venerdì 16 settembre 2016

LA TRILOGIA DELLA PANZA ASPROMONTANA


    La letteratura popolare calabrese, solo a saper cercare, come affermava per altri versi Benedetto Croce, è colma di produzioni in prosa o poesia riguardanti l’epopea del cibo, nell’immaginario popolare ancora oggi  toccasana per tutti i mali, antitesi della povertà, esorcismo della carestia.
    Qui di seguito tre monumenti al “mangiare”: il florilegio della tavola imbandita tratta da “U sonnu ‘i Filici (l’eterno affamato)” , di Salvatore Filocamo; “I granelli” (del toro) in una originale rievocazione di Francesco Epifanio e “U vinu bonu finu a fezza”, un ripensamento sui travagli della vita …e dello stomaco, di Nino Greco.
    Tre perle di altrettanti insuperabili autori “ aspromontani” accomunati dal medesimo amore per la lingua viva  di questa terra e per i ricordi   e i valori ...di un passato neanche tanto lontano… (Bruno Demasi)



                          U SONNU ‘I FILICI ( di Salvatore Filocamo)
Armenu ca no’ mangiu veramenti
Mangiu nt’o sonnu ch’i moli e ch’i denti!
Si fussi veru quantu mi ‘nzonnai,
ndavarìa u hjaccu pe’ quantu mangiai!
Pari ca mi ‘nzonnai ‘na brutta trama…
Prima di tuttu mi cumpariu mama
(Beniditta chimm’è, recumaternu,
u vaji ‘Mparadisu s’è nto ‘Mpernu!)
e mi dissi precisi sti palori,
chi mi toccaru nt’o vivu d’u cori:

“Filici, figghiu meu, fammi parrari,
arricchia chi ti dicu e no’ tremari:
Roccu di Rocca nd’avi nu maiali,
ch’è quantu n’elefanti, tali e quali:
stanotti stessa tu t’u poi arrobbari,
sulamenti accussi’ ti poi spamari”.

Mi dissi sti palori e scumpariu,
pari ca lapriu ‘a terra e s’agghiuttiu…
Mi cumpariu ‘na tavula bandita
chi non ma ‘nzonnu cchiu pe’ tutt’a vita:
llà ndavia capicolli e supprezzati
abbastanti pe’ centu cumbitati
e sarzizelli, mastrossa e gambuni
e duui potenti tiani ‘ pruppettuni;
‘i frittula ndavia ‘na cardarata;
chi armenu armenu jia ‘na tunnellata!

E mangiai e m’abbuttai sta panza mia
Chi di tri jorna pani non vidia.
Mo’ chi mi risbigghiai tuttu sbanìu…
Aundi u vijiu tantu beni ‘i Ddiu?
Si Ddeu e puru ‘a fortuna non mi vonnu,
‘a panza non m’a linchiu cu nu sonnu!...

…………………………
   ( Il consiglio del medico dopo qualche giorno...)

Nugliu porcu restau nta li pajisi,
ndavi la panza chi ssi jetta vrasi;
datisi nu stuppegliu ‘i sali ngrisi,
mbischiatu cu rovetta e cu marvasi. 





                     I GRANELLI ( di Francesco Epifanio) 

  Ogni jornu senza fretta
   Mastru Cicciu Tracandali
A’ fermata d’a piazzetta
Aspettava lu postali.

Mastru d’ascia di scandagghju
cu ja panza di rovaci
s’avviava a lu travagghju
o’ paisi ‘i Castejaci.

Na matina comu tanti
chi ‘a currera no’ venia
s’addunau ca jà davanti
era aperta ‘a gucceria.

E ngriandu l’occhju moru
nda vineja jà di latu
s’accorgiu di nu gran toru
a’ na vuccula ligatu.

Era Venniri e Violi
macellaru di jenia
nuja zingara nci voli
mu ndovina chi facia.

Ca ju toru paria fattu
mu finisci ndà gravigghja
o a rragù nda lu piattu
foragabbu e maravigghja.

Mastru Cicciu dittu e fattu
cu premura e dicisioni
ndò macellu quattu quattu
trasi lestu e dici: Ntoni,

Fummu sempi amici belli
e ti cercu ‘a curtisia
nzemi o’ ficatu i granelli
pe’ stasira jeu volia.

Assentisci lu cucceri
e rispundi: Vai sicuru
ca lu ficatu e i conzeri
ti li dassu certu puru.

Se lejiti sti cartelli
Stati attenti cu la prosa
ca si dici li granelli
pe no’ ddiri n’atra cosa.

Ddunca’ i curza chija sira
quandu Cicciu si cogghjiu
comu quandu u ventu spira
nda la gucceria trasiu.

Si fermau davanti o nzaru
ca p’a fuja no capia
e nci dissi o’ macellaru
se nc’iassau la mercanzia.

Lu gucceri rispundiu
Scapocchjandu li papelli
ca lu ficatu u vindiu
ma su pronti li granelli.

Mastru Cicciu, omu di spiritu
cu na vuci di leuni
nci gridau: A CCU NC’IASTI U FICATU
 DANCI PURU LI CUGGHJUNI.


U VINU BONU…FINU A FEZZA ( di Nino Greco)

- Non jettai nenti ! - disse Melo u gucceri, a Vestianu, mostrando ciò che era divenuto il maiale di settantotto chili macellato il giorno prima; sfoggiava vanto per aver fatto un lavoro impeccabile, tantoché aveva lavorato ogni centimetro di carne senza jettare nulla. Poi lo aveva stipato in diverse limbe, tutto pronto per la consegna.
In una c’erano ricchji, pedi e mussa, in un’altra le costate; i gambuni aveva li aveva acciati e riempito le budella per satizzi. Il lardo, che sarebbe servito per cuocere le frittole senza acqua, in un’altra insieme alla pancetta; e quest’ultima sarebbe stata la botta scura: grigliata sulla brace ardente, avrebbe saziato gli ultimi brami di fame, ma a vesperi come facevano ogni anno.
Vestiano aprì il cofano della Fiat 1100 famigliare, mise tutto dentro e si avviò verso la foresta.
Quel giorno di Dicembre, con il Natale già archiviato, doveva essere vissuto come quello degli anni precedenti con l’impegno di banchettare con le carni di un maiale oltre i settanta chili e stillare fino all’ultima goccia due damigiane da venticinque litri di vino novello. Loro non si perdevano di animo, la squadra aveva molato gli incisivi, come se durante quelle feste non avessero mai assaggiato nulla di mangiabile.
Erano di buona forchetta tutti e dodici: Vestianu, Micheli, Mastro Peppe, Mastro Turi, Totò, Ciccio, Nicola, ancora l’atru Ciccio, il Professori Turi, Pascali, Ninu e Saveri.
Non tremavano davanti a oneri così grevi, loro avevano solo bisogno di tempo: tempo e vinazza, dicevano per far intendere che a tavola bisogna tenere il passo giusto, accompagnati da buona vinaccia.
Era la stessa banda che una sera, in un ristorante di Gioia, dopo aver fatto fuori tutte le scorte di pesce, chiesero al cuoco di radunare tutte le lische, avanzi di pesce poco prima consumato, e confezionare un sughetto per una ulteriore spaghettata.
Mah..! Che dire?
“Fiere” da tavola, loro non mangiavano: trangugiavano. Sapevano tutti i trucchi culinari per cucinare cerbeje, ma si esaltavano quando si davano per cottimo un maiale di settanta chili e i cinquanta litri di vino da consumare da mattina a sera, in un solo giorno.
Il luogo accordava, casa colonica di Vestianu con annesso focolare nelle ribbe di Boscaino, il freddo di stagione e le mmurfurate o magari la pioggia avrebbero dato il senso giusto dell’intimo e del riposo obbligato, per non aver nemmeno lo scrupolo di aver saltato un giorno di lavoro; non che se facessero a fronte di impegni simili.
Vestiano, da padrone di casa, fu promentino, si portò avanti, e con la perizia che non gli mancava dentro la colonica preparò il focolare col fuoco che già andava e un tripode con caddara in rame sopra, per le frittole sotto la pinnata, al riparo dalla pioggia.
Due fuochi, tanta carne, tante mani esperte per mandibole addestrate.
Giunsero tutti in ordine sparso, scaricarono le vettovaglie, il vino, un sacco di pane da Rragna e armarono il campo.
Era un combinato di competenze, sapevano a memoria procedure e tempi di cottura, tutto doveva essere in sincrono; già alle dieci di mattina i fumi delle costateje arrostiste riempiva le narici.
Rrusti e mangia, mangia e rrusti la giornata si avviò col suono delle spisie del focolare e col profumo e il fumo di ciò che arrostiva: costateji e satizzi. Si aprirono i canali delle damigiane, i primi litri andarono via per le cannate d’assaggio.
Prima di mezzogiorno le costateje erano finite, le salcicce scemavano lisce e il vino innaffiava abbondante. Il pranzo fu solenne e i brindisi fioccarono ad ogni alzata di gomito:
- A rrobba bona finu a pezza…u vinu bonu finu a fezza!.
Chi mai avrebbe potuto dissuadere, da quel proposito, quell’accolita d’inappetenti?
Intento impegnativo, ed era il modo per dire che l’obiettivo sarebbe stato arrivare al fondo della botte, cioè bere tutto e sfiorare il fondo dove era depositata la fezza, in quel caso le damigiane.
Sapevano cosa dicevano e lo facevano convinti, al fondo bisognava arrivare.
Battagliarono, il pomeriggio fu tosto, le frittole cotte al punto giusto non sdingarono il palato dei nostri, loro volevano solo tempo e a dire il vero se l’erano preso.
Nelle prime ore del pomeriggio, in alternanza con mussa e pedi, qualcuno accordò la chitarra e Mastro Peppe cominciò il suo repertorio:
..O bella sigaretta così bianca,
che vai consumandoti al calore,
io che ti reggo con la mano stanca
so quanto è falso il tuo candore.
Sei bianca fuori
 ma il tuo corpo è pieno 
di biondo sottilissimo veleno…
“ Come una sigaretta” era il suo cavallo di battaglia e non appena i fumi di Bacco superavano i livelli, lui, Mastro Peppe iniziava così, era il segnale che lo show aveva inizio.
Ciccio si accodò con la fisarmonica e da quelle corde vocali ingrassate dal lardo delle frittole vennero fuori improbabili stornelli e acuti da far scappare anche i ranunchi di quelle ribbe.
Il manto del vespero, di quel giorno d’inverno, colse i nostri sazi, carichi e con gli occhi piccoli; non fecero in tempo a ultimare la mangiata: il dolce era rimasto fuori e dimenticato.
Ormai avevano rotto le fila e si muovevano spinti più dal vino senza seguire logiche, qualcuno urlo tra le ombre dell’aranceto:
- Il dolce lo mangiamo in piazza, a Oppido !
- Sì ! - risposero i più
- Si va a Oppido per il dolce e poi si continua con le serenate !
In quattro e quattrotto radunarono le cose necessarie, si misero in macchina e si avviarono per Oppido.
La piazza grande assolata e fredda li accolse, scesero e si radunarono per tagliare i panettoni e aprire spumanti; qualcuno chiamò: -
- Peppe ! Dai la chitarra !
Peppe non rispose, ntassarono tutti. Si guardarono intorno e Mastro Peppe non c’era. I loro sguardi cangiarono, l’allegrezza di qualche minuto prima aveva ceduto al posto alla preoccupazione. Dove era andato a finire Mastro Peppe?
- Michele ! non era con te in macchina ? chiese Vestiano.
- Sì, stamattina era con me, ma pensavo che adesso fosse venuto con te..
La preoccupazione si impadronì dei loro pensieri e dei loro volti. Cos’era capitato a Mastro Peppe? Se l’erano dimenticato oppure qualche malore l’aveva colto nei meandri ormai bui dell’aranceto?
Michele e altri due si misero in macchina alla volta di Boscaino, percorsero quei quattro chilometri in silenzio, il pensiero che fosse capitato qualcosa affannava i loro cuori.
Giunsero davanti alla casa colonica, alzarono i fari: nulla.
Mastro Peppe non c’era, scesero e a distanza udirono una voce che cercava di intonare:
.. buonanno a chi è felice nella vita
buonanno alla spigliata gioventù..!
Grazie a Dio, pensarono, Mastro Peppe era lì, nell’aranceto che si accompagnava con la chitarra a cui erano rimaste solo due corde, la passione con cui intonava la canzone era la solita, come se uno stuolo di spettatori fosse davanti a lui.
- Mastro Peppe ! pe’ la miseria ‘ndi pigghiammu ‘nu spaghettu !- urlò Michele.
Lui si girò e icrociò il suo sguardo, smise di cantare e lo riguardò. Era palese il suo serio stato di ubriachezza, ma ciò non impressionò nessuno.
Lo guardò ancora senza scomporsi e disse:
- Michele, menu mali ca’ morimu, sennò sta vita cu a faciva !
 Si alzò con l’aiuto degli amici e si avviò con loro.