di Nino Greco
Nino, stavolta voglio introdurre il tuo nuovo racconto rivolgendomi a te direttamente. Stai lavorando ancora sodo per stendere l’affresco sulla civiltà contadina di questo territorio aspromontano che nell’ultimo secolo forse ha costituito un unicum in tutto il Sud. Lo testimonia eloquentemente questo ulteriore pannello che ferma l’obiettivo sul momento conclusivo del terribile lavoro di un anno nella vigna lasciato alla responsabilità totale del colono e su quello immediatamente successivo, quello della vendemmia, lasciato all’arbitrio e all’avidità del padrone del terreno che non sa, non conosce, non crea eppure pretende di imporre ritmi e calendari di lavori: una storia che, ahimè, si ripete spesso in una civiltà di pavide clientele e di rozzi padroni di questo o quel vapore.
Oggi le vigne nel nostro territorio non esistono più, spazzate dall’incuria e dall’avidità di guadagni migliori attraverso altre colture, specialmente quella dell’olivo, che nel tempo ha rivelato la sua estrema fragilità economica. Oggi non esistono più le sapienze antiche di chi conosceva a pelle l’arte della viticoltura e del vino in una sorta di sintesi vivente di secoli di esperienza ormai svaniti nel nulla, soffocati dalla volgarità di una politica che dal dopoguerra a oggi ha inteso solo uccidere le nostre cose migliori anziché rivitalizzarle, seminando trappole col miraggio di facili guadagni e perpetrando altrettanto facili rapine più o meno legalizzate. Una politica che si è riempita la bocca per decenni di una riforma agraria mai attuata e che ha prosperato all'ombra di un Feudalesimo di fatto sopravvissuto dalle nostre parti almeno fino agli anni '60/'70 del secolo scorso checchè ne dicano i mille meridionalisti improvvisati che imperversano nelle librerie.
Restano le testimonianze, ma al di là dei muti e improbabili reperti esposti nelle decine di mostre stabili di fantomatiche “civiltà contadine” creati in altrettanti paesi della Piana privi di fantasia, la tua è la migliore perché non è statica e fredda collocazione di oggetti scontati, ma vibrante e rivitalizzante resurrezione di parole, suoni, tecniche e sofferenze di un passato neanche tanto lontano e vissuto in prima persona. (Bruno Demasi).
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- Matino partiamo presto - disse mio padre mentre eravamo a tavola.
- Alle cinque vado a prendere la scecca, alle cinque e mezza, teniti prontu - precisò.
Non aggiunse più nulla, solo mia madre voleva fare qualcosa per risparmiarmi quella domenica alla vigna.
La scuola era cominciata da poco e lei pensava che il mio nuovo dovere scolastico fosse più gravoso e che la scuola media richiedesse meno trascuratezze.
Per me andare a Sanzo quella domenica era invece una mezza contentezza dettata dalla curiosità di seguire da vicino la misurazione della zuccarina per poi stabilire le date del vindigno.
Di lavoro non avremmo fatto nulla se non stendere la paglia sotto la sorbara in modo che le sorbe, cadendo in modo naturale, non si fracassassero toccando terra, un suolo che dopo un’estate secca e rovente pareva cemento armato. Qualche burrasca estiva aveva cacciato, e per qualche giorno la calura di un luglio torrido, attutita a tratti in agosto e in settembre, ma ora un’aria mite ci stava accompagnando in quei primi giorni di ottobre.
La sorbara era poco lontana dal palmento, non era di proprietà dei Terranova, faceva parte della Batia, nella confinante terra Dei Poveri.
Noi, così come i coloni di Sanzo, la trattavamo come se fosse nostra. Era enorme e nelle giornate di dubra o quando si spagghjarava la vigna diveniva il luogo dove, a mezzogiorno, si tiravano fuori le truscie e si mangiava tutti assieme. Lo spuntone su cui spiccava era il punto più fresco della zona, l’ombra delle frasche della sorbara e una vorija, che in quel punto non mancava mai, accompagnavano quelle pause di riposo.
Facemmo in tempo ad allargare la paglia e a raccogliere i fichi d’india col coppo, gli ultimi rimasti, quando dallo stradone, che attraversava le vigne e l’uliveto della Batia, spuntò la giardinetta di Don Carlo.
Il rombo del motore e il cupigghjuni di polvere, che lasciava dietro, furono d’avviso anche per Nato, il guardiano.
La macchina si fermò davanti al palmento, scesero prima Celestino, il fattore e poi Don Carlo; mio padre si avvicinò al padrone, lo salutò con il solito riguardo e poi mi disse di andare ad avvisare il guardiano e di chiamare gli altri coloni.
Non persi tempo e mi avviai di corsa nel violo che filava dritto tra le partite di vigna. Non ve ne fu bisogno, sia Peppino che mio cugino Cenzo insieme a Nato stavano già arrivando.
Parlarono sull’annata; ognuno di loro disse dei lavori, del tempo, finendo con l’affermare che sarebbe stato un vindigno buono di qualità, ma manchevole di quantità. Il sole e le poche piogge, da come riferirono tutti, avevano alzato sicuramente la bontà del mosto e limitato il quantitativo.
Don Carlo non si mostrò soddisfatto, pareva che a lui interessasse poco la qualità. La sua costante domanda era: - ma sarà meno dell’anno scorso?
Nessuno osava sbilanciarsi sulla previsione, anche perché un’annata ricca di mosto non dipendeva esclusivamente dalle piogge; contava molto la pota fatta in inverno e come ogni colono aveva proceduto con la coltura. Tutti fattori che messi assieme determinavano la sorte di un’annata.
A Don Carlo premeva avere una stima di massima. Doveva disporre la preparazione delle capienti botti della cantina “Terranova” per poi procedere alla vendita nel periodo della “smammatura”.
Per lui poco contava la tenuta del vino, era più importante portare in cantina più mosto possibile.
Mio padre, come gli altri coloni, teneva molto invece a una buona riuscita del vino. Quel poco che avrebbe venduto doveva essere buono e che i pochi compratori non si sarebbero dovuti lamentare per la scarsa tenuta, con annesso rimprovero che in poco tempo era andato all’aceto.
Voleva che si dicesse bene del vino di Sanzo, forse più per orgoglio che per altro.
Celestino aprì lo sportello posteriore della Belvedere, tirò giù una valigetta in legno e non appena dentro il palmento la vuotò del contenuto: un cilindro in vetro e un termometro con alla base un rigonfiamento saturo di palline di piombo.
Quello strumento m’incuriosiva, ogni qual volta lo vedevo cercavo di scrutarlo attentamente per scoprire quale legge fisica potesse determinare in modo preciso la gradazione del mosto. Mistero, per me.
Qualche volta avevo chiesto a mio padre cose spingesse quell’astina graduata, e lui con poche parole mi aveva risposto che la quantità di zucchero presente nel mosto faceva risalire la barretta verso l’alto, e il numero che si sbucava fuori dal mosto, in linea con il bordo del cilindro, indicava la zuccarina.
Ci rinunciavo, io ci immaginavo lo zucchero di casa e non riuscivo a coglierne la causa.
Tutto fu pronto, mio padre mi chiamo e mi disse:
- Prendi il catino e vai nella partita di vigna di Cenzo, alla quarta resta entra a destra e cogli due grappoli, uno di agghjianicu e uno di lacrima, poi vai a da noi, sotto violo e cogli due grappi, uno di magghjoccu e uno di cuda i vurpi; poi passi da Peppino e quando arrivi alla prima resta, limite della nostra vigna, c’è un pede di champagne, ne basta solo uno di grappo. Prima di tornare vai nelle nostre costereje e aggiungi ancora un grappo di agghjianicu e uno di magghjoccu; finito il giro può tornare.
Non me lo feci dire due volte, presi il cato e corsi via, giù nel violo; mi addentrai nella vigna e colsi i grappoli seguendo le indicazioni di mio padre.
Avevo imparato, negli anni, a riconoscere la qualità della racina. La maggior parte delle viti davano agghjanicu e magghjoccu, poi c’era la lacrima, la champagne, l’occhi i voi, ‘a muscateja, a ‘nzolia, la corniola, e negli ultimi anni aveva innestato anche qualche pede di “bordò”. Nel violo che portava alla nostra baracca, sotto alla ficara melangiana c’era un piccola pergola di fragola nera, quei grappi non arrivavano mai a vindigno, la si mangiava prima.
La cuda di vurpi era la mia preferita, un grappo nel suo insieme sembrava davvero una coda di volpe e quando era nel pieno della maturazione quei piccoli acini divenivano color oro e davano un sapore per me non aveva uguali; la reputavo più buona dello zibibbo.
Nella nostra partita di vigna c’era un solo piede di zibibbo, mio padre curava quella vite come se fosse la preferita, dalla zolfatura alla spagghjarata. E quando gli acini cominciavano a prendere forma lui ci andava tutte le mattine per verificarne la crescita e per notare se vi fosse presente qualche cocciu di janca.
Era il parassita che colpiva i vitigni più deboli, e il pede di zibibbo per lui rappresentava il testimone da cui riusciva a intuire lo stato di salute della vigna intera.
Gli avevo chiesto come mai non avesse innestato più viti di zibibbo e lui aveva sempre risposto che la zona non offriva una condizione adatta per quella qualità.
Fui di ritorno col cato pieno dei grappi campioni.
Il guardiano comincio a premerli nello stesso contenitore e quando tutti gli acini furono premuti prese un bicchiere e riempì il cilindro di vetro fino all’orlo e fece calare all’interno l’astina graduata, Don Carlo inforcò gli occhiali, tutti si avvicinarono, anche io; Nato alzò a favore di luce il cilindro da cui colava mosto e sentenziò:
- 23, bonu ! - Ventitrè gradi zuccarina facevano intuire che la gradazione del vino sarebbe stata intorno ai 13° di alcool.
Vidi lo sguardo di mio padre soddisfatto, il risultato diceva che nel giro di qualche giorno si poteva procedere con la vendemmia. Anche il guardiano e gli altri partitari erano dello stesso parere; solo Don Carlo si mostrò restio e disse:
- Possiamo aspettare ancora dieci giorni, poi faremo di nuovo la zuccarina - continuò - questo è il mese delle piogge e una buona piovuta potrebbe dare acqua a questi grappi che sono asciutti.
Il guardiano e i coloni si guardarono, le loro facce non nascosero il disappunto.
- Non possiamo arrivare a fine ottobre col vindigno - fece il guardiano rompendo il silenzio - se la lasciamo ancora sulla vite diviene solo cibo per le vespe.
- Una piovuta adesso non sarebbe d’aiuto, la farebbe “mpurrire”, purtroppo è mancata l’acqua a settembre, quello sarebbe stato il tempo giusto - aggiunse mio padre.
Don Carlo era riottoso e di poche parole, mal sopportava che qualcuno potesse mettere in discussione una sua proposta, era abituato a decidere anche per gli altri, ma in quel frangente capì che non era il caso di insistere.
Vero, la terra era sua e il palmento pure, ma il lavoro di un anno, e le fatiche di: pota, scazare, zappare, zolfarare; poi ancora pompiare, un mese e mezzo di verderame dato con la pompa in spalla, per continuare, in piena estate, a ntajare e spagghajarare, erano state dei coloni.
Sudore e fatica, senza tempo, di uomini e donne; dedizione di famiglie intere dall’alba al tramonto
- A vigna caccia tigna - mi diceva spesso mio padre. In quella frase c’era la considerazione più vera su cosa significhi lavorare una vigna, impegno e preoccupazione costante al punto da far divenire calvo anche il più zazzaruto degli uomini.
Il guardiano usci nello stradone, colse quattro pezzettini di legno tre di uguale lunghezza e uno decisamente più corto. Li chiuse tra le dita facendoli sporgere nella giusta misura,
chi, tra i quattro coloni, avesse pescato il piruni più corto avrebbe dovuto dare inizio alla campagna di vendemmia.
Toccò a mio cugino Cenzo, la sorte diede a lui l’incombenza di principiare il vindigno, gli altri sarebbero arrivati a mano girando, procedendo in sequenza per come erano le partite di vigna. Si stabilirono i giorni sia per la vendemmia che per la cunsinna del mosto; tutto pattuito in modo chiaro, senza tempo da perdere: la vendemmia poteva avere inizio...