Dopo le riuscitissime dodici puntate di “Mémoires mamertine”, qui via via pubblicate e successivamente riunite in un agile e pregiato volume col medesimo titolo, già presentato e offerto da Rocco Liberti al vasto pubblico di amici e di estimatori il 9 dicembre scorso in occasione del suo novantesimo compleanno, l’Autore completa adesso con questa pagina una breve antologia in quattro parti di cronache paesane di prima mano. Sono cronache da lui direttamente registrate, dunque doppiamente preziose perché poi narrate con quel rigore storico al quale egli non rinuncia mai in tutte le sue ormai sterminate pubblicazioni. Stavolta è di scena l’arrivo anche a Oppido, e nemmeno tanto in ritardo rispetto ad altri centri maggiori, di una ventata di progresso che veniva a scompaginare inesorabilmente quell’ingenuo modo di vivere ancorato al passato che dà il titolo a questa quadrilogia: il tempo dei “canonici ‘i lignu” quando tutto sembrava inesorabilmente fermo e statico. Ecco l’apparire della radio e poi del primo televisore e delle automobili, emblemi di un modo di vivere nuovo che per un certo tempo però convive con le consuetudini sociali del passato ancora tenaci: dalla presenza del banditore all’uso dei quadrupedi nei trasporti e negli spostamenti. Ne nascono quadretti originalissimi improntati ad un elevato livello di socializzazione che si sviluppa per le strade e le piazze del paese, ma che presto lascerà il posto a quell’ottuso individualismo che adesso, insieme al pauroso calo demografico, è il male peggiore dei nostri paesi e sul quale l’Autore pone con grande rammarico il suo accento.
Un ringraziamento vivissimo per questa ennesima pagina struggente di cronache oppidesi e l’auspicio che questo web-log possa ancora a lungo onorarsi di ospitare altre preziose pagine di Rocco Liberti. (Bruno Demasi)
Un ringraziamento vivissimo per questa ennesima pagina struggente di cronache oppidesi e l’auspicio che questo web-log possa ancora a lungo onorarsi di ospitare altre preziose pagine di Rocco Liberti. (Bruno Demasi)
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E torniamo al senatore Cassiani e al suo telefono di notte! Come sono cambiati i tempi! Oggi, dovunque ci troviamo, non sentiamo altro che squilli e non ci meravigliamo più di tanto, anzi ne vogliamo sempre di più. Tramandava mia madre che negli anni venti, quando l’ing. Ferraris ha portato in Oppido il primo apparecchio radio la gente vi si riversava in massa e la voce corrente piena di stupore si offriva: Cummari, ‘mu si dici e ‘mu si cunta! Pàrranu a Roma e si senti a Oppitu! A breve distanza di tempo un secondo l’ha fatto arrivare il Bar Liberti e a poco a poco varie famiglie se ne sono via via dotate. Ma non tantissime. Per la gran parte contadini, gli abitanti pervenivano a casa a sera dopo un giornata di indefesso lavoro e avevano altro da fare che ascoltare la nuova diavoleria. Peraltro, non c’era nemmeno la vocazione a proposito. Di radio si sono provvisti via via i circoli e gli artigiani che tenevano bottega. Ricordo soprattutto il sarto Pìstoni che negli assolati pomeriggi la faceva cantare a tutto spiano con delizia, non sappiamo quanto, dei vicini. Ho ancora nella testa quell’ossessionante ritornello di Zazà zazà, cumpagnia mia. A un bel momento c’è stato il siparietto per gli alunni delle scuole e i maestri come Meligrana ci esortavano a seguire l’apposita trasmissione nelle ore stabilite per poi riferire in apposito compito scritto. Chi non aveva alcun apparecchio si portava a casa di chi n’era dotato e si qualificava quindi ennesima occasione di socializzazione.
Diversamente è avvenuto con la televisione, ma i tempi erano ormai anni luce lontani da quelli del primo novecento. Un iniziale televisore è stato offerto alla visione dal rivenditore Graziano Gatto, originario di Varapodio. A sera diventava un vero appuntamento soffermarci sulla strada di fronte e fissare incantati quella scatola luminosa che irretiva l’attenzione. Poco tempo dopo vi si è aggiunto altro esercente, Francesco Liberti e pian piano una sparuta schiera di quanti si potevano permettere di spendere soldi per un simile svago. Molto frequentata la sede della POA. Ch’è successo di conseguenza? Che in tanti, alla sera, ci portavamo da parenti od amici onde poterne usufruire, soprattutto al giovedì e al sabato. Era il tempo del Musichiere e di Lascia o Raddoppia, fortunate e calamitanti trasmissioni. Fin qui niente di male! Si usciva dalle case e si aveva modo di relazionare con amici e conoscenti. Tutto è cambiato con una proliferazione senza precedenti. Le persone sono pervenute a guardare la televisione a casa propria e addio alla vita in comune del passato. Chi s’è visto s’è visto. Ognuno si è rinserrato nel suo guscio e ha fatto a meno di una vita sociale.
Dopo la scuola al mattino, finito di pranzare, in tanti ragazzi ci si riversava a frotte quasi a un segnale e si giocava distinti in gruppi. A predominare era soprattutto il gioco con i soldi, se c’erano, diversamente con i bottoni strappandoli addirittura a camicie e giacche. Tra i giochi di tal genere predominavano ‘a singa o’ quatrettu o a bàttiri. Nel primo caso tutto consisteva nel tracciare per terra un tracciato dentro cui far arrivare la moneta o il bottone. Nell’altro uno lanciava la moneta sul muro, che subito ricadeva a una certa distanza. Un competitore agiva ugualmente cercando poi con la battuta di far ricadere la sua moneta il più possibile vicino a quella già a terra. Secondo una misura realizzata con un rametto inizialmente stabilita tra l’una e l’altra il secondo otteneva la palma della vittoria e si prendeva lo spicciolo dell’antagonista. In successione l’azione si alternava. A lungo sono rimaste su una parete tinteggiata della casa di mia nonna le miriadi d’impronte di monete a varia misura prodotte da un intenso batti e ribatti giornaliero. Meno male che una buona cerchia di giovincelli veniva avviata dai genitori a un doposcuola privato o al mastro. In tanti difatti frequentavano le botteghe degli artigiani, il sarto, il falegname, il forgiaro, dove si comportavano, come si dice, con due piedi in una staffa. Il mastro sostituiva in pieno i genitori ed era temuto più che il genitore stesso. Gli allievi imparavano certamente il mestiere, ma era loro demandato anche qualche servizietto extra a pro della maìstra come andare ad attingere l’acqua alla fontana, acquistare qualcosa in un negozio, recare un’imbasciata. Sulla piazzetta si affacciavano i maistri Barca, maestre di telaio che contemporaneamente seguivano bambini in età scolare.
Nei nostri paesi ‘u vandiaturi non poteva proprio mancare. Senza di lui come fare per essere edotti di ciò che necessitava o di quanto avveniva nella comunità! Erede degli antichi araldi, a lui si poneva carico di tutto e per le vie di tanto in tanto, in genere in sul far della sera, lo sentivi urlare alternativamente quasi cantilenando. Era senzaltro il messaggero del Comune, ma all’occorrenza se ne servivano un po’ tutti. Se un tale smarriva qualche oggetto lui ne informava ai quattro venti, così se in un certo vicolo era stata appesa la frasca, vistoso segno atto a indicare che vi era stato aperto un locale provvisorio per la vendita di vino casaloro, ma pure per tantissimi altri motivi. Instancabile, toccava i punti più nevralgici offerendo il suo messaggio. Ma che succedeva? La gente non sempre era fuori ad ascoltare o non lo comprendeva appieno, per cui l’un l’altro a domandarsi cosa avesse annunciato (cummari, u sentistivu ‘u bandu, chi diciva?). Per lo smarrimento di un oggetto l’espressione era univoca e salmodiante: Cu’ vitti na gaìna (na chiavi, na tovagghia, o altre cose), ‘u ma porta ndi mia ca nci dugnu ‘u cumprimentu. Per avvisare per vino nuovo: arretu a’ vineja ‘i cicca mìsiru ‘a frasca, si vindi vinu novu o… bbonu. Scomparso poco prima degli a. 40 u ‘zzì Leu, netturbino, il pondo è toccato a un collega, Peppi C... Non so che dizione esprimesse il primo, ma il secondo era un vero disastro. Era incomprensibile ai più tanto che alcuni lo chiamavano ‘u Giapponi. Di tanto in tanto l’impegno spettava a Violinu, un tale allampanato e poco fermo sulle gambe finito malamente sotto un camion o ad altro soggetto provvisorio. L’ultimo banditore, Angiolino, è piovuto a Oppido dalla Francia. Finalmente uno che parlava in italiano e si faceva ben comprendere. Un suo handicap: non conosceva le lire, ma i franchi e quindi si esprimeva come di sua abitudine. Da principio la gente non afferrava, ma alla fine ci ha fatto il classico callo.
A Oppido c’era solo un bar e si apriva sulla piazza principale, il bar Liberti poi Sella. Più tardi dopo la guerra ne ha avviato altro Giocolano di Gioia Tauro sul corso Vittorio Emanuele II. Oltre che in questi posti c’era opportunità d’incontrarsi in altri più accorsati, nei quali le persone affluivano maggiormente, il circolo cosiddetto dei Signori ovvero Casino di Società e anche Circolo Unione, il circolo operaio e il circolo dei cacciatori, che si aprivano nella stessa piazza e offrivano ai soci di scordare per qualche ora le pene quotidiane. Di norma si giocava a carte, ma almeno nei primi due non mancava un biliardo. Peraltro, si formavano combriccole e si discuteva del più e del meno, talvolta anche in maniera agitata, specie quando la passione politica o sportiva perveniva all’acme. Animatissime le discussioni sportive tra i fratelli Pandolfini, Maisano, Rocco De Zerbi e altri che stravedevano per Coppi e quelli che all’opposto parteggiavano per Bartali, come pure tra juventini e torinisti. Duravano ore e attiravano un mare di curiosi. Non parliamo se giocava la Mamerto, la squadra locale. Vi si radunava con gran tifo una massa di cittadini. Sani passatempi ormai bell’e scomparsi! Il circolo operaio è il solo a sopravvivere anche se l’afflusso rasenta ormai il minimo.
E i non associati ai circoli come trascorrevano le ore libere? Si evidenziavano altri luoghi di ritrovo. Quello dell’Associazione Cattolica accoglieva moltissimi giovani e ragazzi e, oltre alle adunanze di rito, si giocava al biliardo, al ping pong, alla dama, agli scacchi, passatempi sani. E gli altri meno interessati cosa facevano? Per loro, operai e lavoranti in genere, restavano le cantine. Ce n’erano tante, forse troppe, ma le più bazzicate erano quelle di Suriceju così detto per la statura minuta e di Gajuzzu, siffattamente apostrofato storpiandone il cognome, ma anche lui tutt’altro che un gigante. Vi si recavano nel tardo pomeriggio o in serata operai che avevano finito il lavoro quotidiano od anche nullafacenti. Tra chiacchiere e confidenze smaltivano la stanchezza o altre pene sorbendo un bicchiere di buon vino accompagnato da ceci abbrustoliti, fave, castagne secche le note pastije e lupini. Non c’era di sicuro allora roba sofisticata! Alla seconda accedeva una popolazione di ceto inferiore, per cui si poneva nel mirino tanto ch’è rimasto il detto appiccicato in varie occasioni a luoghi poco consoni: pari ‘a cantina ‘i Gajuzzu.
In passato le auto in Oppido si contavano sulle dita di una sola mano. Erano quelle in dotazione ad autisti di professione, che le facevano uscire solo in occasione di viaggi o di accompagnamenti in chiesa per un matrimonio, un battesimo e altre cerimonie similari (tra i tassisti ricordo ‘u Milordu, Barletta, Liberti, Sereno, Creazzo, ‘u Mìttaru). Ma non è che i pericoli non si rilevassero analogamente. Erano di tutt’altra specie. Al posto delle auto c’erano i cavalli, i muli e gli asini. Spesso anche loro si qualificavano una calamità pubblica. Quanti muli e asini scapulati non hanno rappresentato una grave minaccia per la gente che se ne stava tranquilla sul marciapiede o camminava spensieratamente per strada! Quando riuscivano a staccarsi dal giogo erano guai e bisognava starsene dentro sigillati fino a che tutto non fosse rientrato.
Diversamente è avvenuto con la televisione, ma i tempi erano ormai anni luce lontani da quelli del primo novecento. Un iniziale televisore è stato offerto alla visione dal rivenditore Graziano Gatto, originario di Varapodio. A sera diventava un vero appuntamento soffermarci sulla strada di fronte e fissare incantati quella scatola luminosa che irretiva l’attenzione. Poco tempo dopo vi si è aggiunto altro esercente, Francesco Liberti e pian piano una sparuta schiera di quanti si potevano permettere di spendere soldi per un simile svago. Molto frequentata la sede della POA. Ch’è successo di conseguenza? Che in tanti, alla sera, ci portavamo da parenti od amici onde poterne usufruire, soprattutto al giovedì e al sabato. Era il tempo del Musichiere e di Lascia o Raddoppia, fortunate e calamitanti trasmissioni. Fin qui niente di male! Si usciva dalle case e si aveva modo di relazionare con amici e conoscenti. Tutto è cambiato con una proliferazione senza precedenti. Le persone sono pervenute a guardare la televisione a casa propria e addio alla vita in comune del passato. Chi s’è visto s’è visto. Ognuno si è rinserrato nel suo guscio e ha fatto a meno di una vita sociale.
Dopo la scuola al mattino, finito di pranzare, in tanti ragazzi ci si riversava a frotte quasi a un segnale e si giocava distinti in gruppi. A predominare era soprattutto il gioco con i soldi, se c’erano, diversamente con i bottoni strappandoli addirittura a camicie e giacche. Tra i giochi di tal genere predominavano ‘a singa o’ quatrettu o a bàttiri. Nel primo caso tutto consisteva nel tracciare per terra un tracciato dentro cui far arrivare la moneta o il bottone. Nell’altro uno lanciava la moneta sul muro, che subito ricadeva a una certa distanza. Un competitore agiva ugualmente cercando poi con la battuta di far ricadere la sua moneta il più possibile vicino a quella già a terra. Secondo una misura realizzata con un rametto inizialmente stabilita tra l’una e l’altra il secondo otteneva la palma della vittoria e si prendeva lo spicciolo dell’antagonista. In successione l’azione si alternava. A lungo sono rimaste su una parete tinteggiata della casa di mia nonna le miriadi d’impronte di monete a varia misura prodotte da un intenso batti e ribatti giornaliero. Meno male che una buona cerchia di giovincelli veniva avviata dai genitori a un doposcuola privato o al mastro. In tanti difatti frequentavano le botteghe degli artigiani, il sarto, il falegname, il forgiaro, dove si comportavano, come si dice, con due piedi in una staffa. Il mastro sostituiva in pieno i genitori ed era temuto più che il genitore stesso. Gli allievi imparavano certamente il mestiere, ma era loro demandato anche qualche servizietto extra a pro della maìstra come andare ad attingere l’acqua alla fontana, acquistare qualcosa in un negozio, recare un’imbasciata. Sulla piazzetta si affacciavano i maistri Barca, maestre di telaio che contemporaneamente seguivano bambini in età scolare.
Nei nostri paesi ‘u vandiaturi non poteva proprio mancare. Senza di lui come fare per essere edotti di ciò che necessitava o di quanto avveniva nella comunità! Erede degli antichi araldi, a lui si poneva carico di tutto e per le vie di tanto in tanto, in genere in sul far della sera, lo sentivi urlare alternativamente quasi cantilenando. Era senzaltro il messaggero del Comune, ma all’occorrenza se ne servivano un po’ tutti. Se un tale smarriva qualche oggetto lui ne informava ai quattro venti, così se in un certo vicolo era stata appesa la frasca, vistoso segno atto a indicare che vi era stato aperto un locale provvisorio per la vendita di vino casaloro, ma pure per tantissimi altri motivi. Instancabile, toccava i punti più nevralgici offerendo il suo messaggio. Ma che succedeva? La gente non sempre era fuori ad ascoltare o non lo comprendeva appieno, per cui l’un l’altro a domandarsi cosa avesse annunciato (cummari, u sentistivu ‘u bandu, chi diciva?). Per lo smarrimento di un oggetto l’espressione era univoca e salmodiante: Cu’ vitti na gaìna (na chiavi, na tovagghia, o altre cose), ‘u ma porta ndi mia ca nci dugnu ‘u cumprimentu. Per avvisare per vino nuovo: arretu a’ vineja ‘i cicca mìsiru ‘a frasca, si vindi vinu novu o… bbonu. Scomparso poco prima degli a. 40 u ‘zzì Leu, netturbino, il pondo è toccato a un collega, Peppi C... Non so che dizione esprimesse il primo, ma il secondo era un vero disastro. Era incomprensibile ai più tanto che alcuni lo chiamavano ‘u Giapponi. Di tanto in tanto l’impegno spettava a Violinu, un tale allampanato e poco fermo sulle gambe finito malamente sotto un camion o ad altro soggetto provvisorio. L’ultimo banditore, Angiolino, è piovuto a Oppido dalla Francia. Finalmente uno che parlava in italiano e si faceva ben comprendere. Un suo handicap: non conosceva le lire, ma i franchi e quindi si esprimeva come di sua abitudine. Da principio la gente non afferrava, ma alla fine ci ha fatto il classico callo.
A Oppido c’era solo un bar e si apriva sulla piazza principale, il bar Liberti poi Sella. Più tardi dopo la guerra ne ha avviato altro Giocolano di Gioia Tauro sul corso Vittorio Emanuele II. Oltre che in questi posti c’era opportunità d’incontrarsi in altri più accorsati, nei quali le persone affluivano maggiormente, il circolo cosiddetto dei Signori ovvero Casino di Società e anche Circolo Unione, il circolo operaio e il circolo dei cacciatori, che si aprivano nella stessa piazza e offrivano ai soci di scordare per qualche ora le pene quotidiane. Di norma si giocava a carte, ma almeno nei primi due non mancava un biliardo. Peraltro, si formavano combriccole e si discuteva del più e del meno, talvolta anche in maniera agitata, specie quando la passione politica o sportiva perveniva all’acme. Animatissime le discussioni sportive tra i fratelli Pandolfini, Maisano, Rocco De Zerbi e altri che stravedevano per Coppi e quelli che all’opposto parteggiavano per Bartali, come pure tra juventini e torinisti. Duravano ore e attiravano un mare di curiosi. Non parliamo se giocava la Mamerto, la squadra locale. Vi si radunava con gran tifo una massa di cittadini. Sani passatempi ormai bell’e scomparsi! Il circolo operaio è il solo a sopravvivere anche se l’afflusso rasenta ormai il minimo.
E i non associati ai circoli come trascorrevano le ore libere? Si evidenziavano altri luoghi di ritrovo. Quello dell’Associazione Cattolica accoglieva moltissimi giovani e ragazzi e, oltre alle adunanze di rito, si giocava al biliardo, al ping pong, alla dama, agli scacchi, passatempi sani. E gli altri meno interessati cosa facevano? Per loro, operai e lavoranti in genere, restavano le cantine. Ce n’erano tante, forse troppe, ma le più bazzicate erano quelle di Suriceju così detto per la statura minuta e di Gajuzzu, siffattamente apostrofato storpiandone il cognome, ma anche lui tutt’altro che un gigante. Vi si recavano nel tardo pomeriggio o in serata operai che avevano finito il lavoro quotidiano od anche nullafacenti. Tra chiacchiere e confidenze smaltivano la stanchezza o altre pene sorbendo un bicchiere di buon vino accompagnato da ceci abbrustoliti, fave, castagne secche le note pastije e lupini. Non c’era di sicuro allora roba sofisticata! Alla seconda accedeva una popolazione di ceto inferiore, per cui si poneva nel mirino tanto ch’è rimasto il detto appiccicato in varie occasioni a luoghi poco consoni: pari ‘a cantina ‘i Gajuzzu.
In passato le auto in Oppido si contavano sulle dita di una sola mano. Erano quelle in dotazione ad autisti di professione, che le facevano uscire solo in occasione di viaggi o di accompagnamenti in chiesa per un matrimonio, un battesimo e altre cerimonie similari (tra i tassisti ricordo ‘u Milordu, Barletta, Liberti, Sereno, Creazzo, ‘u Mìttaru). Ma non è che i pericoli non si rilevassero analogamente. Erano di tutt’altra specie. Al posto delle auto c’erano i cavalli, i muli e gli asini. Spesso anche loro si qualificavano una calamità pubblica. Quanti muli e asini scapulati non hanno rappresentato una grave minaccia per la gente che se ne stava tranquilla sul marciapiede o camminava spensieratamente per strada! Quando riuscivano a staccarsi dal giogo erano guai e bisognava starsene dentro sigillati fino a che tutto non fosse rientrato.
Rammento uno strano episodio verificatosi nell’immediato dopoguerra. Era una discreta serata e la gente si era portata in cattedrale a seguire una solenne cerimonia. Nel mentre dentro e fuori era tutto tranquillo, un mulo imbizzarrito con tutto il carretto a cui era legato improvvisamente si è dipartito dalla piazza e ha attraversato a gran velocità tutto il corso senza far danni. Immaginarsi il timore della gente! Bene. Ha proseguito a galoppo persistendo in linea retta. Arrivato però accosto all’ufficio postale di Tresilico ha invertito la rotta eseguendo una subita deviazione a sinistra e abbattendosi sul titolare dello stesso che con la figlia era appena uscito per fare quattro passi. Quindi, si è calmato ed è stato subito bloccato dal padrone che di corsa gli andava dietro per come possibile. Ma, ormai il guaio si era verificato e per il povero direttore C… non c’è stato nulla da fare. Sull’episodio la gente naturalmente ha detto la sua almanaccando ipotesi anche di natura misteriosa perché il malcapitato era lontano dalla chiesa. Nella casualità si vuole vedere la mano di un preciso punitore se non del destino. Ci si domandava: perché l’animale ha percorso quasi un chilometro senza dirottare e poi ha deviato improvvisamente quasi portatovi d’istinto per fermarsi solo dopo aver combinato il pasticcio? La gente, non riuscendo a spiegarsi il perché di particolari avvenimenti da che mondo è mondo ricorre facilmente a giustificazioni che non stanno né in cielo né in terra.
Rocco Liberti