza, che aveva parlato sotto dettatura divina, che Dio, buono e misericordioso, si era voluto occupare di me”.
Il sig. Di Vito scuoteva la testa, da buon mangiapreti, come capimmo da qualche sua frase e con lui era scettico anche il Signor Carletto, per il quale probabilmente il “ben di Dio” era solo quello che stava nel piatto.”Fantasie di donna, fissazioni”, aveva lapidariamente liquidato la faccenda,senza farsi sentire da Adalgisa.
Sua moglie mi chiese: ”Lei che ha studiato - e mi gratificò del titolo di dottore - che ne pensa?”.
”Penso due cose: la prima, di nessuna importanza, che non sono dottore. La seconda, più seria, che io ci credo e non per fare contenta la Signora, o per illuderla.Ci credo perché anche io una volta, anzi più di una, ho fatto un sogno che non può derivare solo dal subconscio o da retro pensieri o da semplice suggestione.Ho sognato, per esempio, che facevo l’animatore in un villaggio turistico a Santo Domingo e che conversavo correntemente in inglese, francese, tedesco,spagnolo e perfino in arabo con i turisti e il personale del villaggio e la gente del posto. Ora, a parte il fatto che io ho vissuto sempre al paesello e Santo Domingo per me è solo un puntino sull’atlante, chiedo, soprattutto a voi signori Di Vito e Carletto, come facevo, seppure in sogno, a parlare tutte quelle lingue, io che conoscevo un pochino d’inglese e delle altre sapevo appena come si diceva ‘sì’ e ‘ no’ e dell’arabo neanche quello?”
“Quindi – continuai - qualcosa oltre, prima , dopo e , soprattutto, più in alto, c’è. Per me è Dio. Non sarà mica tutta da questa parte la vita ? Piuttosto, Signor Di Vito, lei cosa ci racconta?” chiesi, forse per bloccargli la risposta, forse polemica, che stava per darmi”.
“Io – rispose - non ho da raccontare né grandi tragedie né grandi gioie. Ho avuto una vita cosi regolare che vi annoiereste ad ascoltarla. Sono vedovo da più di trenta anni, ma non penso che mia moglie sia nell’al di là, non ci credo. Al massimo sarà all’Inferno. Ricordo che al suo funerale quando il prete disse: ‘Ora è in pace’ io pensai ‘Mai quanto me’.
Ho fatto il bracciante in “nero” per venticinque anni ed il magazziniere in regola per altri quindici, ho una piccola pensione e credo di essere stato una brava persona. Sono autodidatta e avevo l’hobby della lettura, ma ho dovuto abbandonarla per l’indebolimento della vista. Ora un coniglio nano, la radio, Claudio Villa, le canzoni napoletane e il Milan sono, insieme a questi amici, oggi, se mi fate questo onore, aumentati di due, tutta la mia vita. Stasera grazie a certi discorsi che ho ascoltato, soprattutto il suo sulle lingue straniere parlate senza alcuna spiegazione razionale, disse toccandomi il braccio, o forse è la paura della morte che prende noi vecchietti, hanno acceso una lucina. Vedrò di andarle incontro”.
Nonna Savina non aveva voluto raccontarci quasi nulla. ”Ho sofferto tanto, ma senza che mai la fede vacillasse. In altra occasione vi racconterò tutto, ma dopo le feste. Questa è troppo bella per guastarla”.
Carletto non poteva fare due cose contemporaneamente, parlare e mangiare,quindi tacque, cosi la moglie che fu impegnata tutta sera a controllare che non scoppiasse.
A quel punto l’unico sorriso era quello di Monica. Beata incoscienza ! Ci voleva qualcosa di allegro per mandar via la cappa di tristezza che quei discorsi tristi e seri avevano fatto calare.
Cominciò Carletto, cui la moglie aveva sottratto il piatto, con un paio di aneddoti molto divertenti, poi toccò a me e andai sul sicuro con la storia di Scutellà ed il famoso “Pericle affiliato alla ndrangheta”, un mio cavallo di battaglia, che meritò i battimani di tutti e alcuni brindisi di Carletto, che approfittò dell’occasione per ingollare, tra i rimbrotti della moglie, un bicchiere di rosso per ognuno di quei cin cin.
Anticipammo dunque di una settimana il pranzo di Natale, spazzolando un antipasto all’italiana, spaghetti al pesto, braciole di maiale, patatine fritte, frutta e panettone, bagnando il tutto con Cirò e Sangiovese in omaggio a Calabria e Romagna, coca cola e spumante.Tita la moglie di Carletto mangiò normalmente, io e Di Vito mangiammo e bevemmo per due, Carletto per sei. Adalgisa, Monica, Savina, mangiando poco, tennero a un livello accettabile la media. La cosa che mi stupì fu constatare che sembrava ci conoscessimo da sempre e non da poche ore.
Dopo aver cenato, parlato, brindato e giocato pensammo al Sacro e, constatato che il freddo non era eccessivo, coprimmo ben bene nonna Savina, la portammo di peso in strada, la imbarcammo sulla sua nuova fuoriserie e la conducemmo in Chiesa, dove non metteva piede da ben sette anni.
La Chiesa era ancora aperta a quell’ora per la novena. All’entrata ci accolsero un bellissimo presepe ed il parroco, Padre Mino, che si illuminò di gioia mista a sorpresa e, appena vide la Signora Savina, le venne incontro e dopo averla ringraziata per il pacco e l’offerta, benedicendola, le baciò le mani, che lei cercò di ritrarre non ritenendosi degna di tanto.
Poche altre volte mi commossi come quella sera. Riaffiorarono nella mente e nel cuore le feste di Natale trascorse al mio paese.
C’era la tavola grande per gli adulti e un tavolino per i bambini.Io mi trovavo in una singolare situazione: ero il più piccolo dei grandi ed il più grande dei piccoli. Avrei voluto sedermi con gli adulti e piansi quando mio padre mi ordinò di sistemarmi tra i mocciosi, ma le lacrime si trasformarono in gioia quando zio Natale mi diede l’investitura: “Tu sei il loro capo” e,soprattutto, cinquecento lire.
Non sono Charles Dickens e non riesco a descrivere quel che avveniva.
Posso limitarmi a dire che giorni così rimangono nel cuore per sempre e che la loro bellezza deriva dalla loro irripetibilità.I dolci, i regali, i giochi che per l’unica volta all’anno vedevano adulti e piccini giocare
insieme, proprio perché rarissimi, avevano un gusto superiore.Oggi sono un’abitudine e come diceva Cecco : ”Parigi non è più Parigi da quando tutti possono andare a Parigi”. In verità diceva ”cani e porci”, ma sorvoliamo.
Dopo aver mangiato e bevuto, arrivarono gli zii Nando e Maria con altri due cugini Enrico e Giulia, e si poteva, quindi, dare inizio alla distribuzione dei regali. Il magic moment dei piccoli.Ciascuno di noi, con tutti gli zii che si ritrovava, riceveva un sacco di giocattoli o di soldini.
Poi arrivavano i giochi: alle nocciole, a mazzetto e soprattutto a mercante in fiera condotto e diretto da zio Natale, un fratello di mio padre, di cui porto il nome, che ne faceva una rappresentazione teatrale.Chissà perché i premi venivano vinti sempre da noi ragazzini.Allora non lo sapevo. Oggi, che a mia volta sono padre, zio e nonno sì.
Tra un gioco e l’altro si raccontava qualche storiella e ricordo che una di queste in cui si narrava di un contadino tontarello che, aveva perso la scecca(sarebbe l’asina) lasciata colpevolmente incustodita. Disperato l’aveva cercata dappertutto, invano, così per evitare le legnate del padre si era nascosto in una stalla per passarvi la notte.Ben acquattato dietro un covone di fieno, si era quasi addormentato, quando a tarda sera, sentendo dei passi, si drizzò e vide così arrivare, un signore, vestito con eleganza, che cominciò a passeggiare nervosamente avanti e indietro,guardando in continuazione l’orologio. Evidentemente aspettava qualcuno e questo qualcuno alla fine giunse. Si trattava di una bellissima signora, altrettanto elegante, che volò letteralmente tra le sue braccia. L’uomo dopo un lungo bacio, sospirò di gioia e con voce stentorea le
disse:”Anima mia quando vedo te vedo tutto il mondo!”. A quel punto il contadino, che chiaramente non era Einstein, gridò:”E non è che per combinazione riuscite a vedere la mia scecca ?”
Scoppiarono le risate, la più fragorosa, al limite dell’isteria fu quella di zia Maria alla quale occorsero molti minuti per ritrovare la calma.
A mezzanotte, mentre noi piccoli, avvinti come l’edera ai nostri giocattoli,cascavamo uno alla vota in un sonno pieno di sogni, le donne e qualcuno degli uomini andavano in Chiesa per la Messa. Alcune di loro, per devozione particolare, vi avrebbero trascorso l’intera nottata. L’indomani, Natale, a casa nostra si ricominciava e cosi tutte le sere fino alla Befana. La fine delle feste ed il ritorno a scuola era un anticipo di quello che da grandi si vive ogni lunedì tornando al lavoro, specie se la Domenica la squadra del proprio cuore ha perso.
Avevamo sei amici, col parroco sette, in più. Alla Signora Adalgisa lasciai un foglietto con sopra una poesia: "Sai,/ oltre che per l’ergastolo/ Solo per un figlio perduto/ Si potrà scrivere/ ‘Fine pena : mai’ ".
Ero andato per dare e avevo ricevuto di più. Avevo speso una parte della mia tredicesima, ma ero diventato, per assurdo, assai più ricco. Avevo regalato il tenue calore che può dare una stufetta e avevo ricevuto in cambio il fortissimo calore umano che può dare un cuore. Quando è puro come il Bambino Gesù che nasce e a Lui viene consacrato.
P.S.
Dopo qualche giorno da quella magica serata, partii per la Calabria: quel Natale infatti e le altre feste di fine e inizio anno le passai al paesello, Seminara, in famiglia. Tornato a Milano, mi recai in via Farini. In portineria trovai Monica, insolitamente non sorridente, la quale aveva in mano una letterina, con sopra scritto il mio indirizzo, che si accingeva a spedirmi. "Ah, lei è qui, allora gliela consegno di persona, mi disse porgendomela, è meglio che legga perché io non saprei come e cosa dirle". Col cuore in tumulto e con un brutto presentimento, aprìi la busta e lessi :" Egregio Signor Natalino, Nonna Savina è volata in cielo il giorno dell'Epifania, prima di spirare si è raccomandata tanto di salutarLa e di farLe sapere che non la dimenticherà
mai e che da lassù La benedirà in eterno".
Oltre che con le nonne naturali, anche con quelle acquisite non avevo avuto fortuna, la fortuna di averle a lungo vicine, ma mi consolava una cosa : Savina era in cielo e nelle scuole, che sicuramente lì vi sono ed hanno ottimi ministri e funzionari, avrebbe insegnato la più bella delle materie : la Generosità.
“Grazie per avermi permesso di essere generosa ” disse commossa, commuovendomi. In quella stanza spoglia, con le pareti scrostate ed umide, con una sola minuscola finestrella, odorante di miseria, ma anche di dignità, imparai più che in un’aula universitaria, o in un convegno della Fao: non aveva nulla, ma dal momento che non aveva più desideri e speranze, non le mancava nulla. Tranne, come mi disse in seguito, il fatto di non potere andare da Dio, ma, ne sono certo, Dio andava da lei.
La ragazzina aveva finito il suo andirivieni. La sua mamma venne a ringraziare portando un vassoio con il caffè appena fatto. Quasi contemporaneamente si udirono delle voci, una lontana di donna e una vicina di uomo, entrambe gridarono le stesse parole : “Grazie Savina, sei un Angelo”. Erano la signorina Adalgisa e il Signor Di Vito, due dei beneficiati. Non c’è solidarietà più grande di quella tra poveri. Chiesi permesso per qualche minuto e mi assentai.
Un’ora dopo, circa, aiutato da un operaio, portai in quella stanza una sedia a rotelle.“Questa le servirà per andare in chiesa - le dissi - basterà che i suoi amici le diano una mano per portarla in strada. Un piano non è poi tanto”. Tentò di baciarmi le mani, non glielo permisi, ma mi lasciai abbracciare e la abbracciai. Pianse, piangemmo.
L’unica a sorridere fu la piccola Monica quando le diedi un paio di guanti, rossi per fare pendant col cappottino, che le avevo comprato.“Lei è un grande - mi disse Savina. “Mai quanto lei - le risposi.
In quel momento entrò nella stanza un omone, sulla quarantina, era il papà di Monica, si chiamava Carletto e si rivelò subito un simpaticone.Agile, nonostante i troppi chili che l’amico Lleio, con occhio da intenditore, avrebbe stimato in centosessanta, in quattro e quattr’otto fu in grado di organizzare una cenetta per altrettante persone, della quale, come mi chiese Savina, io avrei dovuto essere l’ospite d’onore, ma non sapevano l’onore che stavano facendo a me, per cui non ebbi alcuna esitazione ad accettare.
Con l’aiuto di Monica, mi incaricai dell’approvvigionamento di bevande e dolci e un paio d’ore dopo ci accomodammo, o meglio ci stringemmo attorno a quel minuscolo tavolo rettangolare al quale Carletto aveva aggiunto un tavolinetto, leggermente più basso. Nonna Savina a un capo del tavolo e all’altro, inevitabilmente Carletto. Sua moglie, la signora Tita e il signor Di Vito da un lato e a quello opposto io, in mezzo la piccola Monica destinata in un primo momento a sedersi accanto alla sua mamma, ma che espresse il desiderio di stare vicino a me e venne accontentata, e più in là la signora Adalgisa una simpatica signora alta e magra sulla settantina, che fu contenta di trovare in me un nuovo e attento ascoltatore della sua storia, che prese a raccontarci agli antipasti finendo al dolce.
Era stata una sartina. Si era sposata tardi, a quasi quaranta anni, con un uomo di cinquanta, più per bisogno di compagnia e per paura della solitudine, dopo la morte dei genitori, che per amore. Aveva desiderato subito di avere un bambino, ma come spesso capita quando si desidera troppo una cosa, la cosa non si avverava. Col marito spesero una fortuna in medici e cure e quando stavano per rassegnarsi, rattristati anche dal fatto che alla loro età non era possibile, con le leggi vigenti, adottare un bambino giunse la lieta novella: era incinta. Poco o nulla le importò che il medico, agli auguri ed alle congratulazioni, aggiunse che sarebbe stata una gravidanza difficilissima, da trascorrere a letto e nella più assoluta immobilità. Cosi la portò avanti di buon grado, senza mai lamentarsi.
Nacque uno splendido bambino e cominciò un periodo di grande felicità.
Anche il semplice affetto che nutriva per il marito si tramutò in amore,quando questi divenne anche il papà del suo tesorino. Sette anni pieni di gioia durò quello stato di grazia.“La vita - ci disse - miei cari giovani non è felice o triste, la vita è piena o vuota, con un scopo o vana. La loro era piena di quel figlio. Tutto iniziava e tutto finiva con e per lui”.
“Un anno a Pasquetta - prese a raccontare in prima persona - andammo a fare pic-nic in campagna. Dopo aver pranzato, mio marito si spaparanzò su una sdraio, con un libro in mano e di lì a poco, neanche fosse stata ‘La noia’ di Moravia, avrebbe cominciato a russare. Io stavo rimettendo ogni cosa al suo posto. Il bambino su una biciclettina, che gli avevamo regalato un mese prima, inanellava giri su giri del prato su cui ci eravamo accampati. Ad ogni passaggio risuonava il suo “ciao mamma ciao papà” e regolarmente suo padre sussultava per subito dopo riassopirsi, sussultare e riassopirsi. Ad un certo momento, fermatosi per rifiatare, insistette perché venissero tolte alla bici le due rotelline laterali di sicurezza. ‘Sono bravo, sembro Coppi’ gridava. Io mi opposi, ma mio marito dicendomi: ‘Se lo tieni nella bambagia diventerà alto, ma non crescerà mai’ le tolse. Il bambino riprese a scorazzare e suo padre a dormire.
Cadde. Urlò, una sola volta. In quel prato largo come piazza del Duomo, c’erano un solo sasso e una sola testolina di bambino. Le probabilità che l'una cozzasse contro l'altro era una su un miliardo.Ma ,accadde.
Mio figlio, nostro figlio mori.
Noi morimmo con lui.
Me la presi con Dio, con mio marito, con il mondo intero, soprattutto con me stessa.Questa gamma di nemici su cui scaricare il mio dolore mi salvò la vita, se vita si poteva ormai più chiamare, perché costituì una valvola di sfogo.Mio marito invece se la prese solo con se stesso per via di quelle maledette rotelline.Si riteneva responsabile d’averle tolte.Morì dopo tre mesi durante i quali non aveva versato una lacrima, né detto una parola.
Infarto, dissero i medici, ma sarebbe stato più esatto dire crepacuore.
Io, meno fortunata, sopravvissi. Non so dirvi come, ogni giorno credevo d’aver toccato il fondo e questo fondo si spostava più in basso.
Decisi di sfidare il Dio cattivo che mi aveva tolto tutto.
Non lontano dal punto dove mio figlio aveva trovato la morte c’era un burrone:quello che ci voleva perché la trovassi anch’io. ‘Domani - mi ripromisi- partirò dal punto dove c’era il sasso, correrò per duecento metri e volerò non verso il basso, ma verso l’alto fino a raggiungere mio figlio e mio marito’.
Quella stessa notte Dio raccolse la mia sfida, ma non volle vincere, non volle castigarmi anche se me lo sarei meritato a causa della mia poca fede; anzi volle salvarmi, trarmi fuori da quella disperazione disperata e, per farlo, si servì del mio bambino che mi apparve in sogno e mi disse: <<Mamma non farlo. Io e papà siamo felici. Qui. Vorremmo tanto riabbracciarti, ma tu potrai venire a stare con noi, e per l’eternità, solo se lascerai a Colui che te l’ha data, la facoltà di toglierti la vita. Quando ciò avverrà, papà ed io ti porteremo da Lui, in palmo di mano.La Bibbia dice che c’è un tempo per vivere e un tempo per morire. Per te è tempo di vivere, anzi di tornare a vivere, non contro di Dio ma in grazia Sua.Lui non ha forse perso un figlio, unico come me, e potendolo salvare non lo fece, perché così potremo salvarci tutti noi? ‘Chi crede in me vivrà’ diceva Gesù. Chi crede da vivo, ora, non dopo, intendeva. Credere dopo sarà tardi. E tu adesso devi credere in Lui. Qui il tempo non ha la stessa misura che in Terra: un secolo è meno di un anno, quindi ci vedremo presto per noi e tardi per te, ma ci vedremo.Unisci le tue preghiere terrene alle nostre celesti. Un abbraccio da me ed un bacio da papà. Ciao mamma>>.
Dopo il suo “ciao” mi svegliai e d’istinto pensai che era stata suggestione.Poi, con calma, la sera guardando il cielo ebbi l’impressione che una stella brillasse più delle altre ed ebbi come un lampo nel cervello: come poteva mai essere suggestione se il mio angelo parlava come un professore e se da scolaro di seconda elementare citava la Bibbia ed il Vangelo e se nemmeno io ero addentro alle Sacre Scritture , come facevano a essere solo terrene quelle parole, se il mio bambino parlava come un Dio? Compresi, e fu la mia salvezza, che aveva parlato sotto dettatura divina, che Dio, buono e misericordioso, si era voluto occupare di me”.
Il sig. Di Vito scuoteva la testa, da buon mangiapreti, come capimmo da qualche sua frase e con lui era scettico anche il Signor Carletto, per il quale probabilmente il “ben di Dio” era solo quello che stava nel piatto.”Fantasie di donna, fissazioni”, aveva lapidariamente liquidato la faccenda,senza farsi sentire da Adalgisa.
Sua moglie mi chiese: ”Lei che ha studiato - e mi gratificò del titolo di dottore - che ne pensa?”.
”Penso due cose: la prima, di nessuna importanza, che non sono dottore. La seconda, più seria, che io ci credo e non per fare contenta la Signora, o per illuderla.Ci credo perché anche io una volta, anzi più di una, ho fatto un sogno che non può derivare solo dal subconscio o da retro pensieri o da semplice suggestione.Ho sognato, per esempio, che facevo l’animatore in un villaggio turistico a Santo Domingo e che conversavo correntemente in inglese, francese, tedesco,spagnolo e perfino in arabo con i turisti e il personale del villaggio e la gente del posto. Ora, a parte il fatto che io ho vissuto sempre al paesello e Santo Domingo per me è solo un puntino sull’atlante, chiedo, soprattutto a voi signori Di Vito e Carletto, come facevo, seppure in sogno, a parlare tutte quelle lingue, io che conoscevo un pochino d’inglese e delle altre sapevo appena come si diceva ‘sì’ e ‘ no’ e dell’arabo neanche quello?”
“Io – rispose - non ho da raccontare né grandi tragedie né grandi gioie. Ho avuto una vita cosi regolare che vi annoiereste ad ascoltarla. Sono vedovo da più di trenta anni, ma non penso che mia moglie sia nell’al di là, non ci credo. Al massimo sarà all’Inferno. Ricordo che al suo funerale quando il prete disse: ‘Ora è in pace’ io pensai ‘Mai quanto me’.
Ho fatto il bracciante in “nero” per venticinque anni ed il magazziniere in regola per altri quindici, ho una piccola pensione e credo di essere stato una brava persona. Sono autodidatta e avevo l’hobby della lettura, ma ho dovuto abbandonarla per l’indebolimento della vista. Ora un coniglio nano, la radio, Claudio Villa, le canzoni napoletane e il Milan sono, insieme a questi amici, oggi, se mi fate questo onore, aumentati di due, tutta la mia vita. Stasera grazie a certi discorsi che ho ascoltato, soprattutto il suo sulle lingue straniere parlate senza alcuna spiegazione razionale, disse toccandomi il braccio, o forse è la paura della morte che prende noi vecchietti, hanno acceso una lucina. Vedrò di andarle incontro”.
Nonna Savina non aveva voluto raccontarci quasi nulla. ”Ho sofferto tanto, ma senza che mai la fede vacillasse. In altra occasione vi racconterò tutto, ma dopo le feste. Questa è troppo bella per guastarla”.
Carletto non poteva fare due cose contemporaneamente, parlare e mangiare,quindi tacque, cosi la moglie che fu impegnata tutta sera a controllare che non scoppiasse.
A quel punto l’unico sorriso era quello di Monica. Beata incoscienza ! Ci voleva qualcosa di allegro per mandar via la cappa di tristezza che quei discorsi tristi e seri avevano fatto calare.
Cominciò Carletto, cui la moglie aveva sottratto il piatto, con un paio di aneddoti molto divertenti, poi toccò a me e andai sul sicuro con la storia di Scutellà ed il famoso “Pericle affiliato alla ndrangheta”, un mio cavallo di battaglia, che meritò i battimani di tutti e alcuni brindisi di Carletto, che approfittò dell’occasione per ingollare, tra i rimbrotti della moglie, un bicchiere di rosso per ognuno di quei cin cin.
Anticipammo dunque di una settimana il pranzo di Natale, spazzolando un antipasto all’italiana, spaghetti al pesto, braciole di maiale, patatine fritte, frutta e panettone, bagnando il tutto con Cirò e Sangiovese in omaggio a Calabria e Romagna, coca cola e spumante.Tita la moglie di Carletto mangiò normalmente, io e Di Vito mangiammo e bevemmo per due, Carletto per sei. Adalgisa, Monica, Savina, mangiando poco, tennero a un livello accettabile la media. La cosa che mi stupì fu constatare che sembrava ci conoscessimo da sempre e non da poche ore.
La Chiesa era ancora aperta a quell’ora per la novena. All’entrata ci accolsero un bellissimo presepe ed il parroco, Padre Mino, che si illuminò di gioia mista a sorpresa e, appena vide la Signora Savina, le venne incontro e dopo averla ringraziata per il pacco e l’offerta, benedicendola, le baciò le mani, che lei cercò di ritrarre non ritenendosi degna di tanto.
Poche altre volte mi commossi come quella sera. Riaffiorarono nella mente e nel cuore le feste di Natale trascorse al mio paese.
***
Me ne venne in mente una, in particolare, di cinque anni prima, svoltasi la sera del 24 vigilia, a casa di zio Peppino. Sua moglie Teta, diminuitivo di Teresa,aveva preparato una cena coi fiocchi.La zia Concettina e mia madre avevano fatto le “zeppole” e le “nacatole”.Le ragazze aiutavano a servire, gli uomini parlavano tra di loro di affari o politica e noi bambini aspettavamo con ansia il momento in cui si sarebbero distribuiti i regali. C’era la tavola grande per gli adulti e un tavolino per i bambini.Io mi trovavo in una singolare situazione: ero il più piccolo dei grandi ed il più grande dei piccoli. Avrei voluto sedermi con gli adulti e piansi quando mio padre mi ordinò di sistemarmi tra i mocciosi, ma le lacrime si trasformarono in gioia quando zio Natale mi diede l’investitura: “Tu sei il loro capo” e,soprattutto, cinquecento lire.
Non sono Charles Dickens e non riesco a descrivere quel che avveniva.
Posso limitarmi a dire che giorni così rimangono nel cuore per sempre e che la loro bellezza deriva dalla loro irripetibilità.I dolci, i regali, i giochi che per l’unica volta all’anno vedevano adulti e piccini giocare
insieme, proprio perché rarissimi, avevano un gusto superiore.Oggi sono un’abitudine e come diceva Cecco : ”Parigi non è più Parigi da quando tutti possono andare a Parigi”. In verità diceva ”cani e porci”, ma sorvoliamo.
Dopo aver mangiato e bevuto, arrivarono gli zii Nando e Maria con altri due cugini Enrico e Giulia, e si poteva, quindi, dare inizio alla distribuzione dei regali. Il magic moment dei piccoli.Ciascuno di noi, con tutti gli zii che si ritrovava, riceveva un sacco di giocattoli o di soldini.
Poi arrivavano i giochi: alle nocciole, a mazzetto e soprattutto a mercante in fiera condotto e diretto da zio Natale, un fratello di mio padre, di cui porto il nome, che ne faceva una rappresentazione teatrale.Chissà perché i premi venivano vinti sempre da noi ragazzini.Allora non lo sapevo. Oggi, che a mia volta sono padre, zio e nonno sì.
Tra un gioco e l’altro si raccontava qualche storiella e ricordo che una di queste in cui si narrava di un contadino tontarello che, aveva perso la scecca(sarebbe l’asina) lasciata colpevolmente incustodita. Disperato l’aveva cercata dappertutto, invano, così per evitare le legnate del padre si era nascosto in una stalla per passarvi la notte.Ben acquattato dietro un covone di fieno, si era quasi addormentato, quando a tarda sera, sentendo dei passi, si drizzò e vide così arrivare, un signore, vestito con eleganza, che cominciò a passeggiare nervosamente avanti e indietro,guardando in continuazione l’orologio. Evidentemente aspettava qualcuno e questo qualcuno alla fine giunse. Si trattava di una bellissima signora, altrettanto elegante, che volò letteralmente tra le sue braccia. L’uomo dopo un lungo bacio, sospirò di gioia e con voce stentorea le
disse:”Anima mia quando vedo te vedo tutto il mondo!”. A quel punto il contadino, che chiaramente non era Einstein, gridò:”E non è che per combinazione riuscite a vedere la mia scecca ?”
Scoppiarono le risate, la più fragorosa, al limite dell’isteria fu quella di zia Maria alla quale occorsero molti minuti per ritrovare la calma.
A mezzanotte, mentre noi piccoli, avvinti come l’edera ai nostri giocattoli,cascavamo uno alla vota in un sonno pieno di sogni, le donne e qualcuno degli uomini andavano in Chiesa per la Messa. Alcune di loro, per devozione particolare, vi avrebbero trascorso l’intera nottata. L’indomani, Natale, a casa nostra si ricominciava e cosi tutte le sere fino alla Befana. La fine delle feste ed il ritorno a scuola era un anticipo di quello che da grandi si vive ogni lunedì tornando al lavoro, specie se la Domenica la squadra del proprio cuore ha perso.
***
Col permesso dei suoi genitori portammo Monica in pasticceria e la facemmo abbuffare di pastarelle di cui comprammo una buona quantità che portammo per tutti e innaffiandole con lo spumante concludemmo quella splendida serata. Anzi si era già fatta notte. Il cielo era pieno di stelle. Savina e gli altri ci fecero promettere che saremmo tornati. Avevamo sei amici, col parroco sette, in più. Alla Signora Adalgisa lasciai un foglietto con sopra una poesia: "Sai,/ oltre che per l’ergastolo/ Solo per un figlio perduto/ Si potrà scrivere/ ‘Fine pena : mai’ ".
Ero andato per dare e avevo ricevuto di più. Avevo speso una parte della mia tredicesima, ma ero diventato, per assurdo, assai più ricco. Avevo regalato il tenue calore che può dare una stufetta e avevo ricevuto in cambio il fortissimo calore umano che può dare un cuore. Quando è puro come il Bambino Gesù che nasce e a Lui viene consacrato.
P.S.
Dopo qualche giorno da quella magica serata, partii per la Calabria: quel Natale infatti e le altre feste di fine e inizio anno le passai al paesello, Seminara, in famiglia. Tornato a Milano, mi recai in via Farini. In portineria trovai Monica, insolitamente non sorridente, la quale aveva in mano una letterina, con sopra scritto il mio indirizzo, che si accingeva a spedirmi. "Ah, lei è qui, allora gliela consegno di persona, mi disse porgendomela, è meglio che legga perché io non saprei come e cosa dirle". Col cuore in tumulto e con un brutto presentimento, aprìi la busta e lessi :" Egregio Signor Natalino, Nonna Savina è volata in cielo il giorno dell'Epifania, prima di spirare si è raccomandata tanto di salutarLa e di farLe sapere che non la dimenticherà
mai e che da lassù La benedirà in eterno".
Oltre che con le nonne naturali, anche con quelle acquisite non avevo avuto fortuna, la fortuna di averle a lungo vicine, ma mi consolava una cosa : Savina era in cielo e nelle scuole, che sicuramente lì vi sono ed hanno ottimi ministri e funzionari, avrebbe insegnato la più bella delle materie : la Generosità.