di Ester Pandolfini
Chi era in fondo la signora Mancini, quella donna senza tempo, per alcuni giovanissima di cuore e di spirito, per altri da sempre irrimediabilmente vecchia come il ritratto della celebre illusione ottica di Boring? Una persona catapultata dalla sua microstoria in un paese dell’Aspromonte arroccato dentro le sue certezze stucchevoli, sommerso da una coltre di sonno e di ipocrisie che da sempre lo hanno sottratto ai veri circuiti culturali e di sviluppo sociale. Una donna che , nata e vissuta a lungo altrove, si era innamorata di Oppido Mamertina e della Chiesa locale, delle sue ruspanti iniziative sociali, dei suoi maldestri tentativi di fare cultura là dove la povertà toglieva ai più ogni spazio e ogni voglia di fare altro che non fosse il mestiere della sopravvivenza quotidiana.
Ma lei non si arrendeva, credeva nella forza redentrice dell’arte, del bello, della musica, del teatro negli anni in cui l’unica pedagogia possibile era quella della discriminazione e della divisione sociale e l’unica forma di inclusione – ammesso che lo fosse – si celebrava all’ombra del campanile da sempre accogliente per tutti coloro i quali volevano evadere dal brutto quotidiano, anche a costo di fare i conti con le mai mancanti persone egoiste che della frequentazione smodata e assolutizzante della parrocchia avevano fatto – e purtroppo continuano a fare – una missione personale dagli effetti asfissianti per la Chiesa stessa.
Una donna strana e intelligente per un paese a sua volta strano e rassegnato ai raggiri dei prepotenti di turno mascherati di perbenismo, che questa bella pagina di Ester Pandolfini rievoca qui con amore e disincanto restituendoci uno squarcio commosso della storia di una vita che tutti ormai avevamo dimenticato. (Bruno Demasi)
Ma lei non si arrendeva, credeva nella forza redentrice dell’arte, del bello, della musica, del teatro negli anni in cui l’unica pedagogia possibile era quella della discriminazione e della divisione sociale e l’unica forma di inclusione – ammesso che lo fosse – si celebrava all’ombra del campanile da sempre accogliente per tutti coloro i quali volevano evadere dal brutto quotidiano, anche a costo di fare i conti con le mai mancanti persone egoiste che della frequentazione smodata e assolutizzante della parrocchia avevano fatto – e purtroppo continuano a fare – una missione personale dagli effetti asfissianti per la Chiesa stessa.
Una donna strana e intelligente per un paese a sua volta strano e rassegnato ai raggiri dei prepotenti di turno mascherati di perbenismo, che questa bella pagina di Ester Pandolfini rievoca qui con amore e disincanto restituendoci uno squarcio commosso della storia di una vita che tutti ormai avevamo dimenticato. (Bruno Demasi)
____________
A quattordici, quindici anni non avevo certo il problema di annoiarmi, a parte la scuola e i compiti ai quali, spesso, destinavo un tempo rubato a tutto il resto, davvero residuale, con grande disappunto di mio padre che si illuminava quando mi vedeva china sui testi scolastici, e che si adombrava visibilmente allorquando costatava che in casa non c’ero mai, e se c’ero era per pranzo, merenda di corsa, sempre con qualche compagna di giochi al seguito.
Era il periodo in cui si frequentava la scuola di musica tenuta, con molta passione, dal maestro don Vicenzo Tropeano, e ospitata in alcuni ampi locali della scuola elementare. Le attività promosse dall’Azione Cattolica coinvolgevano molte persone, che abitualmente frequentavano la Chiesa e tutto ciò che da essa e per essa veniva organizzato e nei locali di via Mamerto, dove prima c’era l’asilo, e anche dopo, per altre attività, c’erano sempre le suore, ho trascorso quasi tutta la mia infanzia e adolescenza. Vi ho frequentato l’asilo, poi, per un lungo periodo, l’Azione Cattolica, dove sono pure stata impegnata nel ruolo di Responsabile ACR, ed anche il cosiddetto laboratorio, tenuto, appunto, dalle stesse suore. Ricordo i nomi: suor Nicoletta, suor Maria Rosa e poi c’era, lei, la superiora. Elemento di spicco era don Luigi Blefari, il parroco della Cattedrale, figura dominante, le cui scelte e parole erano legge indiscussa. Andava energico per i corridoi con la sua tonaca svolazzante, sempre rosso e accigliato in viso, la bocca piccola e le labbra sottili da cui usciva una voce metallica dai toni perentori e autoritari.
Era il periodo in cui si frequentava la scuola di musica tenuta, con molta passione, dal maestro don Vicenzo Tropeano, e ospitata in alcuni ampi locali della scuola elementare. Le attività promosse dall’Azione Cattolica coinvolgevano molte persone, che abitualmente frequentavano la Chiesa e tutto ciò che da essa e per essa veniva organizzato e nei locali di via Mamerto, dove prima c’era l’asilo, e anche dopo, per altre attività, c’erano sempre le suore, ho trascorso quasi tutta la mia infanzia e adolescenza. Vi ho frequentato l’asilo, poi, per un lungo periodo, l’Azione Cattolica, dove sono pure stata impegnata nel ruolo di Responsabile ACR, ed anche il cosiddetto laboratorio, tenuto, appunto, dalle stesse suore. Ricordo i nomi: suor Nicoletta, suor Maria Rosa e poi c’era, lei, la superiora. Elemento di spicco era don Luigi Blefari, il parroco della Cattedrale, figura dominante, le cui scelte e parole erano legge indiscussa. Andava energico per i corridoi con la sua tonaca svolazzante, sempre rosso e accigliato in viso, la bocca piccola e le labbra sottili da cui usciva una voce metallica dai toni perentori e autoritari.
***
Incredibile come una persona che arriva da fuori, così diversa dai paesani - sia per l’aspetto fisico che per le abitudini, i modi di fare, così come appariva lei, la moglie del direttore del Banco di Napoli, - possa entrare così bene a far parte della gente del posto. La signora Mancini era una donna magra, bruna, di un colorito abbronzato, gli occhi scuri, pronti al sorriso ma anche al disappunto, un po’ velati quasi a celare una sua intimità insondabile e volutamente o inconsciamente sottratta al giudizio del popolino locale. Quando l’ho conosciuta io, diversi anni dopo il suo arrivo in paese, il suo viso era diventato grinzoso e lei ormai era ritenuta una di noi, anzi, era diventata un riferimento insostituibile, conosciuta come il tre di denari. Aveva i capelli legati in una crocchia morbida che ballava, in maniera buffa ma dolce, insieme con i movimenti del suo fisico scattante e che raggiungeva un’apoteosi di incisività e di solennità quando le sue nervose mani, anch’esse grinzose, sembravano ora volare ora scattare sulla tastiera del suo vecchio pianoforte che sapeva suonare solo lei così bene, nonostante alcuni tasti un po’ sbilenchi: pianoforte e Fanny Mancini erano fatti l’uno per l’altra in un miracolo di immedesimazione tra il semplice oggetto e quell’originale straordinario essere!
Viveva in un ambiente che sembrava appositamente dipinto per lei. Presumo sin dal suo arrivo, ma devo affidarmi ai miei ricordi e all’intuito per ricostruire qualcosa della sua interessante storia. La sua abitazione era situata in un contesto che appariva subito, appena vi si faceva ingresso, elegante, un po’ vissuto e caratterizzato dal tempo che dava una patina di passato, forse anche per lo stile bella époque delle architetture, delle scale, diverse, che si aprivano nell’unico cortile di quel palazzetto signorile, il cui ingresso principale e molti balconi e finestre si affacciavano sulla piazza principale.
Scrivere di lei emoziona e costringe ad andare a ritroso, aprire quello scrigno custodito nella mente. Come è perfetto il cervello, basta un odore, una sfera di sole che si poggia sul fascio d’erba di una siepe, l’ abbaiare di un cane e si associa con un miracolo autentico l’attimo che emerge dal nulla e si ripresenta prepotente, reale. Questo è l’incanto dei ricordi che per un attimo fuggente ti restituiscono le emozioni. Ti pare nulla poter risentire l’amore, la gioia di avere accanto persone care, il dolore pungente dell’abbandono....
Eccomi a casa della signora Mancini, è tutto vivace, c’è molta gente in giro, tante ragazze vocianti, i gatti che, sbucando da ogni dove, girano padroni lasciando il loro inconfondibile odore che, oso dire, ha il suo fascino. Stiamo preparando il revival di un’operetta: regia della signora Mancini, musiche originali, costumi suggeriti dalla regista e demandati, per la realizzazione, alle famiglie delle interpreti.
Lo spettacolo era organizzato dall’Azione Cattolica e, secondo il genere e l’importanza, veniva rappresentato in sedi diverse: nel salone dell’episcopio, se ritenuto più importante; nei locali dell’asilo, se più modesto. Si faceva affidamento e si ricorreva alla disponibilità e alla generosità dei parrocchiani, conoscendo e sapendo sfruttare le diverse attitudini, esperienze e capacità di ognuno.
Era tradizione che per alcune ricorrenze, Carnevale, Natale, si svolgessero degli spettacoli che davano vita e movimento e servivano per tenere vivo lo spirito di appartenenza a quella comuntà che era, nel periodo, il maggiore, se non esclusivo, riferimento per la quasi totalità della cittadinanza.
Erano i primi anni ’70 e si aveva l’età più bella della vita in cui la spensieratezza è di norma assoluta, gli affetti non sono solo quelli della famiglia: a quindici anni, quando frequenti il liceo, un compagno può rappresentare il tuo universo.
In occasione di qualche festa molto sentita, forse allora anche di più, la Signora Mancini ci preparava per lo spettacolo e tutti i giorni andavamo a casa sua per le prove. Ci sapeva motivare, ci spiegava che quei testi erano brani d’operetta, già rappresentati nel periodo fascista anche davanti al Podestà di Oppido. Assegnava poi i ruoli e, quella volta, il mio era quello di fare la presentatrice, ma io, pur essendo orgogliosa di svolgere un ruolo così importante, ero un po’ dispiaciuta di non poter cantare.
Ogni canzone era accompagnata dalla danza e da una vera e propria scenetta da interpretare. Una volta imparato il testo a memoria, durante le prove, lei, oltre ad accompagnarci al pianoforte, seguiva il canto e la danza. Ogni passaggio veniva sottolineato dal motivo e dalle note e la Signora con vera maestria ci guidava nella esibizione.
I giorni delle prove - mi pare di ricordare che i preparativi siano durati più o meno tre o quattro settimane - furono impegnativi ma divertenti, un’esperienza importante, eravamo coinvolte ed entusiaste, prendevamo tutto molto sul serio perché l’impostazione data, lo stile di quella piccola donna magrissima trapelava da ogni suo poro, dalla sua voce, dal suo estro, dall’ambiente dove ci accoglieva. Un disordine che parlava di lei, dell’importanza che attribuiva a quello che stavamo facendo e la rendeva unica, diversa da tutte le nostre mamme e zie e maestre che amavano l’ordine, la pulizia estrema della casa, la cucina. Era distratta Fanny Mancini, la sua era quella sbadataggine mischiata ad un’ innata eleganza condita dal fascino di una trascuratezza della sua persona scelta come stile di vita.
Un giorno si recava come d’abitudine in chiesa e, mentre attraversava la strada, qualcuno ha sentito l’esclamazione: “Dio che sbadata, mi sono messa le scarpe di mio genero!”. Lei, la signora Mancini, metteva al primo posto altro; qualcosa che arricchiva lo spirito e che rendeva indimenticabile il tempo trascorso in sua compagnia.
Sono passati cinquant’anni ma io ricordo a memoria tutti i brani, tutte le canzoni e l’entusiasmo nei volti di tutti noi che le abbiamo interpretate e il visetto buffo di lei che, a bella posta, eccedeva nella mimica per farci capire il senso da attribuire alle parole, il messaggio che dalle storie bisognava far arrivare al pubblico, il messaggio educativo e di civiltà che, senza dirlo, lanciava alla strana gente di questo strano paese capace di ridere di tutti e di tutto, ma non di se stesso.