lunedì 15 dicembre 2025

LA RISATA PERDUTA: PER UNO STUDIO DELL’UMORISMO NELLA LETTERATURA CALABRESE ( di Bruno Demasi )


    Qualche nota tutt’altro che esaustiva su ciò che nella letteratura calabrese è considerato un genere assolutamente marginale: l’ umorismo . Nella grande maggioranza dei casi esso non è invece una semplice parentesi comica, ma un filtro narrativo potente, spesso intrecciato con il dramma sociale, la malinconia e l'osservazione disincantata della vita. Agisce spesso come un meccanismo di difesa intellettuale o come un bisturi per l'analisi sociologica. Le sue manifestazioni principali si concentrano in genere su tre elementi chiave: l'uso prevalente o anche episodico del dialetto o delle forme dialettali, la critica della società e l'emergere del surreale/grottesco.

   L'espressione dialettale, immediata e insostituibile, è storicamente il veicolo primario per la satira e l'umorismo schietto. Il dialetto permette di cogliere sfumature e contraddizioni che la lingua italiana (percepita come più "ufficiale") non riesce a rendere. E’ formidabile per deridere l'ipocrisia, denunciare l'ingiustizia e immortalare l'arguzia popolare. L'umorismo nasce spesso da doppi sensi, proverbi fulminanti e costituisce una sintesi espressiva che mira al bersaglio con efficacia, ma anche nella narrativa in lingua l'umorismo diventa liberatorio sebbene a volte tenda al realismo magico o al grottesco.  L'ambientazione quasi esclusiva è il contestop territoriale  di vita dove le nevrosi, le manie e l'eccentricità dei personaggi sono amplificate. Questo tipo di umorismo serve a rendere accettabile (e affascinante) una realtà spesso difficile o statica. Il riso è un elemento di catarsi, che sposta la quotidianità verso un piano più leggero e sopportabile.

   C’è infine un umorismo più amaro e di denuncia e molti autori calabresi usano l'ironia in modo obliquo, unendo l'osservazione sociale al disincanto, creando una comicità agrodolce che non nasconde le problematiche (emigrazione, burocrazia, malcostume). La risata è usata come un'arma di critica. L'eccesso e l'iperbole diventano un modo per mettere a fuoco le disfunzioni sociali e politiche della regione. Dunque l'umorismo nella letteratura calabrese è un elemento essenziale per la sua identità narrativa. È un modo per sopravvivere alla realtà attraverso l'arguzia e per raccontarla in modo indimenticabile attraverso il filtro del grottesco e del surreale. Tuttavia, mentre per il passato questa classificazione può reggere, per il presente l’evoluzione dell’iperbole umoristica e le sue sfaccettature sono talmente singolari che possono sfuggire a ogni classificazione: a titolo esemplificativo tento un brevissimo confronto di due autori del passato, Bruno Pelaggi e Michele Pane, con due contemporanei, Domenico Dara e Mimmo Gangemi. 


BRUNO PELAGGI (1839-1915)

    Noto come “ Mastro Bruno “ ( originario di Serra ), è una figura cardine della poesia dialettale calabrese. Il suo stile è passionale, ma alterna momenti di lirismo a feroci invettive satiriche a espressioni di sconforto esistenziale, spesso rivolgendosi in modo polemico a entità superiori o simboliche (la Luna, Dio). Il suo umorismo è più legato al grottesco e alla protesta che genera un riso di sfida e disperazione.Ecco un rapido esempio: Mastro Bruno si rivolge alla Luna, personificandola e lamentandosi della propria sorte con un tono che unisce sconforto a una comica e rassegnata indignazione:

...Jio sparti mo' sapìa / cà mancu 'n casa mia / puozzu muriri?! Mu mi 'ndi puozzu jiri / vurrìa, allumènu a ppedi; / cà si 'n casu adapèdi / viegnu menu, vurrìa mu sugnu armenu / si m'atterranu nudu. è puru assai!...

...Luna, si non niscìa, / quant'era miegghju! Ma mo' chi cazzu pigghju / ca ti lu dicu a ttia: para ca sienti a mmia... / Cchiù crudeli di chistu!: si tti gustasti a Cristu / chi murìa! Jio mo' chi bolarìa, / di mia mu sienti pena? Tu ti guodi la scena / e passi avanti!...


    Prevale sicuramente l'elemento divertente unito a quello grottesco: la comicità nasce dal lamento esasperato e dall'accusa diretta e blasfema alla Luna. Il poeta paragona il suo patimento a quello di Cristo e si lamenta che persino la Luna si diverte a guardare lo spettacolo. Il "è puru assai!" riguardo al fatto di essere sotterrato nudo è una nota di autoironia estrema che alleggerisce il dramma. 


MICHELE PANE (1876 – 1953) 

 
   È’una figura fondamentale e spesso sottovalutata della poesia dialettale calabrese. Originario di Decollatura (in provincia di Catanzaro), è stato un poeta dalla sensibilità complessa, capace di spaziare dal lirismo profondo e contemplativo fino alla satira sociale più aspra. La sua opera è un ponte tra la tradizione contadina e le inquietudini del Novecento, e il suo stile è caratterizzato da una lingua dialettale ricca e potente. Pane è noto per aver usato il dialetto non solo come veicolo per esprimere la nostalgia per il paesaggio e gli affetti, ma anche come "ortica e frusta" (come lui stesso definiva la sua poesia) contro l'ingiustizia e l'ipocrisia del suo tempo.A differenza di altri poeti che usavano il dialetto solo per la descrizione idillica, Pane lo elevò a strumento di protesta civile e satira morale contro i poteri locali e la corruzione Tutta la sua poesia è intrisa di un profondo amore per la Calabria rurale, descritta con un realismo che non ignora la miseria, ma ne esalta la dignità. Il suo umorismo è quasi sempre amaro o caustico. Non cerca la risata facile, ma la riflessione sulla condizione umana.

    Per mostrare il lato più pungente e satirico di Michele Pane, ecco un brano (in dialetto catanzarese/decollaturese) in cui l'autore affronta la questione del lavoro e dello sfruttamento, tipico del suo spirito di denuncia.

Mu cunta u Patre eternu: ccu 'ssi cosi jìu cchiù nci vegnu menu, mu mi fici, si li ricchi si 'ndi piglianu a li nuosi u suduri e u travagghiu cch'à li dici! 
E nci parra u Patre eternu ccu nna frevi ca nci fa tremà l'ossu e l'anima: «Vui li ricchi mi 'ndaviti 'i vvi 'ndirigi a cu fatiga 'e mori, e nun vi chjama!» 
«Cchiù jè povaru e cchiù si 'ndi suttana, cchiù l'ati chi lu vèstinu 'i ritali, si 'ndi parra 'i liggi, sunu 'na campana, ca 'ndi squatra, e nun duna lu panali!»



DOMENICO DARA (Nato nel 1971)

    Originario di Girifalco (CZ), è uno dei nomi più rappresentativi della narrativa calabrese attuale. La sua scrittura è un insieme originale di realismo magico, malinconia e umorismo sottile. L'ambientazione è sempre il piccolo paese, dove il tempo sembra essersi fermato, e consente al lettore di osservare personaggi fissati nelle loro manie e ritualità. La comicità di Dara non è data dalla battuta facile, ma dall'arguzia surreale e dall'osservazione poetica delle assurdità umane. Il protagonista del suo “ Breve trattato sulle coincidenze (2014)” è il postino di Girifalco, che, leggendo le lettere dei compaesani, crea una mappa emotiva e comica del paese. Il brano seguente è significativo in tal senso: usa l'iperbole e l'assurdo per suscitare il sorriso:

«In paese la vita era lenta. Molto lenta. Quando una persona moriva, si aspettava che trascorressero almeno due giorni prima di avvertire il prete, perché, dicevano gli anziani, “non si può disturbare il Signore per ogni sciocchezza.” Era un modo per dare a tutti il tempo di capire che la persona in questione era davvero passata a miglior vita e non stava semplicemente dormendo un sonno profondo. E poi, c’era un’altra cosa che si diceva, sussurrando: “Se vedi un defunto che ti sorride, vuol dire che si è finalmente liberato dalle pretese dei vivi e che tu, invece, sei rimasto a fare la figura dell’idiota.”»

«Capitava di frequente, specie d’estate, che la gente scambiasse per fantasmi i forestieri che si avventuravano in paese dopo il tramonto. Il fatto era che i fantasmi, a Girifalco, erano considerati una presenza discreta, quasi dei vicini di casa, mentre i forestieri erano creature esotiche, vestite male e con la fretta negli occhi, quindi molto più spaventose.»


   Dara sembra essere la dimostrazione vivente che l'umorismo calabrese contemporaneo ha abbandonato la satira politica urlata per concentrarsi sulla filosofia comica del vivere, unendo l'affetto per il proprio mondo alla consapevolezza delle sue ingenuità. 


MIMMO GANGEMI(nato nel 1950)

   Originario di Santa Cristina d'Aspromonte (RC), è noto per i suoi romanzi che affrontano temi complessi come la 'Ndrangheta, la Giustizia e la storia calabrese. Sebbene il suo genere principale sia il dramma o il thriller, la sua narrativa è costellata di un'ironia tagliente e di una capacità di disegnare personaggi e situazioni con un grottesco amaro tipico della tradizione meridionale. Il suo umorismo emerge nel contrasto tra la grandiosità dei problemi e la meschinità o l'eccentricità delle reazioni umane e molto spesso si può notare come egli usi l'ironia per descrivere la logica contorta e surreale delle dinamiche sociali e spesso anche criminali nei paesi dell'Aspromonte.

   Nel romanzo “ La signora di Ellis Island (2011)” l'autore descrive l'atteggiamento dei personaggi di paese di fronte a un'azione "fuori dall'ordinario," con una vena di ironia che trasforma il dramma in osservazione sociologica:

«L’unica cosa che in Aspromonte non destava sospetti era la normalità, e la normalità era che tutti, prima o poi, facessero qualcosa che non rientrava nella normalità. Se l’avvocato Trocino avesse cominciato a passeggiare nudo per la piazza, avrebbero detto: ‘È la sua eccentricità, l’ha sempre avuta.’ Ma se avesse cominciato a sorridere e a salutare tutti con troppa cortesia, avrebbero pensato: ‘Certo che è strano. O ha venduto la casa al mare o si è messo in testa di fare l’informatore.’»

«In quel mondo, la bugia era una valuta, la verità era un lusso. Se un uomo di rispetto ti diceva: ‘Non ti preoccupare,’ dovevi preoccuparti il triplo. Se ti diceva: ‘Sono qui per aiutarti,’ dovevi scappare più veloce di un capriolo. L'unica cosa che si poteva prendere alla lettera era quando qualcuno ti diceva: ‘Mi hai stancato,’ perché in quel caso, era quasi certo che, prima della cena, avresti avuto un problema serio.»


    L'elemento comico e ironico si concentra sul grottesco della normalità: Il primo brano è un'arguta riflessione sulla percezione sociale: in un contesto anomalo è l'eccessiva normalità (essere troppo cortesi) a destare il massimo sospetto che porta alla conclusione che un sorriso anomalo è segno di un tradimento economico o addirittura criminale. Il secondo brano invece usa l'aforisma per descrivere in modo comico-amaro il codice non scritto delle relazioni umane. Il paradosso è umoristico: più rassicurante è la parola, più grande è il pericolo e l'unica verità affidabile è l'espressione di stanchezza che precede il caos. In tal modo Gangemi sembra piegare l'umorismo a strumento per svelare la logica interna, spesso assurda e disfunzionale, della Calabria.

Bruno Demasi