Un tuffo nell’atmosfera perduta delle feste e delle sagre oppidesi degli anni Trenta del secolo scorso, quando per divertirsi e per esultare bastava molto poco. Appena quel poco che i più riuscivano a risparmiare e a mettere da parte con grandi stenti proprio per la festa, perché la festa, come osserva Lombardi- Satriani, rendeva uguali, la festa era, e non è più da un pezzo, il giubileo dei poveri e dei ragazzi, il momento sabbatico e liberatorio che con le sue precise cadenze annuali regalava a tutti qualcosa, forse anche qualche misteriosa ragione di vita. Rocco Liberti con questa sua preziosa e stupenda pagina, scritta quasi in presa diretta, ci fa tornare con commozione ancora una volta a un passato che altrimenti sarebbe definitivamente perduto, intriso di mille povertà, ma ricco di entusiasmi e di speranze nel quale persino le processioni sacre, piuttosto che aride , ridondanti e ripetitive, erano ricche di quei forti slanci sociali e religiosi che forse in molti abbiamo ormai smarrito (Bruno Demasi).
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Nei paesi, piccoli o grandi che siano, ogni annata è stata sempre scandita dall’alternarsi di ricorrenze festose, che hanno segnato il cammino delle popolazioni residenti e l’arrivo di altre dai territori contermini accomunate nella devozione a questo o quel santo. Ma non soltanto avvicendarsi di anniversari di carattere prettamente ecclesiale. Tante occasioni e tante scuse si sono rivelate propizie anche per organizzare eventi di vario genere. Se perdurando il fascismo si è abbondato in raduni davanti ai monumenti ai caduti o alla Casa del Fascio, nel dopoguerra le feste dell’Unità e consimili hanno svolto del pari il loro compito. Comunque, l’animo del popolo è stato sempre catturato dal senso religioso e, se al presente non si interviene a parecchie manifestazioni in voga che per l’addietro riunivano le comunità al gran completo e con tutta una serie di particolari funzioni, in molti non mancano di seguire pure se in modo assai ridotto l’indirizzo dei padri.
Nei due mesi che segnano la fine di un anno e il succedersi del nuovo l’interesse era rivolto alle festività natalizie. Non che ora non si avvertono, ma in antecedenza era un’altra cosa. Si notava una maggiore frequenza e le ideazioni risultavano molteplici. Sin dal principio e trascorrendo la novena avevi l’opportunità di seguire la banda musicale che ti offriva melodiose pastorali. Iniziava il suo tour nel pomeriggio e, soffermandosi di porta in porta, t’inseriva in un’aura particolarmente festosa. E i ragazzi che facevamo? Ci accodavamo. E la mattina? Non era ancora spuntata l’alba che nelle abitazioni si accendevano le luci. Era il momento di recarsi in chiesa per ottemperare alla liturgia del Natale con immancabili orchestrine che esprimevano a loro volta soavi note. In Oppido non difettavano davvero autori di ninnarelle sacerdoti e laici, Muratore, Sposato, Tedeschi, Grillo, Muscari ecc. Prima del rito i suonatori si offrivano sulle strade e li potevi sentire standotene a letto. Quelle accattivanti melodie ti inducevano a ben pensare e ad augurarti una splendida giornata. Ci alzavamo insonnoliti e in quattro e quattr’otto ci spingevamo in cattedrale. Immancabile, Turi Gioffrè era più lesto di me e mi ticchettava sulla finestra della camera in cui dormivo. Fuori era buio pesto o quasi e per le vie non c’era l’illuminazione di oggi. L’unico chiarore insolito filtrava dal forno Versace, i cui componenti erano già al lavoro. Gli stessi inoltre davano fuoco sul ciglio della strada a uno ccippu che in contemporanea rischiarava e scaldava. Uguale premura la esplicitava nella via parallela il negoziante Cicciu ‘a Ruffa. A fine cerimonia, quando si sciamava tutti beati dalla Chiesa t’investiva piacevolmente l’odore di caffè misto a un po’ di anice che si diffondeva dai bar e dalle case con gli abitanti ormai tutti in attesa di riprendere l’usuale attività. Per tanti amici era ormai l’occasione propizia per compiere una visitina ai mandarini del giardino dell’Ing. Ferraris. Ce n’erano a dovizia e il proprietario non aveva cura davvero di raccoglierli, per cui era un vero peccato non approfittarne. L’apogeo si raggiungeva la notte della vigilia, allorquando ci si recava in massa per assistere alla simbolica nascita del Messia. Era un’imponente manifestazione alla quale aderivano i tanti sacerdoti e seminaristi.
In Cattedrale già ai primi di dicembre si pensava per tempo a costruire un maestoso presepe. Lo allestivano con maestrìa, tra vari, mastro Turi Sgrò con i figli, validi artigiani, che impegnavano per intero la cappella dell’Immacolata. Similmente nelle chiese filiali si badava ad allestirne altro anche se in forme più ridotte. Naturalmente, a preferenza era ricercato quello del duomo perché i personaggi avevano una prestante statura. E lì a metterti a indovinarli! Le figure più osservate, a parte divinità e santi, erano quelle relative a quanti destavano una qualche attenzione od ilarità. Ci si fissava soprattutto a cercare di scoprire u ‘mmagàtu da’ stija. Era un pastore, che, a furia di fissare lo sguardo sulla stella che annunziava l’avvento del Redentore, era rimasto mmagàtu, cioè incantato. Ma il presepe non lo si costruiva unicamente nelle chiese, si apparava alla grande parimenti in alcune famiglie. I Gioffrè spostavano quanto c’era in una stanza e officiavano alla vista pure loro un discreto presepe. Offerendosi al centro del paese, erano in tanti ad accostarvisi. Ne ricordo altro sulla piazza principale in un basso del palazzo dell’avv. Filippo Grillo. In buona parte la popolazione ruotava nella visita ai presepi, specie quelli realizzati nelle chiese.
Le celebrazioni natalizie avevano termine con l’Epifania, un culto inerente alla venuta dei Magi, i quali, partiti dal lontano Oriente, si erano spinti fino a Betlemme al fine di riverire il Messia. Ecco perché si crede o si credeva che la notte trascorsa recasse un che di eccezionale, di magico. In quel frangente addirittura gli animali acquistavano la facoltà della parola. Nella frammistione tra religione e laicità ecco quindi spuntare la Befana, dispensatrice di doni ai bambini buoni e di carbone ai discoli. Fino a parecchio tempo fa nel dopo pranzo del 6 gennaio si costumava recare in processione per il paese il Bambinello. Era un impegno della comunità che faceva capo alla chiesa del Calvario. Nelle altre chiese mi pare che ci si limitasse a un breve trattenimento avanti al singolo tempio o addirittura all’interno.
Un intervallo tipicamente laico era rappresentato dal carnevale. Dico era perché una tale ricorrenza da noi è oggi quasi pressochè scomparsa. Ho buona memoria delle mascherate di tanti anni fa. Il paese era percorso in lungo e in largo da cortei di giovani e meno giovani travestiti che ballavano, lanciavano lazzi e frizzi e facevano rota, cioè raccoglievano attorno a loro nugoli di curiosi che si divertivano alle loro smargiassate. La cosa riguardava beninteso i soli uomini. Le donne stavano a casa e tutt’al più si affacciavano sull’uscio o dalle finestre a sbirciare, ritraendosene subito ad ogni sguaiataggine un tantino spinta. Era un appuntamento fisso l’assalto notturno al dolciere Pappalardo da parte dell‘Asso di coppe e della consorte in unione ai coniugi Satanassi. Dal Pappalardo c’era modo di sgraffignare una sostanziosa mangiata e d’intrattenersi in allegria. Appena i miei si accorgevano della cosa ormai rituale spegnevano immediatamente la luce e si rimaneva in totale silenzio per timore di una invasione di campo. Ma in verità agli allegri mascherati bastava quanto già incamerato. Non mancavano camions e auto scoperte con persone camuffate. Ogni anno era di prammatica la spaparanzata di Galèra, un tizio che ne ammanniva di tutti i colori contro il governo. Come si dice: piove governo ladro. L’ultimo e più importante spettacolo carnevalesco si è rivelato nei primi anni ’80 del decorso secolo. Avendo pensato come Pro-Loco di bandire un apposito concorso a premi in danaro abbiamo colto nel segno. Dai borghi della Piana si è sviluppata tantissima affluenza e sul corso di Oppido sono sfilati carri di una certa importanza. Ha vinto quello ideato da Negrini con una satira d’impronta medievale avverso il Comune e i suoi rappresentanti. Il sindaco Mittica, re Peppino, veniva simboleggiato come il Magnifico mentre agli altri politicanti si appioppavano singolari epiteti tipo Michino il Breve, Paolone cuor di caprone, Totò le Barò. Chiusa la parentesi carnevale, era d’uso appendere ai balconi le corajsime, dei pupazzetti di stoffa raffiguranti la Quaresima, bizzarri esemplari che stavano a indicare che dopo i bagordi si era obbligati a rimarsene a stecchetto. Dal balconcino della Beniamina una corajsima si protendeva per dei mesi.
In Cattedrale già ai primi di dicembre si pensava per tempo a costruire un maestoso presepe. Lo allestivano con maestrìa, tra vari, mastro Turi Sgrò con i figli, validi artigiani, che impegnavano per intero la cappella dell’Immacolata. Similmente nelle chiese filiali si badava ad allestirne altro anche se in forme più ridotte. Naturalmente, a preferenza era ricercato quello del duomo perché i personaggi avevano una prestante statura. E lì a metterti a indovinarli! Le figure più osservate, a parte divinità e santi, erano quelle relative a quanti destavano una qualche attenzione od ilarità. Ci si fissava soprattutto a cercare di scoprire u ‘mmagàtu da’ stija. Era un pastore, che, a furia di fissare lo sguardo sulla stella che annunziava l’avvento del Redentore, era rimasto mmagàtu, cioè incantato. Ma il presepe non lo si costruiva unicamente nelle chiese, si apparava alla grande parimenti in alcune famiglie. I Gioffrè spostavano quanto c’era in una stanza e officiavano alla vista pure loro un discreto presepe. Offerendosi al centro del paese, erano in tanti ad accostarvisi. Ne ricordo altro sulla piazza principale in un basso del palazzo dell’avv. Filippo Grillo. In buona parte la popolazione ruotava nella visita ai presepi, specie quelli realizzati nelle chiese.
Le celebrazioni natalizie avevano termine con l’Epifania, un culto inerente alla venuta dei Magi, i quali, partiti dal lontano Oriente, si erano spinti fino a Betlemme al fine di riverire il Messia. Ecco perché si crede o si credeva che la notte trascorsa recasse un che di eccezionale, di magico. In quel frangente addirittura gli animali acquistavano la facoltà della parola. Nella frammistione tra religione e laicità ecco quindi spuntare la Befana, dispensatrice di doni ai bambini buoni e di carbone ai discoli. Fino a parecchio tempo fa nel dopo pranzo del 6 gennaio si costumava recare in processione per il paese il Bambinello. Era un impegno della comunità che faceva capo alla chiesa del Calvario. Nelle altre chiese mi pare che ci si limitasse a un breve trattenimento avanti al singolo tempio o addirittura all’interno.
Un intervallo tipicamente laico era rappresentato dal carnevale. Dico era perché una tale ricorrenza da noi è oggi quasi pressochè scomparsa. Ho buona memoria delle mascherate di tanti anni fa. Il paese era percorso in lungo e in largo da cortei di giovani e meno giovani travestiti che ballavano, lanciavano lazzi e frizzi e facevano rota, cioè raccoglievano attorno a loro nugoli di curiosi che si divertivano alle loro smargiassate. La cosa riguardava beninteso i soli uomini. Le donne stavano a casa e tutt’al più si affacciavano sull’uscio o dalle finestre a sbirciare, ritraendosene subito ad ogni sguaiataggine un tantino spinta. Era un appuntamento fisso l’assalto notturno al dolciere Pappalardo da parte dell‘Asso di coppe e della consorte in unione ai coniugi Satanassi. Dal Pappalardo c’era modo di sgraffignare una sostanziosa mangiata e d’intrattenersi in allegria. Appena i miei si accorgevano della cosa ormai rituale spegnevano immediatamente la luce e si rimaneva in totale silenzio per timore di una invasione di campo. Ma in verità agli allegri mascherati bastava quanto già incamerato. Non mancavano camions e auto scoperte con persone camuffate. Ogni anno era di prammatica la spaparanzata di Galèra, un tizio che ne ammanniva di tutti i colori contro il governo. Come si dice: piove governo ladro. L’ultimo e più importante spettacolo carnevalesco si è rivelato nei primi anni ’80 del decorso secolo. Avendo pensato come Pro-Loco di bandire un apposito concorso a premi in danaro abbiamo colto nel segno. Dai borghi della Piana si è sviluppata tantissima affluenza e sul corso di Oppido sono sfilati carri di una certa importanza. Ha vinto quello ideato da Negrini con una satira d’impronta medievale avverso il Comune e i suoi rappresentanti. Il sindaco Mittica, re Peppino, veniva simboleggiato come il Magnifico mentre agli altri politicanti si appioppavano singolari epiteti tipo Michino il Breve, Paolone cuor di caprone, Totò le Barò. Chiusa la parentesi carnevale, era d’uso appendere ai balconi le corajsime, dei pupazzetti di stoffa raffiguranti la Quaresima, bizzarri esemplari che stavano a indicare che dopo i bagordi si era obbligati a rimarsene a stecchetto. Dal balconcino della Beniamina una corajsima si protendeva per dei mesi.
A marzo toccava a San Giuseppe essere onorato, ma la festa consisteva nella processione per le vie del paese e nella comparsa di scarsi rivenditori quasi esclusivamente di dolciumi e produzioni povere come ‘nzuj ‘i cascia, noccioline americane, ceci e fave abbrustolite. La relativa artistica statua, opera del tresilicese Rocco Bruno Morizzi (1840-1918), si estrae dalla chiesa omonima, frequentata un tempo in gran parte dai falegnami e operai in genere che nelle domeniche si allogavano nei capienti stalli in legno. Mi ci sono piazzato anch’io più di una volta, ma quello a cui miravo di più era il gruppo Lentini che avevo sempre di fronte. Il maestro Saverio dai solenni baffoni strimpellava all’organo e modulava la voce con un curioso suono nasale da cui non si percepiva un ette, ma era accompagnato dalle due figlie Ines e Pina che sostenevano a perfezione il loro ruolo. Era un edificio sacro piuttosto frequentato da chi non voleva presenziare pomposamente in cattedrale, ma a un certo punto lo è stato di più in quanto l’usuale celebrante, il canonico Pignataro, diceva Messa sveltamente e per quanto concerneva la predica si limitava a poche scarne battute. Così in venti minuti eri bell’e pronto. Ognuno accoppiava l’utile al dilettevole.
Il 25 marzo è il giorno della Madonna Annunziata. Fino a parecchi anni fa era collegato a una accorsata fiera che durava ben tre giorni, ma oggi, nell’era dei supermercati, si è tutto capovolto. Si offeriva non solo il movimento creato dai paesani, ma anche quello di imponenti schiere che arrivavano dai centri vicini e specialmente a piedi. Allora le auto e altri mezzi a motore erano patrimonio di pochi. Tutti aspettavano la fiera per dotarsi di quanto occorreva per la casa e non solo. C’era da fare il corredo alle figlie femmine e dove rifornirsi a buon prezzo e oculata scelta se non alla fiera dell’Annunziata? Falegnami del posto, su incarico dell’apposita commissione, nei giorni antecedenti all’evento in quattro e quattr’otto approntavano una serie di banchi di legno che dovevano servire ai mercanti per esporre le loro merci. Il luogo fissato era la piazza Umberto I ed era così numeroso il numero dei partecipanti che difficilmente si rinveniva un angolino libero. Alla prenotazione si provvedeva molti giorni avanti e conseguentemente si segnavano i limiti. In quei giorni era dato mirare il viavai delle donne adulte accompagnate dalle figliuole in ronda per le postazioni e ascoltare i dialoghi inerenti alla compravendita. Non latitavano i monelli che si aggiravano tra i banchi per giocare e creare confusione infilandosi tra coperte, lenzuola ed altro materiale consimile. Era normale. Lungo il corso sin quasi a raggiungere il cosiddetto ponte di Tresilico si schieravano poi i venditori di giocattoli, dolciumi (torroni, susumelle, pittopìe, stomàticu, biscottu, nzuj i cascia, pitti ‘i San Martinu, nocciolina americana, cìciri), confezioni casearie (tipici i cavajucci corda corda di caciocavallo, legnosi e salati, ch’erano assai ricercati). Era dato avvertire anche gli imbonitori che si sbracciavano per riunire e intrattenere con giochi e concorsi più o meno ingannatori e ricavare quanto più possibile mettendo in palio una vistosa bambola o altro che alla fine veniva assegnato a un ultimo concorrente.
Il 25 marzo è il giorno della Madonna Annunziata. Fino a parecchi anni fa era collegato a una accorsata fiera che durava ben tre giorni, ma oggi, nell’era dei supermercati, si è tutto capovolto. Si offeriva non solo il movimento creato dai paesani, ma anche quello di imponenti schiere che arrivavano dai centri vicini e specialmente a piedi. Allora le auto e altri mezzi a motore erano patrimonio di pochi. Tutti aspettavano la fiera per dotarsi di quanto occorreva per la casa e non solo. C’era da fare il corredo alle figlie femmine e dove rifornirsi a buon prezzo e oculata scelta se non alla fiera dell’Annunziata? Falegnami del posto, su incarico dell’apposita commissione, nei giorni antecedenti all’evento in quattro e quattr’otto approntavano una serie di banchi di legno che dovevano servire ai mercanti per esporre le loro merci. Il luogo fissato era la piazza Umberto I ed era così numeroso il numero dei partecipanti che difficilmente si rinveniva un angolino libero. Alla prenotazione si provvedeva molti giorni avanti e conseguentemente si segnavano i limiti. In quei giorni era dato mirare il viavai delle donne adulte accompagnate dalle figliuole in ronda per le postazioni e ascoltare i dialoghi inerenti alla compravendita. Non latitavano i monelli che si aggiravano tra i banchi per giocare e creare confusione infilandosi tra coperte, lenzuola ed altro materiale consimile. Era normale. Lungo il corso sin quasi a raggiungere il cosiddetto ponte di Tresilico si schieravano poi i venditori di giocattoli, dolciumi (torroni, susumelle, pittopìe, stomàticu, biscottu, nzuj i cascia, pitti ‘i San Martinu, nocciolina americana, cìciri), confezioni casearie (tipici i cavajucci corda corda di caciocavallo, legnosi e salati, ch’erano assai ricercati). Era dato avvertire anche gli imbonitori che si sbracciavano per riunire e intrattenere con giochi e concorsi più o meno ingannatori e ricavare quanto più possibile mettendo in palio una vistosa bambola o altro che alla fine veniva assegnato a un ultimo concorrente.
Ma spesso l’oggetto ambito era come l’araba fenice: se ne tornava indietro con gli stessi parolai del momento. Gli offerenti oggetti cosiddetti di terraglia (piatti e altro) si disponevano nelle due piazze dove troneggia il monumento ai caduti e l’afflusso si rivelava alquanto accorsato. Era tutto un gridìo con strilloni che incantavano gli astanti vantando la propria mercanzìa e relativi prezzi. E c’era un sito stabilito per smerciare il bestiame, muli, asini, maiali ecc. Si offriva vicino la chiesetta del Calvario e in parallelo alla fila di baracche che se ne distaccava procedendo verso il Piliere. Praticamente occupava il luogo dove oggi insistono i complessi popolari a partire dalla casa dei Lombardo. Per quanto concerne l’offerta musicale più popolaresca, alla banda cittadina si alternava la colorita banda pilusa di Piminoro. Era ed è così detta per via del vestito da pastore fatto di abraso e quindi peloso e per i suoni ricavati perlopiù da strumenti popolari come la pipìta, la zampogna, il tamburello e ‘u frischiottu. Il complesso negli anni Trenta ha meritato di essere ricevuto dal Re.
L’indomani, intorno alle ore 7 (da tempo è stata spostata alle ore pomeridiane) si procedeva alla processione del Cristo morto in una bara bianca coperta da un velo e con la Madonna Addolorata al seguito. Vi partecipavano i confratelli delle tre congreghe cittadine, di S. Giuseppe, dell’Abazia e dell’Oratorio, quindi una folla di salmodianti che offerivano commoventi canti in dialetto. Erano musiche e parole espresse veramente in tono alquanto lugubre che proprio immalinconivano: A lu chiantu di Maria Gesù s’affanna/Giuda ca lu tradìu non si lu storna/Gianni ca voli beni a la Madonna/subitamenti la nova nci porta etc. V’interveniva altresì la banda cittadina che eseguiva marce funebri, quasi sempre quella di Chopin. In testa a tutto il corteo facevano ala i numerosi ragazzotti che agitavano i carici (raganelle), le tocca tocca e le pitte producendo un fracasso indescrivibile. Inimitabile Grabeli Zindato, un ragazzone con pantaloni a mezza gamba e atteggiamento apparentemente arcigno, ma in fondo era un buono, che con una rumorosa “cascia ‘nfernali” costruitagli dal padre falegname avanzava in modo irruento su tutti nel viso e nei gesti. Lo strano frastuono dei carici era prodotto da una linguetta inserita in ogni aggeggio, che avanzando sulla strada la faceva saltellare su una ruota dentata.
Una tale processione era assai seguita dalla popolazione e la si realizzava a quell’ora per dar modo ai lavoratori che andavano in campagna di parteciparvi anch’essi in massa. Curioso particolare. Se nella mattinata si dipanava la processione del Cristo morto, nelle ore vesperali invece si dava corso in cattedrale alle tre ore di agonia. Quindi, Cristo moriva e solo dopo penava in sofferenza. Nell’occasione si ascoltavano in primo piano i sermoni di un predicatore forestiero che dal pergamo si esibiva in tre turni. Restavamo stupiti di non vederlo durante gli intervalli. Che succedeva? Pensavamo che se ne andasse a bere qualche sorso di acqua o altro per rinforzare la voce e che poi regolarmente ritornasse al suo posto. Ma no! Si piegava in avanti in atto di pregare e scompariva del tutto alla vista. Il parapetto lo nascondeva e lo ridava quando necessario. Miracolo! Quando era l’ora eccolo riapparire di colpo. Il culmine, la chiamata, che si attendeva ansiosamente, si verificava quando alla fine il predicatore si rivolgeva con voce stentorea alla Madonna Addolorata con le espressioni Ecce Homo e Vieni o Maria, ecco Tuo figlio. Si finiva tutti in delirio.
E si è fatta l’ora della Pasqua. La domenica precedente detta delle Palme la benedizione dei rametti un tempo solo di ulivo dato che da noi le palme erano più che rare dava il via a una serie di rievocazioni. Era un simbolo di pace che, uscendo, si regalava a parenti ed amici. Ricorda l’entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme. Fino a mercoledì ogni sera dopo la recita del Rosario e la Benedizione si succedevano le cosiddette tenebre. Invece delle campane, bloccate a motivo che la Chiesa era in lutto per la morte del Cristo, in sostituzione si produceva una serie di rumori. Dato che si valutava lecito battere su ogni tavola che si trovavano da presso, i giovincelli erano invitati a nozze per cui si assisteva a un frastuono da non si dire. Riusciva invero un piacevole spasso. La costumanza rimembrava il terremoto verificatosi appena morto Gesù sulla croce. Il giovedì in cattedrale si svolgeva una pomposa cerimonia che culminava col bacio della croce. Il vescovo era assiso sul suo soglio e tre sacerdoti si ponevano sul pulpito e posteriormente ai due amboni e cantavano a turno le loro giaculatorie.
L’indomani, intorno alle ore 7 (da tempo è stata spostata alle ore pomeridiane) si procedeva alla processione del Cristo morto in una bara bianca coperta da un velo e con la Madonna Addolorata al seguito. Vi partecipavano i confratelli delle tre congreghe cittadine, di S. Giuseppe, dell’Abazia e dell’Oratorio, quindi una folla di salmodianti che offerivano commoventi canti in dialetto. Erano musiche e parole espresse veramente in tono alquanto lugubre che proprio immalinconivano: A lu chiantu di Maria Gesù s’affanna/Giuda ca lu tradìu non si lu storna/Gianni ca voli beni a la Madonna/subitamenti la nova nci porta etc. V’interveniva altresì la banda cittadina che eseguiva marce funebri, quasi sempre quella di Chopin. In testa a tutto il corteo facevano ala i numerosi ragazzotti che agitavano i carici (raganelle), le tocca tocca e le pitte producendo un fracasso indescrivibile. Inimitabile Grabeli Zindato, un ragazzone con pantaloni a mezza gamba e atteggiamento apparentemente arcigno, ma in fondo era un buono, che con una rumorosa “cascia ‘nfernali” costruitagli dal padre falegname avanzava in modo irruento su tutti nel viso e nei gesti. Lo strano frastuono dei carici era prodotto da una linguetta inserita in ogni aggeggio, che avanzando sulla strada la faceva saltellare su una ruota dentata.
Una tale processione era assai seguita dalla popolazione e la si realizzava a quell’ora per dar modo ai lavoratori che andavano in campagna di parteciparvi anch’essi in massa. Curioso particolare. Se nella mattinata si dipanava la processione del Cristo morto, nelle ore vesperali invece si dava corso in cattedrale alle tre ore di agonia. Quindi, Cristo moriva e solo dopo penava in sofferenza. Nell’occasione si ascoltavano in primo piano i sermoni di un predicatore forestiero che dal pergamo si esibiva in tre turni. Restavamo stupiti di non vederlo durante gli intervalli. Che succedeva? Pensavamo che se ne andasse a bere qualche sorso di acqua o altro per rinforzare la voce e che poi regolarmente ritornasse al suo posto. Ma no! Si piegava in avanti in atto di pregare e scompariva del tutto alla vista. Il parapetto lo nascondeva e lo ridava quando necessario. Miracolo! Quando era l’ora eccolo riapparire di colpo. Il culmine, la chiamata, che si attendeva ansiosamente, si verificava quando alla fine il predicatore si rivolgeva con voce stentorea alla Madonna Addolorata con le espressioni Ecce Homo e Vieni o Maria, ecco Tuo figlio. Si finiva tutti in delirio.
Ulteriori peculiari azioni del periodo pasquale consistevano nella visita ai vari sepolcri che venivano apparati nelle singole chiese e nella preparazione di piantine che dovevano adornarli. Fare il giro dei sepolcri è diventato sinonimo di reiterati spostamenti di individui che vogliono andare ovunque magari senza alcun intento preciso. Per quanto attiene al secondo caso si trattava di germogli nati in vaso, scodella o piatto da semi di grano e cereali vari messi a svilupparsi in oscurità. Il tutto sicuramente era in relazione all’orto del Getsemani, luogo dove Gesù ha trascorso la notte prima dell’entrata trionfale a Gerusalemme. Detti germogli dappertutto denominati granicelli e altri nomi similari, in Campania e Calabria sono detti sepolcri, come d’altronde tutto l’apparato, ma anche ranu.
Per far sì che le nostre nonne, mamme e zie godessero appieno della solenne funzione del venerdì santo il peso ricadeva su noi piccoli che eravamo costretti a recapitare per loro le sedie da casa. A parte che non ce ne fossero abbastanza, il sacrestano mastro Santo Vadalà e moglie conosciuta come ‘a cuttunàra, che ne tenevano alcune incatenate in un cantuccio, per il loro noleggio pretendevano dei soldini, che allora si prefiguravano scarsi. Detta signora non le mollava senza che si fosse pagato anticipatamente il pedaggio. A un certo momento potevi osservare per l’ampia piazza un viavai di seggiole nobili e meno nobili che si muovevano nelle pose più varie inverso la cattedrale. Il sabato si scioglievano le campane, legate durante la settimana santa e si dava vita alla fine del mattino, in sul mezzogiorno, a uno scampanio festoso e continuato. Suonavano a distesa tutte le campane del paese. Dicevamo che calàva ‘a grolia (gloria). Nell’occasione la cotraranza che faceva? Festeggiava a modo suo causando un rumore indiavolato, che otteneva lanciando pietre su materiali di latta o sulle pareti delle numerose baracche. Immaginarsi l’ira e i lanci d’improperi dei poveri abitatori. La Domenica di Pasqua il lutto era già esaurito e il vescovo con i sacerdoti poteva dar via alla celebrazione di un imponente Pontificale. Il giorno dopo poi, ricorreva la Pascarella e le famiglie o gruppi di amici potevano divertirsi a modo loro con una bella e sostanziosa scampagnata. I dolci consueti, le taralle, erano preparate in famiglia, con in primo piano il classico pappagallo per i maschietti e il panareju per le femminucce. Al centro di entrambi troneggiava un uovo bollito col guscio.
Conseguenziale alle festività pasquali era la benedizione delle case. Il parroco accompagnato da alcuni ragazzetti che recavano gli appositi attrezzi, faceva il giro delle case e, dopo aver letto un rituale, impartiva la benedizione alle famiglie ed alle case da loro abitate. Si rivelava certamente un’occasione per rinverdire le già acquisite conoscenze e per allacciarne di eventuali nuove. Non mi risulta che tale rito, che si collega al ricordo della liberazione degli Ebrei dal giogo egiziano, sia ancora presente nelle nostre zone. Almeno io non ne noto tracce da molto tempo .
Per far sì che le nostre nonne, mamme e zie godessero appieno della solenne funzione del venerdì santo il peso ricadeva su noi piccoli che eravamo costretti a recapitare per loro le sedie da casa. A parte che non ce ne fossero abbastanza, il sacrestano mastro Santo Vadalà e moglie conosciuta come ‘a cuttunàra, che ne tenevano alcune incatenate in un cantuccio, per il loro noleggio pretendevano dei soldini, che allora si prefiguravano scarsi. Detta signora non le mollava senza che si fosse pagato anticipatamente il pedaggio. A un certo momento potevi osservare per l’ampia piazza un viavai di seggiole nobili e meno nobili che si muovevano nelle pose più varie inverso la cattedrale. Il sabato si scioglievano le campane, legate durante la settimana santa e si dava vita alla fine del mattino, in sul mezzogiorno, a uno scampanio festoso e continuato. Suonavano a distesa tutte le campane del paese. Dicevamo che calàva ‘a grolia (gloria). Nell’occasione la cotraranza che faceva? Festeggiava a modo suo causando un rumore indiavolato, che otteneva lanciando pietre su materiali di latta o sulle pareti delle numerose baracche. Immaginarsi l’ira e i lanci d’improperi dei poveri abitatori. La Domenica di Pasqua il lutto era già esaurito e il vescovo con i sacerdoti poteva dar via alla celebrazione di un imponente Pontificale. Il giorno dopo poi, ricorreva la Pascarella e le famiglie o gruppi di amici potevano divertirsi a modo loro con una bella e sostanziosa scampagnata. I dolci consueti, le taralle, erano preparate in famiglia, con in primo piano il classico pappagallo per i maschietti e il panareju per le femminucce. Al centro di entrambi troneggiava un uovo bollito col guscio.
Conseguenziale alle festività pasquali era la benedizione delle case. Il parroco accompagnato da alcuni ragazzetti che recavano gli appositi attrezzi, faceva il giro delle case e, dopo aver letto un rituale, impartiva la benedizione alle famiglie ed alle case da loro abitate. Si rivelava certamente un’occasione per rinverdire le già acquisite conoscenze e per allacciarne di eventuali nuove. Non mi risulta che tale rito, che si collega al ricordo della liberazione degli Ebrei dal giogo egiziano, sia ancora presente nelle nostre zone. Almeno io non ne noto tracce da molto tempo .
Rocco Liberti