Su quello che fu un vero e proprio faro di civiltà solidale per l’intera Piana di Gioia Tauro ecco un’ altra ricchissima pagina inedita di Rocco Liberti, sicuramente irrinunciabile dopo quella dedicata al Salone della Cattedrale di Oppido. Ancora una volta il rigore del racconto storico, senza alcuna approssimazione, è coniugato sapientemente con echi, suggestioni e ricordi personali che ne arricchiscono e vivificano il contenuto. Un altro regalo di grande pregio dello Storico e Scrittore non solo alla sua città, ma all’intero contesto aspromontano, per tanto tempo dileggiato e disprezzato dai media nazionali, per tanto tempo invece baluardo esemplare di civiltà e di socialità contro la barbarie generalizzata. Strutture a quei tempi quasi impensabili, come l’ospedale, gli enti di accoglienza per piccoli, orfani e anziani, il seminario, continuavano a perseguire nei secoli XIX e XX nella rinata Città Mamertina la strada della civiltà faticosamente e testardamente aperta dagli avi della città distrutta dal terremoto del 1783 e, nel medesimo tempo, additavano, almeno all’intero territorio della Calabria meridionale, quella via del progresso che purtroppo presto è stata smarrita, come sembra voler sottintedere con amarezza Rocco Liberti, cui va la corale gratitudine per questi ricordi ed esempi che non dobbiamo assolutamente smarrire ( Bruno Demasi)
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Nella Oppido ricca di popolo e strutture sociali nel XIX secolo non c’era soltanto il Seminario a istruire ed educare la popolazione. Ci avevano pensato per tempo persone di alto sentire che, con le loro idee e propri beni avevano dato vita a tanti percorsi. Del resto, la città rinata al piano della Tuba si trascinava dietro l’eco delle istituzioni del passato, tre conventi di frati e uno di suore, l’Accademia Mariana del Perrimezzi, l’ospitale di Santa Caterina, il monte di pietà e quello frumentario voluto dal Mandarani, il monte dei giovani avviato da Lorenzo Amato Grillo Caracciolo a pro della gioventù studiosa e probabilmente di altre, delle quali non si è tramandata traccia documentale.
Il patrimonio dell’ospitale della vecchia Oppido è pervenuto perlopiù intatto dopo il grande flagello, ma un ospedale vero e proprio è stato costituito nel 1848 con quanto ottenuto dal lascito del gentiluomo con interessi a Oppido Antonio Mazzitelli per accorta iniziativa del vescovo Coppola.
Anche per l’Asilo Infantile gli Oppidesi sono debitori a un vescovo, Antonio Maria Curcio e ad un sacerdote, Domenico Marino Zuco. Originato nel 1895 e sistemato in uno stabile appositamente acquistato, era guidato dalle Suore di Carità. Affidato all’ECA, ha chiuso i battenti negli aa. 60 del trascorso secolo, quando, eretta una scuola materna statale, è stato soppiantato da quest’ultima. L’Asilo è riuscito un ottimo veicolo d’istruzione ed educazione per gli Oppidesi. Di tante suore che si sono succedute ne ricordo particolarmente una, Suor Albina, che ha agito lungamente. Anch’io quasi in sullo scadere degli a. 30 ho frequentato l’istituto e ho ben impresse memorie sulla disposizione delle stanze, del cortile e del teatrino dove si offrivano recite per la cittadinanza ed autorità varie che accorrevano con dovere e piacere.
Non sopportavo per niente l’odore che emanavano le fave bollite e all’asilo se ne davano spesso. Il disgusto superava ogni limite, tanto da farmi stare male, per cui, eludendo la sorveglianza, a un bel momento mi son fatto coraggio e ho preso la via di casa. Immaginarsi i miei familiari quando mi hanno visto arrivare non so se baldanzosamente o mogio mogio. Fatto sta che d’allora il controllo si è più che raddoppiato. Nei locali dell’asilo, debitamente riadattati, oggi funzionano l’istituto per il sostentamento del clero e, almeno di nome, altri uffici.
L’Orfanotrofio delle fanciulle, così detto inizialmente, in seguito Orfanotrofio Femminile, è nato da un testamento del 1904 della nobildonna Maria Anna Germanò detta “‘a figghiola” altresì in età matura per via che il suo comportamento era quello di una bambina. Allogato nel palazzo avito, appresso ha usufruito di altro più capiente e moderno unito allo stesso. Negli accoglienti locali hanno presto trovato ricetto e conforto ragazze orfane di un genitore viventi nel territorio comunale. Le Suore di Carità, che vi erano proposte, impartivano loro una buona istruzione e le ammaestravano per come potevano nelle indispensabili arti muliebri, come cucito, ricamo ecc. Ce n’erano in buon numero e spesso venivano condotte a passeggio attraverso il paese. Il percorso era sempre identico.
Se ne partivano dalla via Seminario oggi Germanò e scendevano lungo la via Curcio. Ce ne accorgevamo quando attraversavano la strada accosto alla piazza col Monumento ai Caduti. Allorché la gente avvertiva il loro passaggio serpeggiava tra gli astanti quasi un senso di pietà per la perdita di uno dei genitori di ognuna di loro. A quei grami tempi, quando a portare soldi a casa era a malapena uno dei coniugi, l’accoglienza in Orfanotrofio di una delle figlie sollevava la famiglia da un grave peso. Alquanta tristezza ti coglieva quando osservavi il loro vestiario. Si trattava di una divisa non certo fine e tutta d’un colore che offriva poco all’immaginazione. L’istituto ha avuto vita fino a che ci sono state orfanelle da accogliere e sostanze per mantenerle. Negli anni ’60 l’ente ha terminato il suo iter e al suo posto, dopo un breve passaggio con un’associazione reggina, è nato l’Ente Morale Famiglia Germanò, che, avvalendosi anche di quanto devoluto dal giudice Antonino Pignataro, ha ristrutturato il vecchio edificio e costruito altro più capiente di carattere sanitario.
Se le orfanelle al loro passare destavano un che di mestizia, non era così per i “previtoccioli”, che vedevi transitare sul medesimo tragitto. Chi erano i previtoccioli, che spregevolmente certe volte denominavamo con un brutto termine facilmente accostabile per il suono? Erano i seminaristi, gli allievi del Seminario, quindi i “piccoli preti”. Era uno spettacolo veramente piuttosto lugubre. Infagottati nelle loro lunghe zimarre ostentanti una pendente fascia nera e con un largo cappello calcato sul capo detto romano o saturno richiamavano subito la ragazzaglia che si trovava nei paraggi e il grido “passanu i previtoccioli” era di prammatica. Indossavano una divisa che non si attagliava in nessun modo a dei bambini. Tanto vero che quando è arrivato dall’Alta Italia il vescovo Raspini, una delle prime operazioni a cui ha provveduto è stata quella di eliminare le zimarre con l’appariscente cappello e sostituirle con dei vestitini di colore non esageratamente scuro e dei baschetti per il capo. Perché tante famiglie inviavano i figli al Seminario? Alcune certamente con la volontà di avere un giorno un figlio prete, ma altre per pura necessità non essendovi in loco scuole di grado superiore.
Una specie di scuola media, con l’egida dell’Enims è stata istituita in pieno periodo bellico, nel 1942 e i corsi si dispiegavano nell’immobile dove in estate operava la Colonia Italo-Balbo (oggi parte della costruzione, variamente mutata, è abitata dalla famiglia Freno, altra ospita un ambulatorio dell’ASL). Terminato il conflitto bellico è subentrata la Scuola Media Statale. Nel 1945-46 anche questa, che dipendeva da Palmi, è stata soppressa e per un anno ognuno si è cercata una diversa opportunità. Pochi, come me finito a Taurianova, sono andati in altri paesi, ma i più sono stati accolti in Seminario, dove sono stati istituiti regolari corsi. Diciamo che quello è stato un anno scolastico da dimenticare e non andiamo oltre! Abbiamo dovuto quasi tutti ripetere l’anno. Dei docenti della scuola media alcuni risultavano residenti in Oppido e appena laureati, come Sara Pignataro, altri non lo erano (Gerardo Carbone) e altri ancora provenivano da istituti eterogenei come l’Avviamento Agrario (Achille Menghi). Il prof. Macrì arrivava da Varapodio. Non c’erano libri di sorta. Chi aveva famiglia abbiente ne recava qualcuno sottratto a un antico canterano, ma per la maggior parte il contenuto delle materie, che poi dovevamo studiare a casa, ci veniva dettato giornalmente. Bisogna aggiungere che all’epoca pure i quaderni scarseggiavano e gli appunti si prendevano spesso e volentieri su altro tipo di taccuino.
Per i poveri e vecchi abbandonati è intervenuta con personali sostanze altra nobildonna, d. Beatrice Grillo, deceduta nel 1930, che ha fondato un Mendicicomio sul lato nord della via Curcio, esattamente sul luogo dove sorgono le case di De Pasquale e Scattarreggia e la strada che da via Curcio s’immette sul Corso Aspromonte. All’epoca quest’ultima arteria era nella mente di Dio perché all’intorno era campagna e c’era solo un vicolo che portava sulla strada che immette al fiume Rosso. Che è che non è, l’istituzione è finita rapidamente in malora, si dice per colpa di amministratori non troppo ligi o maldestri e il tutto, stante la rinuncia del vescovo che n’era amministratore e che si era ormai stancato di ricorrenti brogli, è caduto nelle mani della famiglia Buda di Tresilico. I vani dell’istituzione sono stati dati, forse in affitto, a famiglie che ne avevano bisogno e sostenere che sono finiti in malora si qualifica un eufemismo. Già negli a. 40 ricordo che vi abitava una napoletana che aveva parenti oppidesi, donna Vincenzina Feis. Quando il sindaco Mittica si è messo in testa di opporre all’angusta via Curcio una strada parallela più ampia ed estesa, che in definitiva ha congiunto maggiormente i nuclei di Oppido e Tresilico, il proprietario ha avuto l’agio di vendere il terreno spezzettandolo. È così che sono nate tutte le costruzioni, che ospitano in buona parte negozi e opifici industriali.
Rocco Liberti