Pensare che nell’attuale Piana di Gioia Tauro , dove da parecchi anni
ormai la sanità registra gravissime carenze, per non parlare di nefandezze di ogni genere, già
nel Medioevo ad opera delle minoranze ebraiche, si sviluppava in modo mirabile l’arte medica, fa quasi
impressione. Dirò meglio, già nel IX e
nel X secolo in queste contrade l’arte medica registrava livelli che oggi
considereremmo di eccellenza, il che non ci inorgoglisce, anzi ci offende se
pensiamo in quale baratro siamo piombati dopo tanti secoli...
Due erano le attività peculiari cui si dedicavano gli Ebrei, come si
legge nella “Vita” di San Nilo di Rossano: la mercatura e la medicina. Mentre la prima però era quasi
imposta dalla tradizionale situazione di marginalità sociale e religiosa in cui
erano costretti a vivere, nella seconda essi brillavano ancora di più perchè
essa era frutto di una libera scelta
sebbene non avulsa dal desiderio del guadagno.Non esercitavano infatti l’arte medica solo per filantropia, gli Ebrei calabri, e tuttavia
c’era nella loro attività un che di missionario e di elitario che in qualche
modo li riscattava dal disprezzo di cui generalmente venivano coperti in un
contesto che, pur avendo bisogno di loro, quasi li rifiutava...
Antesignano e capostipite nell’arte medica era stato quel Donnolo
Shabbetai, otrantino di origine, ma cresciuto e formato all’arte medica e alla filosofia, a Rossano,dove già nell’anno
970 componeva il testo principe per la farmacologia, Il libro delle misture, come scrive Cesare Colafemmina nel suo
stupendo contributo agli studi sugli Ebrei in Calabria pubblicato nel 1996 da
Rubettino.Non stiamo qui a chiederci se quest’opera di Shabbetai, ed altre che ne
seguirono, fossero mutuate da altri
testi preesistenti, a noi interessa osservare intanto l’intelligenza fine
dell’uomo e del medico e la sua capacità di divulgare in tutta la regione
l’arte medico-farmacologica da lui coltivata e probabilmente anche studiata ed appresa su opere similari composte da studiosi arabi o bizantini.
Dall’epoca di Shabbetai ai documenti pubblicati da Colafemmina passano
tuttavia più o meno quattro secoli
durante i quali evidentemente l’arte medica ( che purtroppo, come in ogni
epoca, non è stata mai a corto di “clienti”) continuò a crescere e a diffondersi, tanto che
nel 1400, in piena epoca angioina e poi aragonese, si assiste già all’ uso
modernissimo di sottoporre i medici ad un esame solo in seguito al quale il
sovrano concede l’autorizzazione per l’esercizio dell’arte medica e
farmacologica. Scrive in proposito Vincenzo Villella nel suo recentissimo e monumentale studio "Ebrei di Calabria" (GrafichEditore 2024): " A Seminara è ricordata la famiglia del medico Lazzaro Sacerdote che agli inizi del 1400 si trasferì a Termini Imerese... Nel 1424 il medico Giuda Raffato di Seminara otteneva dal re Luigi III d'Angiò (1403-1434) l'autorizzazione ad esercitare la professione nel ducato di Calabria...Negli anni 1452-53 ottenevano la licenza dal re Alfonso gli speziali Mosè di Crotone,Aron de Marcadianni di Montalto, Leone da Oppido, Iohanan de Acuni da Strongoli...La presenza di medici e farmacisti ebrei...dava certamente prestigio alle varie comunità ebraiche locali...(pp.349-350)".
Che ben tre luminari dell’arte medica e farmacologica esercitassero quasi
contemporaneamente la loro arte sulle contrade solcate dal Metauro-Marro è fatto molto significativo,
ma abitualmente trascurato dalla
storiografia ufficiale ancora oggi tutta tesa a dipingere il nostro Sud come
terra di nessuno e di selvaggi. Ed è a maggior ragione significativo poichè
all’epoca la formazione dei medici non era cosa facile e di poco conto: si
partiva da un lungo discepolato al seguito di un maestro per arrivare poi
all’esame regolare e, solo dopo un tirocinio lunghissimo, all’autorizzazione
del medico, che, oltre alle competenze diagnostiche, terapeutiche e farmacologiche, doveva possedere
inequivocabilmente l’arte dello scrivere appresa probabilmente in vere e
proprie scuole rabbiniche esistenti in loco.
Insomma l’arte medica ebraica anche al servizio della Cultura! Ma soprattutto l’arte e l'ingegno ebraici umilmente al servizio della Calabria e, nella fattispecie, di
quel territorio oggi semidisprezzato che
passa sotto l’appellativo fortemente
banalizzante e riduttivo di “Piana di
Gioia Tauro”.