domenica 16 febbraio 2025

LETTERA APERTA A CHI VUOL " FAR POESIA" ( di Ciccio Epifanio)

    Leggendo questa rivelatoria e liberatoria  “lettera” dialettale di Ciccio Epifanio, viene in mente il polverone letterario suscitato nel 1923 da Benedetto Croce quando pubblicò il provocatorio volumetto dal titolo “Poesia e non poesia”. In esso il grande filosofo meridionale tracciava lo spartiacque con cui classificare, secondo il metro dell’arte o della negazione dell’arte, la letteratura del secolo XIX, senza immaginare che esattamente dopo cento anni, ai nostri giorni appunto, bastasse cliccare una parola su uno degli innumerevoli siti che sfruttano le cosiddette intelligenze artificiali per ottenere ahimè nel giro di pochi secondi una “poesia” confezionata  sullo stesso tema  secondo le tue richieste e le tue preferenze : verso sciolto, rima, endecasillabo, ottonario, sonetto, ode, terzina e molto altro ancora... 

    E’ dunque  Ciccio Epifanio che con questa sua riflessione in versi ci sottolinea che lo studio di Croce rimane validissimo ancora oggi, anzi oggi più che mai, e non solo per il proliferare abnorme di “poeti” a tutti i livelli e a tutte le latitudini, ma anche perché si è di nuovo smarrita la vera cognizione della “poesia”, intesa sempre più come composizione letteraria stucchevole di parole messe insieme, sempre meno come esperienza stupita dell’universo nella sua variegata fenomenologia quotidiana. Poesia, vuole ribadirci l’autore di questa originale ballata dialettale, è tutto ciò che di più spontaneo, inatteso e stupefacente caratterizza la vita  e poeta è semplicemente colui che sa cogliere il moto segreto che tutto ciò che ci sorprende suscita dentro di noi e poi tradurlo in parole che lasciano un segno nell'anima.

    Innumerevoli critici letterari dopo Croce cercarono di percorrere il solco da lui tracciato per qualificare il significato e la portata di ciò che è poesia, molti ripetendone il pensiero, altri cercando di superarlo a seconda delle scuole cui appartenevano: se ci si addentra nella letteratura che in un secolo è fiorita sull’argomento, nelle sterminate pagine pubblicate a proposito o a sproposito su un tema tanto delicato , si rischia di rimanere invischiati nell’ovvio, nelle infinite classificazioni, negli aridi cataloghi che indicano poco o nulla, perché la poesia, quella vera, sfugge a ogni astratta valutazione, a ogni canone preconfezionato. 

   Non per nulla, secondo Ciccio Epifanio, la poesia è “arti e magaria”, è il moto dell’anima suscitato dai colori e dai suoni e dalla grandezza della natura, dalla voce di un lattante, da tutto ciò che di imprevedibile apre il cuore indurito dell’uomo e lo fa palpitare. Poesia è anche ammirazione per l’arte sublime che trovi in una terzina dantesca o nel pianto di chi sa tradurre in parole la tua sofferenza per la quale tu non trovi parole. Ma non è facile tradurre questo universo di sentimernti, di emozioni e di immagini nel linguaggio poetico: sono indispensabili arte, misura e pulizia nel lessico e nel verso, nel suono e nel ritmo, ma è necessario anche rispetto assoluto per il potere evocativo e pedagogico delle parole. E questa composizione ne è un chiarissimo esempio! (Bruno Demasi).


Ncè cu spiccica paroli
e cu spiccica capiji
ncè cu ‘a rima no’ nci coli
e cu ‘mbeci guarda ‘e stiji.
Ma pe fari poisia
nci voli arti e magaria.

Ora, pe’ veniri o’ puntu,
senza tanta gapparìa,
vi lu dicu e vi lu cuntu
chi vordiri poisia:
accussi,’ a Diu e no’ peju,
vi rifriscu u ceraveju.

Se ‘na matinata ‘i maju,
quandu zzumpanu li hjuri,
vui guardanduli a lu taju
sthracangiati di culuri,
se vi pigghja ‘a fantasia
chija certu è poisia.

Se ‘na notti i menz’agustu
quandu volanu li stiji
vi sentiti cchjù du giustu
arrizzari li capiji,
no nci voli profezia
mu si sapi ch’è poisia.

Se lu cori vostru ntinna,
quandu ncè ‘ nu criaturi
chi da’ mamma cerca ‘a minna
e diciti: “chistu è amuri!”
Non diciti ‘na bugia,
ma la pura poisia.

Se a lu voscu ammenza e’ fogghji,
quandu u tempu zagalija
chiju sonu chi si sciogghji
vi rifrisca e vi ricrija,
ora vui, sentiti a mmia,
chiju sonu è poisia.

Se lejendu o’ Fiorentinu
vui dill’arti soi divina
vi sentiti u cori chinu
quandu sciogghji la terzina,
se vi ‘mmaga l’armunia
è lu cantu d’a poisia.

Se di frunti a l’univerzu
vi sentiti ‘na ppenicchja
e di chiju celu perzu
volarrissivu na nticchja,
se vi juma ‘a fantasia
ncè ‘nu mari di poisia.

Perciò ddunca la poisia
esti comu chija cosa
undi u cori si ricrija
e la menti si riposa:
nuju oru o mercanzia
po’ pattari la poisia. 

 


P.S. 

Mu cunchjudu ‘stu cumandu
manca sulu n’atru accentu:
pe’ scriviri poetandu
nci vò gnagna e sentimentu.
Se no ncè, tu senti a mmia,
dassa stari la poisia!

Ciccio Epifanio

lunedì 10 febbraio 2025

UN TEUTONICO CALABRESE DI PASSAGGIO A OPPIDO, GERHARD ROHLFS (di Rocco Liberti)

     Come tutti i maestri, Gerhard Rohlfs ( Berlino-Lichterfelde 1892-Tubingen 1986) è stato maestro di semplicità disarmante per quanti hanno avuto la fortuna di conoscerlo nei suoi continui viaggi in quella che a ragione potrebbe essere definita la sua seconda patria, la Calabria, percorsa numerose volte da solo o accompagnato dalla figlia. A Oppido Mamertina, dove giunse più volte per confrontare le proprie appassionate ricerche col canonico Giuseppe Pignataro, ebbe anche la fortuna di conoscere tra gli altri il prof. Rocco Liberti, alla cui penna è affidato questo omaggio doveroso come a uno dei padri della glottologia moderna studiata e costruita pezzettino per pezzettino con metodi antichissimi quanto efficaci contattando la gente, a volte a dorso di mulo, porta per porta e raccogliendone religiosamente le testimonianze parlate: un metodo intramontabile, assai distante da certe ricerche estemporanee e di seconda mano che inondano sempre di più le librerie e i social. A Gerhard Rohlfs l’omaggio , ci si augura perpetuo, di noi Calabresi, e a Rocco Liberti l’ennesimo ringraziamento degli Oppidesi  sempre più grati per la generosa condivisione di questi ricordi. (Bruno Demasi)

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    Ho avuto l’opportunità d’incrociare il mio passo culturale con quello del grande dialettologo tedesco per puro caso forse nell’anno 1977. Stavo passeggiando con un collega inverso Tresilico, quando, da una macchina improvvisamente fermatasi, è venuto a scendere un uomo alto e imponente, che ha chiesto delle informazioni ad alcune persone che si ritrovavano a lato della strada. Allorquando dalle scarne frasi pronunziate con un accento straniero piuttosto aspro ho capito che quegli andava cercando mons. Pignataro, ho detto subito al mio accompagnatore: Deve sicuramente trattarsi del prof. Rohlfs, uno studioso di statura mondiale! Non mi sono sbagliato. Ci siamo avvicinati e ci siamo offerti di condurlo alla residenza di colui che così tanto gl’interessava, dove peraltro doveva esservi stato variamente. Sicuramente, tanto per cambiare, non ricordava il luogo preciso. Una volta appreso che la persona cercata al momento non si trovava in paese, è rimasto piuttosto esitante. Allora, su due piedi, senza porre tempo, abbiamo deciso di riceverlo in Comune, dove abbiamo avuto un riscontro del suo solito tipo, cioè una chiacchierata in merito ad alcune voci del vernacolo oppidese.

    Non ricordo bene se è stato allora, ma credo proprio di sì, che il prof. Rohlfs a casa mia, dove successivamente ci siamo portati, mi ha parlato del dizionario dei cognomi che aveva in preparazione. Gli ho fatto presente ch’era bene nel caso tener conto che molti cognomi erano bell’e costruiti intenzionalmente anche ai nostri tempi da coloro che li appioppavano ai trovatelli e non erano davvero pochi! Li per lì ha affermato candidamente di non averci pensato e, una volta che ho provveduto a inviargli miei lavori sull’imposizione dei soprannomi a Polistena e, per l’appunto “I figli di nessuno in Calabria”, così il 22 ottobre 1977 mi ringraziava soprattutto dalla sua ordinaria residenza di Tubingen, nella cui università aveva insegnato per tanti anni: «il vostro lavoro non solo è del massimo interesse, ma ha tutte le qualità di profonda e seria ricerca». Si rivelava, come il suo solito, parco di parole, ma essenziale. Per contraccambiare si faceva un dovere d’inviarmi copia con dedica del suo “Dizionario Toponomastico e Onomastico della Calabria”.

    Da quella prima occasione gli incontri si sono susseguiti. Il prof. Rohlfs è venuto a trovarmi a Oppido in vari frangenti. In uno di questi mia madre tutta allarmata mi ha avvisato che un pazzo era andato nella sua casa a chiedere di me entrando difilato dalla porta e spingendosi su per le scale interne, con lei che lo seguiva e gridava tutta spaventata: Chi siete? Cosa volete? senza ottenere chiarimenti di sorta. Sicuramente, informato malamente da qualcuno, cui si era rivolto e rammentando che quella prima volta era salito per delle scale (ma erano esterne), pensava di aver trovato il posto che cercava. Mi ha contattato poi in piazza, dove l’ho avvertito piuttosto agitato. I suoi arrivi presagivano sempre delle frettolose partenze. Un’altra volta il cielo lanciava fulmini e saette e pioveva a dirotto, quando te lo vedo comparire alla sede dell’AVIS guidato dall’ennesimo informatore. Proveniva da Santa Cristina e Piminoro, dove si era recato per rimpinguare il suo corredo di nomignoli. Ho pensato subito bene di condurlo a Messignadi, paese dove il soprannome è di casa più che in altri posti e dall’amico Michele Brancati, dove ci siamo rifugiati, il prof. Rohlfs e un suo assistente, dopo essersi rinfrancati con un bicchierino di liquore, hanno avuto modo di apprendere altri curiosi termini. Dopo il tempo strettamente necessario, mi son sentito in dovere di guidarlo fino all’uscita di Varapodio per immetterlo sulla via per Polistena, dove avrebbe dovuto pernottare e l’ho indirizzato all’amico Giovanni Russo. È stato questi particolarmente contento per l’inatteso incontro e il giorno dopo gli ha fatto rendere i dovuti onori in Municipio. Più in là, l’8 aprile ‘79, gli farà tenere una brillante relazione sul dialetto calabrese alla Biblioteca Comunale, da lui egregiamente diretta.

    Dopo quel primo scambio di corrispondenza, di cui ho inizialmente riferito, uno successivo si è verificato il 16 maggio 1978 in ringraziamento del mio estratto “Il culto della Vergine del Pilar”. Ma il 20 agosto il Professore m’inviava una cartolina da Noja nella “Spagna atlantica” con annuncio che sarebbe passato da Oppido “brevemente” il 2 ottobre e avrebbe avuto piacere d’incontrarsi col suo “amigo”, proprio alla spagnola. Appresso reiterava tra le date 31 agosto ’78 e 10 giugno ’79, sia per trattare di una breve prefazione al mio volume “Folklore di Calabria” che per chiedermi informazioni di carattere onomastico dialettale. Avvisandomi ancora il 6 settembre susseguente che il 24 dello stesso mese forse avrebbe fatto tappa a Oppido, riscontrava così l’invio del mio lavoro:

   «È una bella e simpatica sintesi del folklore calabrese, presentato senza pedanteria in un modo elegante e leggibile. Trovo nella raccolta, bene ordinata, molti proverbi e modi di dire, finora a me poco conosciuti».
  
     È seguìta alquanta sosta nel contatto epistolare. Il Prof. Rohlfs, che in precedenza mi aveva spedito due sue nuove opere, il "Dizionario dei cognomi e soprannomi”[1] e “Calabria e Salento-Saggi di storia linguistica”[2] non mancando d‘inserire quale dedica, come di consueto i suoi “memori ricordi”, mi ringraziava per la recensione fatta alla seconda, che pur mi aveva richiesto, come d’altronde per la prima, con data 5 dicembre 1980. Ancora alquanta tregua e di nuovo il 19 luglio 1983 un riscontro da Noja nella “Spagna cantabrica (in villeggiatura con mia figlia)”, col quale mi ringraziava per le condoglianze espressegli in morte della moglie, sua fida compagna per ben quattro volte nelle peregrinazioni in Calabria. Il 20 novembre ci siamo alfine incontrati a Reggio alla presentazione di un volume in suo onore materializzato dalla Deputazione di Storia Patria su proposta di Franco Mosino e contenente una serie di contributi che rendeva omaggio a “Gerhard Rohlfs nonagenario”. Tra tanta gente non mi ha riconosciuto - i 91 anni allora contati non erano una bagattella - ma al mio declinare le generalità è subito scattato: “ah! Oppido Mamertina!”. Prima del pranzo mi sono riavvicinato e ancora nella confusione non mi ha distinto. Allora al mio: “Oppido Mamertina!” ha risposto senza tentennamenti: “ah! Liberti!”. Così poi lucidamente mi ringraziava per la partecipazione alla silloge di studi linguistici in suo ossequio: «… per il Suo gentile contributo alla miscellanea in onore del nonagenario. Le dico i miei più vivi ringraziamenti. La bella raccolta di toponimi e cognomi è una preziosa aggiunta alle nostre conoscenze, dove non mancano interessanti novità».

   Di seguito le recensioni pubblicate sulle due opere del Rohlfs sul “Corriere di Reggio” rispettivamente il 10 novembre 1979 e 25 ottobre 1980.

  «Dopo la pubblicazione del “Nuovo Dizionario Dialettale” e del “Dizionario toponomastico e onomastico”, due grossi studi basilari sulla dialettologìa calabrese, il prof. Gerhard Rohlfs, amico della Calabria da più di 55 anni, presenta ora un ulteriore saggio del suo notevole impegno culturale, il “Dizionario dei Cognomi e dei Soprannomi”, invero un altro ponderoso lavoro, che, unito ai precedenti, rappresenta certamente un ampio e invidiabile “thesaurus lessicale”. 
 L’ennesima fatica dello studioso di Oltralpe, il quale ogni anno puntualmente fa la sua rapida apparizione fin in ogni più sperduto paesello per annotare, controllare antecedenti appunti ed anche per offrire un suo prezioso contributo a quanti amano ascoltare dalla sua viva voce i travagli storici di un dialetto pur sempre vivo malgrado gli attacchi portati dalla lingua nazionale, si suddivide in due sezioni. Nella prima sono compresi più di 15.000 cognomi tratti dalle fonti più varie, documenti e diplomi del tardo medioevo, registri parrocchiali e comunali, platee e pubblicazioni di ogni tipo. All’altra fanno invece capo i soprannomi, circa 10.000, che rappresentano un vero campionario dei nomignoli appioppati in Calabria sin da remote generazioni.

La nuova opera non va assolutamente considerata, come potrebbe a prima vista sembrare, alla stregua di una semplice raccolta di nomi e di ingiurie, peraltro già degna di lode, perché al suo autore, specialista di glottologìa romanza, di lingua e letteratura italiana, francese e spagnola, vanno riconosciuti ben altri meriti, che sono arcinoti a chi si occupa di dialettologìa calabrese. Tra l’altro, l’esimio studioso, oltre che presentare ogni nome nella sua diffusione locale, ne viene a spiegare l’origine, accennando, per quanto possibile, anche al suo eventuale cammino storico.

L’odierno dizionario, nel quale si ripropone con maggiore forza la teoria cara al Rohlfs sul dualismo tra Calabria greca e Calabria latina, due territori ormai ben riconosciuti e delimitati, riuscirà senza dubbio, ne siamo certi, di notevole utilità a tutti, ma si rivelerà particolarmente indispensabile agli studiosi, per i quali sarà un manuale di sempre frequente consultazione ed un continuo stimolo ad un’ulteriore e più completa ricerca”.

“Calabria e Salento”, che documenta appieno l’interesse del Rohlfs per la regione calabra e parte di quella pugliese, non è, come potrebbe apparire, un nuovo saggio di ricerca dialettale, ma, fatto assai più importante, si rivela quale una raccolta, in cui sono presenti, aggiornati ed ampliati, tutti quegli articoli che, pur occupandosi della stessa materia, si trovavano dispersi in opuscoli e riviste, risultando, quindi, di difficile reperimento.

Nel primo capitolo, dal titolo La Magna Grecia (nunc deleta?), l’autore viene a ripresentare una sua nota teoria e, quindi, a riaffermare che sia in Calabria come nel Salento le isole di grecismo ivi esistenti non hanno avuto la loro origine dal bizantinismo, bensì dai tempi gloriosi della Magna Grecia. A romanizzazione imperante, il popolo, vinto e sottomesso dalle armi, aborrì di parlare la favella dei vincitori, assai inferiore alla sua e continuò a servirsi di questa in barba ad ogni imposizione. I greci di Bisanzio, tutt’al più, poterono apportarvi nuova linfa e permetterne così una maggiore resistenza all’imbarbarimento. Una tale tesi, che trova la sua completezza nel capitolo successivo, Dalla Magna Grecia a Bisanzio, malgrado vari oppositori, è ancora sostenibile ed il Rohlfs offre in proposito una miriade d’illuminanti esempi.

Proseguendo nella trattazione, ripropone un’altra sua pur valida opinione, che è quella dell’esistenza di due Calabrie, la latina, che corrisponde pressappoco all’odierna provincia di Cosenza e la greca, che si configura nelle restanti circoscrizioni. A tal riguardo egli si fa forte dell’antagonismo rivelato dal linguaggio parlato nonché dei numerosi toponimi e viene a dimostrare come una barriera linguistica insormontabile divida le due predette zone.


Anche per il Salento dialettale il Rohlfs manifesta le stesse attenzioni avute per la Calabria. La parte linguistica propriamente detta del volume ha termine con un saggio sull’origine e formazione dei cognomi nell’estremo mezzogiorno d’Italia, ma l’opera si completa con un interessante lavoro imperniato sul remoto giuoco degli astragali, che risulta comune a Grecia, Calabria e Salento e ch’è una variante primordiale di quello dei dadi. Un tale passatempo non fa che confermare ancora come Calabresi, Salentini e Greci siano accomunati da una medesima scaturigine e, quindi, dar piena ragione allo studioso tedesco».

   Gerhard Rohlfs, il grande studioso cui nel 1968 il Comune di Bova ha concesso la cittadinanza onoraria (Candidoni lo farà nel 1979) e l’Università della Calabria la laurea honoris causa nel 1981, ha avuto contro un altro talento della dialettologìa, il calabrese Giovanni Alessio, che sosteneva le tesi opposte.

    Un vivo plauso merita per gli ultimi tempi l’amministrazione comunale di Badolato, che, unica, ha pensato bene di onorare l’illustre personaggio dedicandogli il 14 luglio 2002, a 110 anni dalla nascita, una piazza. Nella relativa lapide, ove figura così gran nome, è stata aggiunta l’indovinatissima espressione “Il più calabrese dei figli di Germania”. Alla cerimonia erano presenti, oltre a tanti studiosi, i di lui figli Ellen ed Eckart. A Rohlfs risulta intestata anche un’associazione culturale di Catanzaro, fondata dal poeta Achille Curcio, che si propone giustamente il recupero del dialetto e dei testi dialettali. Il 2 maggio 2016 gli è stato infine intitolato il Museo Civico della Lingua Greco-Calabra di Bova, paese prettamente grecanico dove spesso si è ritrovato a conversare con la sua gente. Opportunamente una sala dello stesso è stata dedicata allo studioso Franco Mosino (1932-2015), storico, grecista e folklorista d’impegno, che amava autodefinirsi “filelleno” e all’istituzione ha donato la sua biblioteca e materiale di natura folkorica. Anche da parte del Rohlfs sono pervenuti a Bova interessanti reperti offerti dal figlio Eckart.

Rocco Liberti 

* Alcuni contenuti di questo studio sono apparsi in altra veste in “Calabria Letteraria”, LIII (2005), nn. 7-8-9, pp. 123-125.
[1] Longo editore, Ravenna 1979; in essa aveva tenuto ad inserire il lavoro sui figli di nessuno nella bibliografia della provincia di Reggio Cal. con l’espressione Riguarda l’onomastica dei neonati esposti in zona di Oppido con interessanti ed abbondanti esempi ordinati secondo alcune categorie.
[2] Longo editore, Ravenna 1980.


venerdì 7 febbraio 2025

“CHIJU CHI CUNTA” E’ ANCHE LA POESIA DEL SUD ( Di Bruno Demasi)

    Vede la luce in questi giorni con il titolo “Chiju chi cunta” per i tipi della DBE, dinamica casa editrice meridionale diretta con grande entusiasmo da Remo Barbaro, un bel volume di liriche prevalentemente vernacole di Maria  Teresa Iaria che arricchisce significativamente il nostro patrimonio linguistico e letterario calabrese.
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     C’è una lirica grondante rimpianto in questa snella, ma ricca raccolta che comprende idealmente quasi tutte le altre: ‘U faddàli ‘i me’ nonna che ha almeno due valenze nascoste: ti rimanda al tempo perduto della semplicità, in cui tutto il superfluo, peraltro inesistente, lasciava spazio ai beni veri, e sintetizza tutte le altre dimensioni liriche che hanno dato e danno a queste composizioni eterogenee unitarietà, quasi fossero tutte racchiuse in quel mistero di calore umano e di affetti che era il faddàle, la risorsa segreta di ogni donna del passato per offrire pace e consolazione ai più piccoli, ma non di rado anche ai grandi: 

… Cu iju ‘a nonna ‘i lacrimi sciucava
di’ niputeji ‘ u chiantu cunsulava


    Sembra ancora di vederlo quel faddàle , quel grembiule, che per molte donne aspromontane era l’unica ricchezza e l’unico emblema di una femminilità ancestrale, che tutto sapeva capire e coprire, spiegare e tradurre in gesti e azioni sempre volte al bene di chi stava intorno.


     Sono fermamente convinto sia lo stesso spirito con cui Maria Teresa Iaria dà oggi alle stampe questa bella silloge di gesti e di azioni senza tempo tradotte in parole poetiche e in suggestioni che, messe insieme, ridanno vita a quadri paesani e non paesani non aridamente inventati , ma assortiti con la spontaneità di chi vuol far rivivere situazioni perdute senza faticose ricerche di rima o di metro, ma col gioco lieve delle assonanze che restituiscono musicalità e dignità ad ogni contenuto lirico. E’ come se l’Autrice rinunciasse a ogni magniloquenza per suggerire ricordi e situazioni che parlano al cuore di chi legge lasciandogli intatta la libertà di ricordare e di rimpiangere al di fuori di schemi precostituiti:

Ieu restu ccà, mi saziu di restanza
e penzu o’ suli da’ me’ cotraranza…


     Rivivono in questa dimensione i bozzetti dedicati a Oppido nuovo e antico, ai suoi fasti e alle sue ferite profonde, ma anche all’ intero Aspromonte:
 
Cu ‘nu signu di cruci lu Signuri
Cangiau li petri in pani per amuri…



    E rivivono ancora in questi versi vernacoli, fluidamente adattati, i grandi misteri della fede cristiana che per secoli hanno alimentato il coraggio antico sulle difficili balze aspromontane: L’Addolurata; ‘A Nunziata; Ecce ancilla Domini; E vinni Maria; Resurrezione; Fujiti fujiti; ‘A Patruna ‘mbavagliata; ‘A Madonna no’ nescìu; Preghiera a’ Nunziata; ‘ A parabula du’ ficu : un rosario di certezze, forse in parte smarrite, e di antiche e nuove emozioni che Teresa Iaria chiama a rivivere col linguaggio dei padri attentamente ricercato e valorizzato perché a sua volta diventi viatico per un presente sempre più privo di risorse e di bellezza.

     A volte il verso diventa descrittivo e didascalico nella dimensione della semplicità del racconto quotidiano ( Pasta c’a liva; L’acqua, U cafè; ‘A putijha ‘i ‘na vota, U vizzari;’ A vecchia patenti; U panaru d’i morti; Ospitalità; Auguriji ‘i bon annu, Amurusanza), ma spesso sa tingersi anche di colori accesi quando vuole rendere sentimenti più forti di ribellione o di sdegno ( Teniti ‘o toi; No’ ndi potimu chhiù) e raggiunge echi straordinari di rimpianto nel tratteggio di alcune emblematiche figure mamertine irrimediabilmente perdute ( ‘U medicu; Melu ‘u spazzinu ).

      Un verso fluido, solo apparentemente minimale, che sa cimentarsi con orgoglio nella difficile traduzione in vernacolo da Shakespeare ( ‘Nu sonettu pe’ l’amuri), nella restituzione dialettale di grandi temi di cronaca ( ‘A catradali ‘i Notre- Dame; Catradali e foresti di fumu ) , ma anche nell’esercizio della lirica pura o dell’immaginazione ( Segretu amuri”; Quando moru nc’icu tuttu o’ Signuri) senza riununciare mai a trarre delle considerazioni che, come in Nustalgia , sanno subito far lievitare l’emozione e la condivisione di chi legge:

…Puru chi ‘u tempu passa
E tuttu è cchiù luntanu
Chiju penzeru ‘ntassa
E ‘u teni ‘nta ‘na manu…


     Tutte liriche da centellinare con calma, cercando di gustare le atmosfere che esse evocano: faresti un errore tu che leggi a visionarle di fretta ed archiviarle aridamente nella tua memoria perché è proprio alla tua memoria vigile del tempo vissuto che esse si rivolgono con umiltà e calore , ricordandoti quando
… ja vita era nda ‘nu metru quatratu,
ora faci parti tuttu d’u passatu..

Bruno Demasi

martedì 4 febbraio 2025

SANT'AGATA (HAGIA AGATHE) , OPPIDO E LE FERITE DEL 5 FEBBRAIO (di Bruno Demasi)



Un appello per ricordare a Oppido e diocesi il  loro culto antichissimo e dimenticato della martire siciliana

 
   A 242 anni dal fatidico 5 febbraio 1783, drammatico spartiacque cronologico tra i fasti dell'antica città mamertina e la faticosa ricostruzione ( mai terminata) non solo di muri e strade e case, ma soprattutto di quell'unità sociale e civile e forse anche religiosa ancora oggi effimera, occorre dedicare almeno un momento di riflessione sul perchè di tante coincidenze, non ultima quella tra la data del terremoto e quella della festa antichissima della martire siciliana che, da tempo immemorabile, si celebra proprio ogni 5 di febbraio. 

     Un fatto è certo: Sant'Agata, sebbene se ne sia quasi dimenticato anche il nome, ha legato indissolubilmente il suo culto alla Piana di Gioia Tauro e a quella città che di gran parte della Piana stessa è stata a lungo in evo bizantino capostipite e faro. Storiograficamente sembra proprio che per il territorio della cosiddetta Tourma delle Saline la linea di demarcazione tra un’età nebulosa e priva di connotati chiari e una fioritura economica e sociale non indifferente sia il declino dell’anno Mille e l’inizio dell’ XI secolo. La situazione geostorica del meridione della Penisola in questi anni presenta tuttavia diverse realtà politiche in perenne conflitto tra loro: i Musulmani padroni di gran parte della Sicilia, desiderosi di espandersi in Calabria e in Campania; i Longobardi di Capua, Salerno e Benevento ; i Bizantini che governano mediante un “catepano” gran parte delle odierne Calabria, Basilicata e Puglia e celebrano i loro fastosi riti nell'odierna zona di Seminara. 

    Su questo quadro si innesta all’interno del cosiddetto Tema di Calabria quella che con parecchie semplificazioni viene definita Tourma ( o "Valle") delle Saline da quando Andrè Guillou nel 1972 ha pubblicato 47 pergamene greche riguardanti altrettante donazioni al vescovo di Sant'Agata (Hagia Hagathè - Oppidum) verosimilmente responsabile della tourma stessa ,articolata, a sua volta, secondo l’uso amministrativo bizantino, in Drungoi, tra i  quali, appare nei documenti pubblicati dal Guillou (gli unici sinora conosciuti) quello di Boutzanon (località verosimilmente coincidente grosso modo con l’attuale Castellace), centro non solo rurale, ma anche amministrativo e “politico” di un territorio geograficamente importante, tanto da essere difeso da una torre di guardia con relativi annessi (pyrgos).

  Il Guillou sulla base dei documenti greci da lui attentamente analizzati, considerando anche la Cronaca di Goffredo Malaterra e non trascurando alcune tra le più autorevoli ricerche condotte da studiosi locali prima del 1970, delinea i confini della Tourma delle Saline identificandola prima con il bacino del fiume Petrace e, subito dopo, generalizzando forse un po’ troppo, con l’attuale piana di Gioia Tauro che, come si sa, per la sua estensione fino al monte Poro, oltre a comprendere orograficamente il bacino del Petrace, comprende almeno l’altro grande bacino del Mesima, che probabilmente sarebbe aleatorio inserire geograficamente nel territorio della tourma delle Saline propriamente detta.
    Tornando comunque su quest’ultima e sulla sua articolazione in drungoi , si nota con ogni evidenza negli atti greci di riferimento che all’incirca nel 1044 esisteva il kastron di Oppido ricostruito (dunque preesistente) e ripopolato e il Guillou, dopo una serie di congetture giocate su fonti locali o comunque della tradizione riguardanti la stratificazione nella stessa aurea non di due , ma di tre abitati in epoche diverse, preferisce fermarsi su un dato certo documentato nel 1044: una città fortificata bizantina costituita all’interno dello stesso territorio che aveva visto il fiorire di una città greca (Mamerto), poi quello di una fortificazione romana (Oppidum), infine uno alla cui theotokos era stato dato il nome di Hagia Agathè , Sant’Agata.

  
   I documenti pubblicati dal Guillou e le ricerche conseguenti non hanno ancora fornito i dati necessari per individuare con precisione la data di nascita dell'episcopato di Hagia Hagathè, ma ci consentono senz’altro di affermare che nel 1051 (data dell’atto che ne parla per primo) era già stato fondata la diocesi  di cui trattasi, la cui cattedrale era stata dedicata alla Théotokos, la Gran Madre di Dio, il titolo della Santa Vergine che i padri del Concilio di Efeso avevano voluto con forza. 

     Ma perché la denominazione della “nuova” città fortificata di Oppido “ Sant’Agata” ? Perchè la venerazione della martire catanese era fortemente legata a questa terra? Perchè il 5 febbraio, giorno del martirio della Santa, è diventato anche, storicamente, il giorno orribile del martirio di un'intera città, Oppidum, irrimediabilmente distrutta proprio  sul mezzogiorno di un 5 di febbraio ( 1783) da un sisma rovinoso e sconvolgente? 

     Sono tutte domande legittime e, almeno per il momento, prive di degne risposte sul piano storico-ecclesiale nonostante la miriade di cronache e di studi condotti. Possiamo però cercare di capire quanto e come il culto della martire catanese sia stato e sia ancora grande e diffuso, tanto da far pensare che chi fondò questa nuova città importantissima a livello amministrativo sulle colline aspromontane che dominano l'odierna Piana di Gioia Tauro abbia voluto in cuor suo porla sotto la protezione di una santa molto acclamata e venerata, per sottolinearne quasi non solo l'importanza strategica sul piano civile, ma anche quella di polo di evangelizzazione per una terra che ancora disconosceva in gran parte l'annuncio evangelico.
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     Il martirio di Sant’Agata, oltre a testimoniare come a Catania sicuramente dal III secolo esistesse una comunità cristiana , per l' immediata diffusione del suo culto dopo la sua morte, non solo in città, ma anche fuori dal territorio etneo ci riporta a qualcosa di straordinario. Si ricorda a tal proposito anche l’iscrizione rinvenuta ad Ustica (Palermo), databile alla fine del III secolo dove si accenna ad una persona morta "il giorno di Agata". Circa la diffusione immediata anche in oriente interessante è la testimonianza di Metodio, Vescovo di Olimpo in Licia, morto nel 311 che nella sua opera “Simposium” fa riferimento ad Agata presentando la sua vita come modello di vita cristiana.  La storia primitiva della chiesa di Catania registra al tempo della persecuzione di Decio nel 251 il martirio della vergine Agata. La martire viene non a caso segnata nel martirologio geronimiano e nel sinassario costantinopolitano e la sua fama diviene presto vastissima, tanto che già nel V secolo si erigono chiese in suo onore in Roma oltre che in tutta la Sicilia e in tutto il Meridione d' Italia...


  Un rapido excursus sulla diffusione del culto di Sant'Agata ci fa scoprire che in Italia la martire è patrona di 44 comuni, dei quali 14 portano il suo nome. Il titolo più antico di patrona lo detiene Catania. Qui la devozione è ovviamente più profondamente radicata e il nome di Agata, invocato a gran voce, implorato, glo­rificato, riecheggia quasi sempre nella storia della città. All'estero sant'Agata è compatrona della Repubblica di San Marino e di Rabat, a Malta, dove una tradizione locale vuo­le che Agata si fosse rifugiata durante le per­secuzioni di Decio. In Spagna Agata è la patrona di Villalba del Alcor, in Andalusia, dove esiste un simulacro ri­vestito di preziosi broccati. Sant'Agata è ve­nerata anche a Jeria, in provincia di Valencia, mentre a Barcellona le è stata dedicata la cap­pella del Palazzo reale, dove i re cattolici rice­vettero Cristoforo Colombo di ritorno dalla scoperta dell'America. In Portogallo sant'Agata (in portoghese Agueda) è patrona di una cittadina che porta il suo nome, nella provincia di Coim­bra. In Germania è patrona di Aschaffemburg. In Francia molte sono le località sotto il pa­tronato di Agata: a Le Fournet, una città im­mersa nei boschi della Normandia, nel cui stemma cittadino, in onore della santa, sono raffi­gurate la palma, simbolo del martirio, e la te­naglia, strumento con cui venne torturata. In Grecia molte località portano il nome di Aga­ta e la santa si invoca per scongiurare i pericoli delle tempeste. In Argentina, dove è la protettrice dei vigili del fuoco, le è stata dedicata la cattedrale di Buenos Aires. In diversi altri punti del piane­ta ci sono luoghi di venerazione agatini, persino in America, dove esistono una Sainte Agathe des Monts nel Québec e una Sainte Agathe en Monitoba presso Winnipeg, in Canada. Ma an­che in India, a Viayawala, c'è un santuario a lei dedicato.
 
    Stabilire comunque in modo esatto quanti sono in tutto il mon­do i luoghi di culto e i devoti di sant'Agata è un'impresa forse impossibile. A noi bastano però queste scarne notizie non certo per riempirci di stupido orgoglio se la nostra città primigenia era dedicata a questa Santa, ma per sentirci forse meno provinciali e un po' di più segmento di una cristianità amplissima che si sforza realmente di annunciare il Vangelo con la vita, come forse avveniva su queste terre già più di un millennio fa, come sicuramente non sempre avviene oggi nel marasma  sociale e culturale in cui ormai viviamo.