mercoledì 30 luglio 2025

DOPO 90 ANNI LA CALABRIA ANCORA AMARA E DOLCISSIMA DI CESARE PAVESE ( di Romano Pesavento)


   In queste settimane ricorrono i 90 anni dall’arrivo di Cesare Pavese al confino di Brancaleone Calabro ( 4 agosto 1935) e i 75 dalla sua prematura scomparsa (27 agosto 1950): come si fa a non ricordare queste due date tanto importanti non solo per gli studiosi dello scrittore e poeta piemontese, ma anche per la terra di Calabria che a lui deve una visione di sé assolutamente inedita eppure ancora oggi poco conosciuta? Ho accennato a Pavese qualche tempo fa su questo blog ( Clicca qui per aprire l’articolo: UN BRANCO DI ALUNNI DISTRATTI , BRANCALEONE E CESARE PAVESE  ), ma non si può assolutamente trascurare l’immagine emozionante qui colta da Romano Pesavento, che, ricostruendo la vita di Pavese immersa nella realtà di Brancaleone, dà vita a una pagina di rara suggestione. Vi coniuga infatti l’ammirazione per la figura di un  innamorato di questa terra col fascino della  narrazione   di ciò che gli occhi dell’esule vedono  di volta in volta in  flash che sanno di eterno  e fa rivivivere   il rapporto  strettissimo tra un poeta vero e quella terra di Calabria che , malgrado tutto, della poesia sa essere ancora custode fiera e  gelosa. (Bruno Demasi)

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    Passeggiando tra le campagne e le spiagge assolate, tra gli angoli remoti e gli sguardi greci degli abitanti, nel caldo abbacinante estivo di un piccolo paesino, Brancaleone Calabro, situato sulla fascia ionica..., non può che venire in mente agli amanti della letteratura la figura di un intellettuale piemontese: Cesare Pavese. Egli seppe cogliere sfumature e dettagli dei nostri luoghi e della nostra gente ancora attuali, vividi ed efficaci: “La gente di questi paesi è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era greca. Persino le donne che, a vedermi disteso in un campo come un morto, dicono 'Este u’ confinatu', lo dicono e lo fanno con una tale cadenza ellenica che io mi immagino di essere Ibico e sono bello e contento. I colori della campagna sono greci. Rocce gialle o rosse, verdechiaro di fichindiani e agavi, rose di leandri e gerani, a fasci dappertutto, nei campi e lungo la ferrata, e colline spelacchiate brunoliva.” ( lettera alla sorella Maria dal confino, 27.12.1935); ed ancora nella lettera del 9 agosto 1935 indirizzata a Maria ,si legge: “Qui ho trovato una grande accoglienza: brave persone abituate al peggio cercano in tutti i modi di tenermi buono e caro….Che qui siano tutti sporchi è una leggenda, sono cotti dal sole…”.
   
    Indipendentemente da queste riflessioni, per certi versi benevole e lusinghiere, nei confronti della terra di confino, bisogna riconoscere che, come è stato osservato da più parti e come lo stesso Pavese sottolinea più volte, l’approccio, l’incontro con il mondo calabrese non è stato tra i più facili: troppa era la distanza tra il colto, ironico, malinconico intellettuale piemontese e la “selvaticità” del paese di confino. “La mia stanza ha davanti un cortiletto, poi la ferrovia, poi il mare. Cinque o sei volte al giorno mi si rinnova così la nostalgia dietro i treni che passano. Indifferente mi lasciano invece i piroscafi all’orizzonte e la luna nel mare che con tutti i suoi chiarori mi fa pensare solo al pesce fritto. Inutile, il mare è una gran vaccata.” (Lettera a Maria 19.08.1935.)   Eppure il soggiorno forzato nella nostra terra (dal 1935 al 1936) ha rappresentato un fondamentale punto di svolta nella produzione lirico-narrativa del poeta; tale concetto può essere sostenuto e dimostrato con reale evidenza di fatti. “Fatti” letterari e biografici, per intenderci. Ricostruire il percorso umano ed artistico dello scrittore piemontese è possibile attraverso le opere e attraverso – forse in modo anche più fruttuoso – gli sfoghi diaristici, gli scambi epistolari con le persone care della sua vita.

   Pertanto, pur non avendo la pretesa di avventurarci in un’esegesi del pensiero pavesiano, mediante la lettura attenta di questo vasto materiale, anche al lettore meno “istruito” possono presentarsi con immediata vivezza immagini, echi, suggestioni intrisi dei profumi, dei colori dei nostri luoghi, con tutto il bene e il male che ne deriva.

   In alcuni passi dedicati nel carteggio alle nostre zone Pavese, a tratti, manifesta un senso di fastidio – se non di vero e proprio orrore – verso luoghi malsani per la propria cagionevole salute: inverni piovosi e umidi ed estati torride e infestate da voraci e ipercinetici scarafaggi; per non parlare della percezione soffocante della noia, comune denominatore delle giornate di confino, vissuta come un tarlo interiore inesorabile, di sapore dichiaratamente “leopardiano”. 

  Nelle lettere, molto spesso, è ostinatamente mantenuto una sorta di distacco ironico tra la realtà di Brancaleone e lo sguardo “estraneo” e straniero di Pavese; a tratti, questo costante senso di lontananza fa pensare ad un proposito, da parte dello scrittore, di non legarsi ai luoghi del confino, allo scopo di viverli essenzialmente ed esclusivamente come un/ il carcere. In alcuni passi egli ama dipingersi come una figura “epica”, dai tratti tragi-comici, in balià di situazioni che definisce “disgrazie”.Tuttavia,è proprio l’esperienza della solitudine, fino ad allora sempre inseguita come unico “status possibile" nella falsità sociale, a produrre nell’autore il tanto agognato salto qualitativo in campo artistico. In un certo senso,possiamo dire che è proprio l’isolamento di Brancaleone, la riflessione forzata ,la ricerca interiore la “sedimentazione” più o meno consapevole di volti, immagini e situazioni calabresi a produrre quel turbamento interiore foriero di cambiamenti determinanti nell’uomo e nel letterato. Ed è proprio a Bancaleone che Pavese volge il suo sguardo durante la stesura e la rielaborazione delle sue esperienze di confinato nel racconto – fortemente autobiografico – Il carcere.

    La natura, la donna, la povertà e l’ambiguità passionale degli abitanti sono proposti ai lettori come un mistero insondabile e inspiegabile. Forse per capire il/i sentimenti molteplici e contrastanti dello scrittore nei confronti della Calabria si può partire giusto dalla figura di Concia, presenza enigmatica in tutta l’opera e mai disvelata fino alla fine: “La sua fantasia diede un balzo quando vide un mattino su quella scaletta una certa ragazza. L’aveva veduta girare in paese –la sola- con passo scattante e contenuto, quasi una danza impertinente, levando erta sui fianchi il viso bruno e caprino con una sicurezza ch’era un sorriso. Era una serva …È bella come una capra. qualcosa tra la statua e la capra…” ("Il carcere") 

  Concia parla e interagisce poco con gli altri personaggi ; eppure nella sua inafferrabilità, nella sua duplice natura umana e ferina, non solo permea di sé tutta la vicenda, ma addirittura sembra incarnare la complessità di un intera terra : selvaggia e aggraziata, misera e canzonatoria, rassegnata e violenta.Concia è un po’ l’emblema di quella donna-Natura che ritroviamo in tante poesie di Pavese e fa pensare a quelle creature della mitologia greca (satiri, sirene ed altri “ibridi”), capaci di destare ammirazione e panico (dal nome del dio Pan)in chi le osserva ; qualcosa di simile doveva provare Pavese per il suo personaggio, creatura non nata dall’estro artistico ma da un incontro reale con una donna di Brancaleone, il cui nome era davvero Concetta. E anche il mare, il mare ionico, come Concia, costituisce una presenza ossessiva e simbolica con la sua carica di significati ancestrali e terrifici nell’immaginario e nel vissuto dello scrittore: il mare è la vita, la morte, desiderio di fuga e prigionia, è la distesa placida e il pericolo in agguato. Probabilmente sono la “doppiezza”, il “bifrontismo”, la complessità di luoghi e persone a disorientare, intimidire e irritare,a volte, lo scrittore, che, tuttavia, riesce a trasmettere tutto il suo disagio e la sua meraviglia in ogni singola pagina.
   
    In definitiva, le descrizioni di luoghi e visi captano molto più di quanto si possa prefiggere la nuda referenzialità: Pavese riesce a carpire, a tratti, quello che è il mistero, l’essenza, lo spirito del Sud di allora :” Gli antri bui delle porte basse le poche finestre spalancate e i visi scuri,il riserbo delle donne anche quando uscivano in strada a vuotare le terraglie, facevano con lo splendore dell’aria un contrasto che aumentava l’isolamento di Stefano”.“le prime case avevano quasi un volto amico. Riapparivano raccolte sotto il poggio, caldo nell’aria limpida, e sapere che davanti avevano il mare tranquillo le rendeva cordiali alla vista ….” ("Il carcere"). Ombra e luce, attrazione e repulsione si fondono quasi alchemicamente nella tessitura della “poesia racconto” di chi ammetterà in seguito di aver guardato con “occhi tanto scontrosi” alla realtà calabrese. Occhi che di certo non mancano di acutezza, e forse non erano del tutto immuni dalla malìa della nostra terra. 
                                     
                                                                                                                  Romano Pesavento 

mercoledì 23 luglio 2025

IL CULTO DI SAN FRANCESCO DI PAOLA NELLA VECCHIA E NELLA NUOVA OPPIDO ( di Rocco Liberti)

           LA CHIESA DEL BUON CONSIGLIO, DETTA OGGI "CHIESA DI SAN GIUSEPPE"

   Dopo oltre un anno di chiusura la chiesa  dedicata alla Madonna del Buon Consiglio in Oppido Mamertina vede in questi giorni l'inizio di importanti  e onerosi lavori di restauro, resisi necessari , tra l'altro,   per salvaguardarne la stabilità minata da qualche tempo da  insidiose crepe, che interessano la volta della  cripta subpresbiteriale,  e  per il consolidamento del tetto, a sua volta  negli anni oggetto di scompiglio ad opera del Libeccio e del Levante. Una chiesa peraltro  duramente provata nei secoli dai frequenti terremoti, in particolare da quello del 1908, ma tenacemente arroccata nella sua signorile bellezza che i frequenti rimaneggiamenti murari non sono riusciti a guastare . E' un tesoro architettonico che, pur  quasi anonimo nel suo insieme, rivela all' occhio attento una somma di bellezze antiche e meno antiche che coesistono  in una dignitosa  armonia architettonica  di insieme che negli altari centrale e laterali, nei dipinti , nella cripta  dalla volta superba, nel  putridarium limitrofo a quest'ultima  e persino negli annessi laterali dell'edificio  raggiunge  vertici di virtuosismo artistico a lungo studiati dal compianto architetto Antonio Paiano, innamorato di questo complesso sacro, tanto da dedicargli  gratuitamente e volontariamente molti dei sui attentissimi studi  a livello storico-architettonico ed artistico, finalizzati  non solo alla sua conservazione e al suo consolidamento, ma anche  alla sua valorizzazione. Una chiesa  che non soltanto  gli addetti ai lavori, ma tutta la gente oppidese, gelosa custode delle proprie glorie, amano centimetro per centimetro, persino nelle piccole pietre che la compongono e che sa parlare al cuore di tutti il suo straordinario linguaggio muto ed eloquente  più esplicito sui volti di tante statue incredibilmente belle  e di tanti dipinti che ne popolano l' unica e superba navata. Sicuramernte   la più antica di tali statue è  quella di San Francesco di Paola. A questo santo che per moltissimo tempo contraddistinse e impregnò l'edificio sacro  col suo culto indomito, è dedicata questa ricca e informatissima pagina  dello storico Rocco Liberti, già  compresa vari  anni fa, in un contesto più  generale di studio e di narrazione,  sul n. 62 dei "Quaderni Mamertini" ( " Il culto di San Francesco di Paola nella piana di Gioia Tauro" - Settembre 2005). Ringrazio l'Autore per questa ennesimo dono che arricchisce le memorie oppidesi e insieme a tutti mi auguro  vivamente che presto la chiesa  del Buon Consiglio o  di San Giuseppe o di San Francesco da Paola possa essere restituita in sicurezza e in tutta la sua commovente  bellezza al culto cittadino e diocesano. (Bruno Demasi)

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     Stando al Fiore ( P. Giovanni Fiore da Cropani ) ed allo Zerbi (Candido Zerbi), i Minimi si sarebbero installati a Oppido nel 1610 - il Roberti ha indicato invece il 1611 - mercè l’interessamento del vescovo Cesonio e le sostanze del nobile Camillo Sertiano, che vi avrebbe contribuito parzialmente [1]. Come stanno veramente le cose al riguardo lo apprendiamo al solito dalla relazione allestita in successione alla costituzione innocenziana del 1649. Ecco quanto scrivevano a Roma il 25 febbraio 1650 i frati Giacinto Camastra di Maida correttore, Giacomo Filippone di Siderno, Domenico Filipponi di Siderno, Giacomo Lombardo di Oppido:

    Detto Monasterio è situato entro le mura della sudetta Città, la quale (respective) è populosa, ricca, e nobile, e con divotione frequenta à detto luogho; fù fondato, et eretto l’anno 1611. alli 9. d’8bre con l’assenso, et autorità del P. Andrea di Zambrone allhora Provinciale, e del Sig. D. Antonio Cesonio allhora Vescovo della sudetta Città, con obbligho di pagare al sudetto Vescovo la quarta funerale, con assegnamenti di due Capitali di Scudi Romani nove Cento Cinquanta l’uno, fatti dal qm. Sig.r Abbate Scipione Sertiano, e dal qm. Camillo Sertiano ambi fondatori. 
    Ha la Chiesa, ove si celebra sotto il Titolo, et invocatione di S.to Francesco di Paola fornita di mura larghe due palmi, e mezzo, coverta, e lunga palmi Cento; un Dormitorio gionto à mezza fabrica capace di quattordice stanze, che si fornirà fra cinque anni; al presente li frati habitano in una casa di mediocre Commodità comprata insieme con altre Casuccie per dar sito al detto dormitorio Scudi Rom. due Cento Cinquantasette, pauli quattro, e baiocchi cinque, presi dal Capitale di scudi nove Cento Cinquanta assignato per la fabrica solamente sintanto si fornirà, dopo d’applicarsi per vitto, e vestito dal qm. Sig. Camillo Sartiano predetto, quale Casa è posta dentro il Sito, e Circonferenza di detto Monasterio, che fa quasi un corpo con la predetta nuova fabrica. 
    Il numero dei Frati Commoranti in esso fù di Sei, al presente sono Sette cioè il P. fra Giacinto Camastra di Mayda Correttore, il P. Giacomo Filippone di Siderni, il P. Gio: Lombardo d’Oppido Sacerdoti, Frà Carlo Rijtano d’Oppido Chierico, Frà Antonino di Ieraci oblato, fra Gregorio Iermanò di Sinopoli Tersino, con commodità d’un orto d’un quarto di Tumulo di Capacità solo coltivabile nell’Inverno, et il Terzo d’esso doverà essere occupato dalla Clausura da farsi [2]… 


 Una iniziale indiretta nota sull’esistenza di una casa di minimi a Oppido, che la pianta prospettica del Pacichelli poi ci rappresenterà situata nei pressi del castello, come peraltro si evince oggi dai pochi ruderi rimasti, ci viene da un atto notarile, che evidenzia la residenza in città nel 1663 di un correttore nella persona del padre f. Francesco Massone. Ad essa ne segue altra identica, che riferisce come l’anno successivo risultasse correttore invece il rev. f.Silvestro da Roccella [3]. Una piena conferma che all’epoca l’istituzione fosse già una realtà ci deriva dalla relatio officiata nel 1666 da mons. Paolo Diano Parisio, con la quale questi tenne ad informare la S. Sede come al centro diocesi si riscontrassero allora tre conventi maschili, non più due e, cioè, i soliti pertinenti ad osservanti e cappuccini [4]. Sarà lo stesso vescovo nel 1673, con altra relatio, a specificare che in Oppido al pari dei citati ordini monastici, agiva pure quello dei minimi di S. Francesco di Paola, che vi aveva un proprio cenobio [5]. Rinnoverà l’informazione nel 1675, 1678, 1685, 1688 e 1692 il successore mons. Vincenzo Ragni [6]. Allo stesso modo si uniformerà nel 1695 mons. Bernardino Plastina, di Fuscaldo e del seno dei minimi [7].

    Da alcuni rogiti balzano i nominativi degli scarsi frati che, nella 2a metà del XVII sec., erano di stanza nel convento. Nel 1681 risultava con mansioni di vicario il veneziano Michelangelo Gristi, indubbiamente la stessa persona che Michelangelo Grissi, autore in Venezia nel 1707 per Domenico Lovisa dell’operetta La Quaresima perpetua de’ Religiosi Minimi, cioè Istruttioni a’ Novizzi, et a’ Neofiti alla Professione per la retta osservanza del quarto voto, Humiliate al Santo Padre Francesco de Paula Institutore del medesimo [8]. Gristi poteva contare allora appena sull’apporto di un solo sacerdote, p. Domenico da Anoia e su quello di due frati laici, Andrea da Galatro e Agostino da Gerace. Nel 1682 detti figuravano tutti confermati, ad eccezione del sacerdote, il posto del quale era stato preso da p. Vittorio da Roccella. Per il 1608 non è segnalato alcun incaricato. Si avverte solo la presenza di due sacerdoti, i pp. Domenico da Laureana e Francesco da Nicotera e del frate laico Lorenzo da Tropea [9].

      Nel dicembre del 1699 il vescovo mons. Bisanzio Fili, con la sua coeva relatio, volle essere più circostanziato dei predecessori e venne a tramandare un dato, che permette di conoscere in modo preciso l’importanza del convento di pertinenza dell’ordine dei minimi. Scriveva, infatti, quel presule che tal monastero si trovava soggetto alla sua giurisdizione, in quanto non ospitava frati in numero sufficiente [10]. Gli stessi particolari l’ordinario li replicò con le relationes del 1702 e 1705 [11]. Nel 1706 figurava in qualità di vicario f. Gennaro Nani, mentre per il 1710 era dato in tale veste p. Giacinto da Tropea, che godeva della compagnia di altro sacerdote suo conterraneo, p.Placido [12]

    Nel 1715 era vescovo una delle glorie dei minimi, Giuseppe Maria Perrimezzi di Paola. Costui, però, malgrado potesse dire tanto sull’istituzione trovata in diocesi, si limitò a comunicare che, al pari delle altre due, agiva con grande edificazione del popolo. Così avvenne anche con la relatio del 1729, con la quale esternò soltanto che i minimi, come i domenicani di Messignadi, vivevano con buoni costumi e applicavano la regolare disciplina. Nel 1733, classificando piccoli i due cenobi, nei quali risiedevano i citati monaci, aggiunse che, se un tempo aveva scoperto che questi ultimi conducevano una vita meno religiosa ed evitavano d’incitare le folle, non aveva esitato ad intervenire con i superiori, onde trovare un giusto rimedio, non prescindendo anche dall’allontanamento degli stessi e che alla fine l’inconveniente lamentato era del tutto sanato. Al Perrimezzi si deve un mezzo busto in argento del santo di Paola, che sparì in circostanze poco chiare dopo il sisma del 1783 [13].

     Nel 1725 il vicario del conventino era configurato in un primo tempo in persona di p. Giacinto Fossare, quindi di p. Felice Maria Fossare da Oppido. Al tempo si segnalavano anche un f. Giuseppe A. da Zungri ed un Tommaso Corica, che per la devotione, che disse portare, e porta al Glorioso S. Francesco di Paola si è risoluto farsi Religioso terziario di detto Venerabile Convento, per cui venne a rinunciare ai beni terreni. L’anno successivo era dato ancora presente il predetto f. Giuseppe, ma in più si riscontrava un lettore, che rispondeva alle generalità di f. Antonino di Cirò. Il fatto che nello stesso 1725 risaltasse la sepoltura, davanti all’altare del Titolare, del canonico cantore d.Vincenzo Malarbì, deceduto nell’ottobre del 1724, che all’uopo aveva lasciato 100 duc. per celebrazione di messe, ci spinge a pensare o che tale avesse ben meritato per aver svolto qualche particolare funzione nel monastero o che la sua famiglia avesse avuto parte rilevante nella fondazione dello stesso o in lavori eseguiti successivamente ed avesse praticato una specie di protettorato, così come accaduto per i Grillo con i cappuccini e per gli Zerbi con gli osservanti. Per il 1726 è dato avvertire la permanenza a Oppido di altri paolotti, i pp. Francesco Maria La Ruffa, lettore giubilato e provinciale dei minimi e Antonino Gesualdo, lettore di filosofia al seminario. Entrambi sono notati per la partecipazione al sinodo promulgato dal Perrimezzi. Il motivo della presenza, soprattutto del primo, a Oppido nell’occasione è facilmente intuibile. Nel 1727 risulta ancora vicario il predetto f. Felice Maria Fossare [14]. Durante il vicariato di p. Reginaldo Madrucci, nel 1741, ancora un esponente della famiglia Fossare, il magnifico Carlo, figlio del notaio Domenico, risolvette di lasciare il secolo e farsi frate minimo e lo fece, è detto nel relativo rogito, come ispirato da Dio [15]. A metà del secolo, proprio nel 1750, il convento sicuramente dovette allargare i termini della sua importanza. Ce lo conferma chiaramente la lista di ben 6 persone presenti all’epoca. Erano il vicario p. Giovanni Rangoni, i sacerdoti pp. Agostino Conforto, Marco Mancuso, Gaetano Anania ed i frati laici Gregorio di Bagnara e Antonio Giuseppe da Zungri [16]. Del Mancuso troviamo tracce fino al 1758 nei registri parrocchiali. 

   Mons. Ferdinando Mandarani dedicò ai minimi un’intera pagina della sua relatio nel 1751, dove venne a trattare esclusivamente della liceità o meno di consentire alle fondatrici od alle mogli dei fondatori l’ingresso nei loro chiostri, cosa che allora si pretendeva, non essendo stati indicati espressamente i conventi dei paolotti nella recentissima costituzione papale de clausura Virorum Regularium. Secondo quanto si stimava, era consentito che tali persone potessero accedere nel luogo monastico facendo a meno del Privilegio Apostolico. Era sufficiente al proposito l’esibizione di Lettere Patenti rilasciate dal padre generale dell’ordine, dalle quali poteva ben rilevarsi la coniunctio, et descendentia dai fondatori. E se non era lecito trovarsi alcuna chiesa od oratorio, a cui si pervenisse direttamente per l’esercizio delle pie opere, era tuttavia permesso arrivare fino ai dormitori dei frati, all’orto ed alle officine. Tutte queste pretese risultavano avvalorate da varie considerazioni. Per prima cosa si sosteneva che il papa ogniqualvolta aveva parlato dei regolari nel loro complesso non aveva mai esteso il suo dire ai minimi. Quindi, si mettevano le mani avanti dichiarando che la questione delle fondatrici era stata già affrontata in chiari termini nel corpus degli statuti dello stesso ordine. Il Mandarani si espresse a riguardo affermando di credere che tale argomento riuscisse del tutto rovesciato rispetto alla lettera ed allo spirito della citata costituzione, ch’era stata concepita con rilevantissime clausole e deroghe e tenne ad assicurare i superiori che la sua azione rimaneva ben salda ed ancorata a ciò ch’era stato da loro prescritto [17]. Che il Mandarani ed anche i predecessori tenessero in gran conto il più santo dei Calabresi è provato dall’esistenza nel 1769 nella cappella vescovile di un quadro ornato con cornice di legno dorato di S. Francesco di Paola, che, assieme ad altro raffigurante S. Giuseppe, facevano da corona a quello della Madonna, che troneggiava in mezzo [18]

  Un rogito dell’anno 1768 ci fa partecipi di un singolare episodio, al centro del quale si venne a trovare un frate del conventino oppidese, p. Giacomo Anania. Il 7 luglio di quell’anno Caterina Latorre di Messignadi si recò dal notaio e, per discarico di sua coscienza, volle che venisse registrato un evento in cui, suo malgrado, era stata coinvolta. Il giorno 1 la predetta stava in uno stabile di c.da Gurna, quando delle voci concitate ne attirarono l’attenzione. Fattasi presso per vedere cosa succedeva, le si parò innanzi il p.Anania molto pallido con volto cadaverico, ma non rese conto di nulla. Apprese dopo da Giuseppe Lumbaca e dal di lui fratello ch’era scoppiato una lite tra detto frate ed il sac. d. Vincenzo Malarbì. Questi, apostrofando l’altro con parole ingiuriose come cornuto, malandrino, gli tirò un colpo di ronca quasi per tagliargli la testa, al che il malcapitato proruppe in un becco cornuto mi ammazzasti. Ciò accaduto, si diede corso ad una causa criminale presso la reverenda curia e la donna, com’era logico attendersi, dovette rispondere quale teste, ma, prima di potersi esprimere liberamente, venne subornata dai parenti del Malarbì, in particolare da rev. d. Domenico Gagliardo di Messignadi, Giuseppe Malarbì fratello dell’offensore, Elisabetta Martello Donna di casa ed Antonio Aracri zio del medesimo e fu convinta a testimoniare il falso. La sua condotta le valse l’offerta di un quartuccio di olio, fave ed altro, nonché di 5 carlini [19].

     Nel 1764 era correttore p. Gaetano Anania. Altri frati risultavano Marco Mancuso, Raffaele Grande, Tommaso Riolo, Luigi Labuccetta e Giuseppe da Zungri. Quattro anni dopo il primo figurava in veste di Vicario del Collegio Provinciale e di Procuratore della Fabbrica del Convento [20]. Ancora un rogito fa presente nel 1773 il nucleo dei frati minimi ricettato in Oppido. Si rilevavano al tempo i pp. Giuseppe Pratticò correttore, Ignazio Gasparro definitore, Giuseppe Alessi, Giuseppe Mazzitelli, Giuseppe Laganà ed il laico f.Giuseppe da Zungri, di certo lo stesso che Giuseppe Antonio, varie volte citato [21]. Nel 1784 si configurava la presenza di 6 paolotti, cui assicuravano una tranquilla esistenza 40 fondi rustici. Tali fondi, che facevano assegnare il cenobio in 2a posizione rispetto a quello di Seminara, vantavano un’estensione di 138 tomolate e si ponevano al 5° posto dopo gli altri di Borrello, Seminara, Rosarno ed Anoia ed un valore di duc. 236,26, che permettevano di risalire al 4° [22]
   
   Distrutto come gli altri dal sisma del 1783, il convento dei minimi fu ripristinato nella Oppido nuova, ma ebbe vita breve essendo stato soppresso dai francesi con decreto del 7 agosto 1809 [23]. I frati, di cui risultava superiore nel 1801 f. Andrea Grillo e priore nel 1804 un f. Giovanni non meglio identificato[24], ebbero assegnato in c.da Tuba un suolo, quello stesso dove ora sorge la chiesa di S. Giuseppe, nel quale vennero a sistemare, come si legge in una lettera del 1868 indirizzata da Marcello Grillo al papa e conservata nell’archivio di curia, una Cappelluccia di tavole, nella quale officiavano quei Religiosi e che si tenne aperta al Culto Divino per molti anni dopo la loro espulsione. Partiti i frati, nella cappella s’intruppò una congrega di laici avente titolo della Santissima Annunziata (1816), ma successivamente, passata quest’ultima ad una chiesa nuova di zecca, certamente l’Oratorio, la costruzione fu liquidata ed il materiale di risulta venne acquistato dal padre del detto Grillo, che se ne servì per edificare una casa di campagna [25]

 Un’interessante conferma sul rifacimento del monastero nella nuova sistemazione urbana ci viene da una relazione che il vescovo Alessandro Tommasini spedì nel 1799 al marchese di Fuscaldo a Napoli. Vi si legge chiaramente che i Paolotti cominciano a fabricare, e nell’atto, che fanno il commodo per la loro abitazione, affittano i bassi, e le botteghe [26]. Ancora nel 1836 era dato rilevare le fabriche dell’abolito convento de’ PP. Paolini (sic!). Nel novembre, per il muro posto a scirocco, cui si trovavano addossate due beccherie e la pescheria e che minacciava di crollare, il sindaco Fedele Grillo, dietro le proteste degli abitanti, fu costretto a spedirvi un perito, il quale, resosi conto ch’era indispensabile provvedere all’eliminazione del manufatto, considerò in 8 duc. le spese necessarie. All’inconveniente si ovviò a dicembre successivo ed i lavori richiesero tre giorni e 3 operai con esborso di 6 duc. La canna ed un quarto di pietra risultante, del valore di duc. 4,50, venne consegnata, per applicarla alla fabbrica della nuova cattedrale, al vescovo, che l’aveva richiesta [27]

    Malgrado l’annullamento del cenobio decretato dal governo murattiano, il culto per S. Francesco in Oppido non venne certamente meno, anzi, se nella chiesa di S. Giuseppe rimase il simulacro un tempo di proprietà dei paolotti, nella prima chiesa adattata a cattedrale risultava nel 1821 una cappella in suo onore, cappella, che venne confermata anche nel nuovo tempio inaugurato nel 1844 [28]. Dal manoscritto Grillo del 1860 abbiamo infatti che, nella seconda cappella a destra per chi entrava appositamente dedicata si trovava sistemato un quadro del santo di Paola opera dell’artista Ulisse Griffon [29], sicuramente lo stesso che ancora oggi è posto nella sala d’aspetto dell’appartamento vescovile. Molto probabilmente, doveva esserci anche quel San Francesco ligneo opera di maestro serrese, che fino agli anni ’50 era abbandonato in un vano del seminario, e che nello stesso periodo l’amministratore apostolico mons. Nicodemo concesse alla chiesa di S. Giuseppe e che il popolino, sulla scia della tradizione comune a tanti altri posti, reputava autore di solenni e salutari bastonature. Un nuovo simulacro in gesso, acquistato subito dopo la conclusione della IIa guerra mondiale dal vescovo Canino, è tuttora allocato in una nicchia della cappella del S.mo Sacramento della cattedrale. Si trovano ancora nei locali della sede diocesana la statua prima ospitata in S. Giuseppe ed un grande quadro su tela. La prima si conserva in seminario, il secondo è stato affisso sulla parete di destra del salone della cattedrale. Nel 1860, come si legge nel prefato manoscritto, si svolgeva la festa del Taumaturgo di Paola dopo il 2 aprile, a cura del Procuratore D. Francesco Italiano, con la questua [30]. Nel 1929 esisteva ancora in Oppido un mendicicomio intitolato Ricovero S. Francesco di Paola fondato vari anni prima dalla nobile Beatrice Grillo, la cui famiglia, che a tutt’oggi custodisce un dipinto, era molto devota del Santo.

    Sono molti in Oppido a rimembrare la festa, che, soprattutto negli anni tra il 1930 ed il 1940 si celebrava in ogni 2^ domenica di luglio dai responsabili della chiesa di S. Giuseppe, con pulpito tenuto da valenti paolotti ed inni e canti profusi dal maestro Saverio Lentini all’organo e dalle cinque figlie, le cui voci assai intonate estasiavano e indirizzavano al canto i fedeli. Dalla memoria dell’amico Antonio Epifanio, che fu tre anni con i frati a Paola e ch’è appassionato frequentatore del santuario, siamo stati spinti a contattare la famiglia Lentini e dalla signora Ines, che ricorda quasi alla perfezione musica e parole, abbiamo ottenuto due inni in voga nel periodo citato e ch’è il caso di far conoscere in quest’occasione. Eccoli di seguito:


O vegliardo Paolano, 
gloria e onor dei Calabresi, 
ti onoriamo Oppidesi 
per Tua grande santità.
 
Inni cantiamo a Te che sei beato 
nello splendore della carità. 

Tu nascesti dopo un voto 
dai Tuoi umili parenti 
e quantunque indigente 
Tu gridasti: Carità! 

Inni cantiamo ecc. 

Giunto agli anni novantuno 
la Tua morte fu un sorriso. 
Ben ti accolse in Paradiso 
 la Divina Trinità.

Inni cantiamo ecc.
_______ 

O Francesco di Paola, un inno 
a Te innalzano i calabri liti, 
misto al canto dei sacri levìti 
il lor cuore consacrano a Te.

                              Tu benigno ne guarda e il sorriso 
                              di Tue grazie concedi a chi geme, 
                            fa che l’alme ritrovin la speme 
                       nelle amare tempeste del cor!

Le lor ansie le madri pudìche, 
i sospiri le giovani spose, 
le fanciulle le candide rose 
del lor core consacrano a Te.

                   Tu benigno ne guarda ecc.
 
Dalle valli ubertose, dai colli 
e dai campi baciati dal sole 
qual profumo di olenti viole 
…. emana a Te.

                       Tu benigno ne guarda ecc.. [31]



                                                                                                    Rocco Liberti
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[1] FIORE, Della Calabria …, II, libro II, cap. VIII, p. 424; C. ZERBI, Della Città, Chiesa e Diocesi di Oppido Mamertina e dei suoi Vescovi, Roma 1876, p. 294; ROBERTI, Disegno …, p. 159. 
[2] ASV, Relationes …, f. 502. Il Martire (D. MARTIRE, Calabria sacra e profana, II, Cosenza 1878, p. 465) indica il fondatore del convento come Andrea di Tropea. 
[3] SASP, Libro del prot. di nr. Camillo Vistarchi, S. Cristina, a. 1664. 
[4] ASV, Relationes ad Limina, Oppido, 598 A, vescovo P. Diano Parisio, a. 1666, f. 126v. 
[5] Ibidem, a. 1673, f. 142v. 
[6] Ibidem, vescovo V. Ragni, aa. 1675 f. 176v; 1678 f. 155; 1685 f. 157v; 1688 f. 163; 1692 f.171. 
[7] Ibidem, vescovo B. Plastina, a. 1695, f. 1°. 
[8] ROBERTI, Disegno …, pp. 643-646. 
[9] SASP, Libri del prot. dei notai Teodosio Fossare, Santa Cristina e Giuseppe Fossare, Oppido. 
[10] ASV, Relationes …, vescovo B. Fili, aa. 1699, f. 183; 1705 f. 199v. 
[11] Ibidem, a. 1702 f. 190; a. 1705, f. 199v. 
[12] SASP, Libri del prot. dei notai Giuseppe Vistarchi, Santa Cristina e Nicola Francesco Zerbo, Oppido. 
[13] ASV, Relationes …, vescovo G. M. Perrimezzi, aa. 1715 f. 206; 1729 ff. 238v-239; 1733 f. 248v; ZERBI, Della Città…, p. 354; AVO, Origine della Diocesi di Oppido, ms. a. 1860, pgf. 57. 
[14] SASP, Libri del prot. dei notai Domenico Fossare II, Oppido, a. 1725 e Domenico Romeo, Oppido, a. 1777; G. M. PERRIMEZZI, Prima Dioecesana Synodus, Neapoli 1728. 
[15] SASP, Libro del prot. di nr. Francesco Cananzi, Oppido, a. 1741. 
[16] Ivi, nr. D. Fossare II, a. 1750. 
[17] ASV, Relationes…, vescovo F. Mandarani, a. 1751, ff. 316-316v. 
[18] SASP, Libro del prot. di nr. Diego Francesco Argirò, Acquaro, a. 1769. 
[19] Ivi, nr. Antonio Costarelli, Iatrinoli, a. 1768. 
[20] Ivi, nr. G. A. Tropeano, Varapodio, a. 1764. 
[21] Ibidem. 
[22] PLACANICA, I redditi … 
[23] CALDORA, Calabria Napoleonica…, p. 226. I registri parrocchiali tramandano la presenza in Oppido nel 1801 anche di p. Fortunato Gemma. Sia il sisma che il decreto murattiano fecero sì che molti monaci andassero raminghi a cercarsi una qualsiasi sistemazione. Tra tanti, dagli atti dell’archivio diocesano ricaviamo che il 13 sett. 1785 p. Pietro Mastrodomenico di Cosoleto, d’accordo col parroco di Castellace, chiedeva al re di essere secolarizzato al fine di recare aiuto in parrocchia, non riuscendo nello stato in cui si trovava di veruno giovamento ne per se, ne per il paese, ne per i suoi, mentre in data successiva a detta legge ed a sua norma l’ex-correttore p. Francesco Surace fu secolarizzato, quindi potè essere inviato a fare da economo curato a Sitizano (AVO, fasc. vari). 
[24] AVO, atti vari; registri parrocchiali. 
[25] AVO. 
[26] AVO. 
[27] ARCHIVIO STATO REGGIO CAL. (=ASRC), Inv. 3, b. 110 n. 4809, Demolizione dei ruderi dei padri Paolotti. 
[28] R. LIBERTI, La Cattedrale e l’Abazia, “Calabria Sconosciuta”, VIII (1985), n. 30, p. 90. 
[29] AVO, Origine della Diocesi di Oppido, pgf. 52. 
[30] FIORE, Della Calabria…, p. 424; ROBERTI, Disegno…, p. 159; AVO, Origine della Diocesi…, pgf. 64. 
[31] Naturalmente, trattandosi di canti ricordati sul filo della memoria, qualche verso risulta incompleto e qualche altro, giocoforza, si è dovuto ricostruirlo.

giovedì 10 luglio 2025

VALENTINO GENTILE: L’ ERETICO CALABRESE RISCOPERTO DA VINCENZO VILLELLA ( di Bruno Demasi)

“Le vittime di Giovanni Calvino”, Reggio Calabria, Città del Sole, Ristampa 2025  

     Ritorna in libreria dopo quattro anni dal suo fortunato esordio, in una ristampa evidentemente molto attesa da tanti studiosi, e non solo da loro, il corposo dossier, che definire soltanto saggio di indagine storica è riduttivo, in cui Vincenzo Villella condensa con l’abituale rigore documentario, alimentato da una forza narrativa non comune, l’incredibile parabola umana e religiosa di un eretico calabrese del XVI secolo che la storia, grazie a questo lavoro miliare, può ormai collocare ben a ragione accanto alle figure di Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Michele Serveto e persino di Galileo Galilei.

   Una vicenda umana e religiosa , quella di Giovanni Vincenzo Gentile, decapitato in Svizzera nel 1566, di cui l’Autore segue meticolosamente tutte le tracce conosciute e meno conosciute, soprattutto quelle inedite, proprio da lui attentamente riportate alla luce e studiate insieme a un contesto culturale e religioso calabro e di tutto il Mezzogiorno poco esplorato, ma proiettato con incredibile modernità nel quadro contraddittorio dell’Italia e dell’Europa del Cinquecento e del Seicento. 

    Le tappe di questa storia umana, fortemente emblematica di un momento storico cruciale per la vita religiosa, indagate e ricostruite con estrema precisione da Vincenzo Villella lasciano sgomenti non solo per la loro drammaticità, ma per la chiarezza con cui fanno tornare in vita situazioni insospettabili di un’epoca tanto esaltante quanto contraddittoria, come l’Umanesimo, con tutte le sue conquiste, ma anche con i suoi risvolti controversi che danno vita alla Riforma e alla Controrifornma.

  Viene ricostruita inizialmente la formazione di Valentino Gentile nel substrato delle “ posizioni ereticali” che ne connotano i primi studi sui testi di Lorenzo Valla e di Erasmo da Rotterdam per arrivare ben presto agli approfondimenti napoletani nel circolo di Juan de Valdés, fino alla piena condivisione delle dottrine antitrinitarie e all’approdo a un atteggiamento di fede fondato in maniera assoluta ed esclusiva sulla conoscenza e la ponderazione della Parola di Dio. E’ una parte di questo lavoro davvero illuminante per chi voglia rivivere il clima di forti contraddizioni che caratterizza in termini di dibattito di fede la prima metà del Cinquecento, specialmente nel Meridione della Penisola. Ad essa fa seguito con irruenza la narrazione della fuga di Gentile in Svizzera e la sua frequentazione passionale della chiesa ginevrina impreganata e dominata dall’ ipse dixit calvinista . Si apre quindi uno spaccato davvero illuminante sull’esperienza straordinaria di Michele Serveto culminante nella sua condanna al rogo, che consente di collocare nella loro giusta dimensione sia il rapporto intercorrente tra l’esperienza di Gentile e la vicenda drammatica di Serveto stesso sia la figura intollerante di Giovanni Calvino che poi tanta parte avrà negli eventi successivi della vita dell’eretico calabrese. L’articolata parte successiva di questo studio presenta infatti Valentino Gentile coraggiosamente proteso contro l’autoritarismo dottrinario di Calvino in una polemica accesa fondata su solide convinzioni, che prendendo le mosse dall’arianesimo, lo conducevano su posizioni nettamente antitrinitarie e triteistiche. La reazione di Calvino fu durissima, tanto da costringere nella maniera peggiore il Gentile alla simulazione dell’abiura delle proprie convinzioni pur di poter sfuggire a un’incombente condanna a morte.
 
   Ma qual era esattamente il nodo del dissidio sanguinoso tra la tirannide dottrinaria di Calvino e le tesi di Valentino Gentile? L’Autore dedica anche a quest’analisi uno spazio ricchissimo di approfondimenti analizzando in maniera esaustiva, tutta la dottrina di Gentile e i suoi punti di maggiore attrito col Calvinismo, condensati nelle quaranta “Protheses” in cui il Calabrese esponeva coraggiosamente tutte le proprie convinzioni dottrinarie. E’ un’analisi serrata e avvincente che ci restituisce con immediatezza questo contrasto accesissimo, a causa del quale, sfuggito alla morte con l’abiura simulata, Gentile , dopo aver fortunosamente lasciato Ginevra, scappa in Polonia, da dove quasi subito viene espulso per le proprie idee, e si rifugia fortunosamente in Moravia e in Transilvania. La narrazione di questa odissea raggiunge in queste pagine accenti fortemente vivi, che diventano ancora più avvincenti nella documentatissima narrazione del rientro in Svizzera del Gentile presto arrestato e condotto a un umiliante processo durante il quale la sua stessa commovente autodifesa viene abilmente sfruttata dagli accusatori designati da Calvino come serbatoio per sempre nuovi capi di accusa che lo conducono irrimediabilmente nel 1566 alla decapitazione.

   Il resoconto vivido delle ultime drammatiche vicende di questo calabrese indomito, fatto attraverso l’analisi di probanti dossiers, propone in nuce la forza evocatrice dell’ Autore nel racconto di eventi rigorosamente accaduti che abbiamo avuto modo di sperimentare nell'originalissimo affresco storico-narrativo  “I demoni della Santa Fede”.

    Che questo lavoro sia fondamentale per chi davvero voglia comprendere in tutti i suoi risvolti un’epoca storica che ha fortemente inciso sui destini della Chiesa Cattolica e su quelli delle Chiese Riformate, tanto che si è ancora alla ricerca affannosa di fili identitari comuni, è davvero evidente . Esso è però  imprescindibile anche per un’altra ragione non da poco: è emblema di un metodo nuovo e acuto di ricerca soriografica, affinato da Vincenzo Villella in anni di durissimo lavoro mai dispersivo e marginale, anzi ordinato in obiettivi di ricerca sempre molto chiari e condivisi con il lettore: in questo caso ne sono ulteriore testimonianza, non solo la ricchissima, inedita ( e non scontata) bibliografia, ma anche le numerose appendici documentarie, che da sole potrebbero rendere ragione di una fatica immane di indagine, incredibilmente tradotta in narrazioni semplicissime e avvincenti per tutti.

                                                                                                                         Bruno Demasi