sabato 23 novembre 2024

LA NASCITA DEL “SERVIZIO” POSTALE NELLA PIANA DI GIOIA TAURO ( di Rocco Liberti)

            L’istituzione a Oppido Mamertina e frazioni


     Sicuramente poche istituzioni civili ebbero un effetto dirompente e benefico sulla società e sulla crescita dei paesi aspromontani come l’istituzione e il progressivo consolidamento del servizio postale: non solo veicolo di comunicazione in sé , ma nel nostro caso un vero e proprio ponte con i paesi lontani, anche extraeuropei, nei quali già a partire dalla fine dell’800 si dirigeva la grande e dolorosa emigrazione calabrese. Il quadro che ne traccia Rocco Liberti in questa ricchissima pagina è molto eloquente: le poste italiane già nel momento della loro difficoltosa istituzione a livello locale nascevano come “servizio” sociale, non con quella connotazione di impresa commerciale che poi col tempo, e specialmente oggi, hanno assunto. Un servizio di grande portata perché reso a un contesto umano e sociale il più delle volte povero, oppresso da mille mali e da mille carenze strutturali, non ultima la mancanza di una rete viaria che fu faticosamente creata e migliorata col tempo e col sacrificio di tutti, mentre oggi in gran parte appare abbandonata a se stessa forse anche perché la comunicazione virtuale in prevalenza ha soppiantato quella cartacea.
   Un’altra pagina che ci  deve a lungo far riflettere sul nostro stato sociale e culturale di oggi in rapporto a quello di ieri, di cui dobbiamo ancora una volta ringraziare la penna e la memoria di Rocco Liberti.
(Bruno Dermasi)

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     Risulta alquanto evidente che il termine posta nel tempo antico stava a significare il posto dove si assicurava il giusto riposo agli uomini che recavano messaggi da un capo all’altro nonché alle bestie trainanti carrozze e similari mezzi di locomozione in riferimento e dove peraltro ne avveniva lo scambio. A tutto sopraintendevano i cosiddetti mastri di posta, delle persone che esercitavano parimenti il lavoro di osti. In buona sostanza, la stazione di posta, com’era chiamata, era in funzione presso una locanda vera e propria situata in un punto nodale, ma il luogo che accoglieva quei viandanti si rivelava sempre affatto confortevole: una vera e propria stalla con paglia, fieno e un misero giaciglio.

     Sin dai primordi il servizio postale si qualificava del tutto privato e ad usufruirne si stagliavano in primo piano individui o enti danarosi, i quali potevano pagare, come i mercanti, i nobili, le università e le banche e la storia ci riporta addirittura al mondo romano, quando n’erano incaricati i cursores. Dal ‘600 in poi, aumentando l’interesse, è divenuto un monopolio statale, che poteva essere affidato anche a delle famiglie. Molto nota a riguardo la Tasso, a un ramo della quale è appartenuto il poeta Torquato, che nel Centro Europa n’è stata a lungo detentrice. A quel tempo, precisamente nel 1639, si data la nascita di un vero ufficio postale a Boston negli USA. In successione il servizio postale è stato variamente disciplinato, avendo d’altronde seguito di pari passo l’evolversi degli Stati, cui era soggetto[1].

    L’affidamento in affitto del servizio di posta a famiglie private si verificava anche in Calabria. Da un atto notarile rileviamo che nel 1794 la Tenenza di Posta di Drosi nella Piana di Gioia era appannaggio della famiglia di d. Antonio Montalto per un periodo di sei anni dietro esborso di 110 ducati, così come avvenuto entro il sessennio[2]. Drosi era sicuramente un punto d’incrocio sul percorso della via consolare Popilia. All’epoca sovrintendeva a Napoli nel settore d. Matteo Franco, con titolo di ispettore generale delle regie poste[3]. Altra “posta” si trovava nel 1780 anche a Seminara così come pure ancora a Drosi[4]. In periodo borbonico era dato rilevare nella Piana delle officine postali. Nel 1819, nell’anno dell’emissione di un apposito regolamento voluto da re Ferdinando I, ne risultavano a Palmi, Seminara e Rosarno. Col 1857 si aggiungerà Gioia Tauro. Sinopoli arriverà invece nel 1861 all’inizio del nuovo evo.

    In merito alla situazione postale nell’abolito regno sul finire della dominazione borbonica come pure nel resto dell’Italia siamo debitori a Stefano Jacini, il politico ed economista noto per una nota inchiesta e ministro dei lavori pubblici tra 1860 e 1867:

    «Nel 1859, le provincie dell’Italia centrale e superiore possedevano 1256 uffizi postali, ed invece in tutto il regno delle Due Sicilie questi uffizi sommavano a 376 soltanto; nelle provincie subalpine, nelle lombarde e nelle toscane mercè il sussidio delle vie ferrate, lo scambio delle corrispondenze si faceva più volte al giorno, fra tutti i paesi posti lungo le linee ferroviarie, a Napoli il servizio dei sette corrieri che dalla capitale andavano alle provincie, percorrendo le strade cosiddette consolari, aveva luogo soltanto tre volte la settimana»
[5].

    A tal proposito bisogna aggiungere che in tutti i treni c’era sempre un vagone postale che fungeva da ufficio ambulante, con terminologìa perdurata fino ai nostri giorni e, comunque prima ch’entrassero in attività i centri di raccolta automatica. Le stazioni ferroviarie hanno così ereditato il nome delle antiche stazioni di posta.

    Una relazione sulla condizione del servizio postale in Italia e, di concerto, anche nelle terre ch’erano appartenute al regno di Napoli, ci si rende nota per il 1863, dopo che nell’anno decorso era intervenuta un’apposita riforma. Così si faceva presente:

    «Sinora non si potè bene ordinare questo servizio che per 1.422 comuni rurali, coll’opera di 1.202 portalettere. Per le province napoletane e per la Sicilia questo servizio è ancora incompleto, e si stanno studiando i mezzi abbastanza celeri di trasporto»[6].
   
     Proprio in quel 1863 il ministero dei lavori pubblici autorizzava l’apertura di una officina postale anche a Oppido. Ne veniva ad informare il comune il sottoprefetto di Palmi con lettera del 25 aprile. La realtà non si presentava però delle più rosee e in data 26 maggio 1865 si dichiarava non potersi provvedere perché non vi erano state inserite somme all’uopo in bilancio, per cui era giocoforza servirsi delle officine di Palme o di Radicena. Tuttavia, si stabiliva di inoltrare istanza presso la direzione compartimentale al fine di provvedersi speditamente. Il problema si sarà presto risolto se il 23 luglio susseguente il comune nominava un ufficiale postale in persona di Giuseppe Princi con lo stipendio di £ 350 addossandosi anche il carico per il trasporto della corrispondenza. Intanto, in data 3 luglio dell’anno precedente, motivo la destituzione del pedone postale Domenico Cotugno, ci si lamentava di non poter procedere alla sua surroga. N’era causa il rifiuto dei pedoni del paese a impegnarsi in un tal servizio.

    Dopo queste prime notizie dobbiamo scorrere i registri comunali fin quasi alla fine del secolo prima che ne sortiscano di altre. L’8 marzo 1893 l’ispettore centrale delle poste e telegrafi, cav. Dalmati, informava il comune del furto avvenuto nel locale dell’ufficio postale nella notte tra il 4 e il 5, per cui chiedeva l’avvio di lavori utili a prevenire altri eventi del genere. Il 31 maggio 1893 si esaminava la richiesta del titolare postale e telegrafico Giuseppe Chiliberti perché l’ufficio da lui diretto fosse collocato nei bassi della sua abitazione in via Annunziata con pigione a carico del comune. Una tale sistemazione, che avveniva nella casa poi di proprietà della famiglia Zinghinì, ha avuto poca durata perché col 1896 si è provveduto altrimenti. Il Chiliberti, avanti negli anni, è pervenuto a sposare una sua impiegata oriunda di Bagnara, Giordano Giuseppina, che gli è succeduta e ha diretto l’ufficio fino agli anni ’60 del passato secolo. Dopo un periodo, in cui ha tenuto l’ufficio in qualità di reggente, nel febbraio del 1928 n’è stata nominata titolare.

    Dopo aver peregrinato per diversi locali privati, vedi Mittica (via Marconi, ove è rimasto a lungo), Cannatà (Corso Luigi Razza), Frisina (Corso Vittorio Emanuele II), lo Stato, con il solerte impegno del sindaco avv. Giuseppe Mittica, ha provveduto alla costruzione di un apposito edificio per le Posta all’angolo tra le vie Cavour e Mazzini. N’è stata costruttrice la ditta Surace della stessa Oppido e l’inaugurazione è avvenuta nel 1962 alla presenza dell’allora sottosegretario on. Dario Antoniozzi. Nel locale Mittica ha funzionato a lungo anche il servizio telefonico, dopo lo spostamento dato a un privato, Natale, che ha operato a lungo sullo stesso Corso Razza.

  L’8 febbraio 1895 Lando Gaetano perorava l’istituzione di una colletteria postale a Messignadi, paesino che vantava 1300 abitanti, per cui si faceva viva istanza al ministero delle poste e telegrafi. Il pedone, ch’era nominato dal comune di partenza, aveva l’incombenza della raccolta della corrispondenza nei paesi sedi di colletteria. Quest’ultima, ch’era collegata a un ufficio postale, era sede di raccolta della corrispondenza nei piccoli comuni agricoli.

     Il 29 marzo 1906 veniva a sua volta a proporsi, ma invano, l’istituzione di una colletteria a Piminoro, un servizio, si diceva, «reso ormai importantissimo, per la emigrazione in vasta scala, verificatasi in questi ultimi anni». Il 28 luglio del 1908, accusando le regie poste «del modo assolutamente deplorevole», con cui era condotto l’iter, si avvisava che il fattorino Salvatore Albano, pagato dal comune con £ 240 annue, aveva espresso di non potercela più fare a recare la corrispondenza in tanti paesi e che per la fine del mese avrebbe cessato senzaltro dal carico di portare pacchi e corrispondenza a Piminoro. Non era possibile svolgere un lavoro che lo conduceva contemporaneamente a Oppido, Piminoro e Zurgonadio. Se l’ufficio di Oppido distava da Zurgonadio solo un chilometro, Piminoro n’era lontano ben 7 di chilometri, che si svolgevano su una strada «pessima». All’amministrazione comunale perciò non restava che reiterare la richiesta oppure provvedere all’aumento del soldo per il fattorino. Queste le dure premesse al provvedimento: «i cittadini in Piminoro hanno pur essi il diritto sacrosanto, al pari di tutti gli altri cittadini del Regno, di avere il sollecito ricapito della loro corrispondenza, e che lo Stato ha il dovere di trattarli al pari dei cittadini dimoranti in Castellace ed in Messignadi, ove è stato impiantato un ufficio e una colletteria postale, ed ora non si sa comprendere la ragione di tale abbandono».

    A lungo hanno operato nelle diverse Frazioni degli uffici postali che hanno consentito agli abitanti di usufruirne senza doversi spostare dal luogo di residenza, ma procedendo in avanti ogni cosa è mutata. Piano piano ogni agenzia o collettoria che fosse è stata eliminata e ognuno ha dovuto cercare di adattarsi. Se per l’addietro notavi folle di persone in sosta agli uffici del centro, nel prosieguo, date le possibilità offerte a distanza da nuovi enti, ogni cosa è rientrata in un normale alveo. Un particolare di rilievo. A Oppido hanno svolto il loro impegno a lungo due uffici postali con il secondo ubicato a Tresilico, Comune autonomo fino al 1927. Unendo le due Comunità, a Tresilico l’ufficio è rimasto attivo ugualmente fino a pochissimo tempo fa.

Rocco Liberti

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[1] La storia della Posta e del francobollo, www.poste italiane.it.
[2] Oggi il servizio della distribuzione della posta nel nostro territorio è concentrato in un apposito ufficio a Rizziconi, nel cui comune rientra Drosi. Che non sia un retaggio dell’antica Tenenza?
[3] ROCCO LIBERTI, Rizziconi e Drosi, “Quaderni Mamertini” n. 27, Litografia Diaco, Bovalino 2002, p. 29.
[4] BRUNO FERRUCCI, La storia della posta in Calabria, “Calabria Turismo”, IX-1976, n. 30, pp. 41-46.
[5] STEFANO JACINI, L’amministrazione dei lavori pubblici in Italia dal 1860 al 1867, Ministero dei lavori pubblici, E. Botta, Firenze 1867, VII, pp. 14-15.
[6] Annali universali di statistica, economia pubblica, legislazione, storia, viaggi e commercio compilati da Giuseppe Sacchi e da varj economisti italiani; volume CLVIII della Serie Prima, volume decimottavo della Serie Quarta, Apile (sic! Aprile), Maggio e Giugno 1864, Milano, Presso la Società per la pubblicazione degli annali universali delle scienze e dell’industria, 1864, Prima relazione, p. 294.

domenica 10 novembre 2024

QUANDO NACQUERO LE CITTA' DEI DEFUNTI... ( di Rocco Liberti )

    Passano oltre 70 anni dall’editto francese di Saint Cloud alla fondazione del cimitero di Oppido Mamertina e di quelli delle sue 3 frazioni, un tempo smisurato anche per dei paesi aspromontani  e Rocco Liberti in questa ricchissima pagina ne spiega attentamente e dettagliatamente i motivi, in gran parte dovuti alle ristrettezze dei tempi. Ma, al di là delle lungaggini e delle traversìe attraverso le quali videro la luce queste moderne istituzioni tese a soppiantare la barbarie delle sepolture urbane, si rinvengono in questa studio analitico, condotto con l’abituale rigore di ricerca, i segni della società del tempo e dietro di essi anche la rigida stratificazione della popolazione di questi centri che nel momento del decesso, dei funerali e delle sepolture affiorava in tutta la sua triste evidenza. Paradossalmente, sembra dirci con ironia l’Autore, le sepolture antiche e frettolose nelle chiese in qualche modo " livellavano” più o meno tutti, ma la (giusta) nascita dei cimiteri extraurbani, delle tombe monumenali accanto alle semplici fosse destinate ai più poveri cominciava a far emergere le stridenti differenze nelle condizioni sociali e la progressiva trasformazione della pietà popolare in forme di vanità tout court oggi più che mai  dilaganti. (Bruno Demasi)
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      L’uomo, sin dalla più remota antichità, si è preoccupato in vario modo di custodire i resti dei propri simili, sia con l’inumazione che con l’incinerazione, quest’ultima sicuramente la pratica più antica. I defunti o quanto di essi restava venivano collocati variamente, ma ad accoglierli erano soprattutto le cosiddette necropoli, letteralmente “città dei morti”, da nekroV  e polis degli agglomerati di tombe che si offrivano nelle immediate adiacenze del centro abitato, naturalmente con alcune eccezioni. Tale tradizione è perdurata a lungo nel mondo antico, ma, sostituitosi il paganesimo con il cristianesimo, sin dal secolo V è invalso l’uso di ammucchiare i deceduti in apposite cripte, da  kruptoV, , letteralmente “nascosto” ma poi anche sinonimo di grotta, nel sottosuolo dei luoghi sacri. Il tutto era probabilmente partito dalla tumulazione in essi delle ossa di un martire o di un sacerdote o vescovo morto in odore di santità. Un tale sistema si è purtroppo protratto per assai lungo tempo e durante i secoli non si è mancato di recriminare per il fetore che i cadaveri emanavano da botole non ermeticamente chiuse o sconnesse per eventi di ogni tipo. È occorso pervenire al 1804 perché una saggia legge francese provvedesse al riguardo o almeno desse il via ad un ritorno alle antiche consuetudini, che ben consigliavano di collocare i defunti al di fuori dei centri abitati. Quanti mali endemici si sarebbero potuti evitare!

     Il 12 giugno del 1804 un editto dell’imperatore Napoleone, detto di Saint-Cloud dal luogo dal quale era stato emanato, è venuto a vietare severamente il seppellimento delle persone decedute all’interno delle chiese, un provvedimento che il successivo 5 settembre 1806 è stato esteso al regno d’Italia. D’allora i defunti si sarebbero dovuti tumulare in appositi luoghi fuori porta cinti da mura e senza segni di particolare ostentazione e diversificazione l’uno dall’altro. Un tale atto, che si qualificava un vero e proprio ritorno ad un passato remoto, ha suscitato allora le ire di due grandi poeti italiani, Ugo Foscolo ed Ippolito Pindemonte, i quali, con ragionamenti diversi, hanno sostenuto fosse un dovere solennizzare in modo visibile gli uomini celebri. Il primo si è imposto subito già nel 1806 allestendo “I Sepolcri”, che ha dato alle stampe l’anno successivo. L’altro, che aveva in corso l’opera “I cimiteri”, lasciata incompiuta alle notizie dell’edizione del lavoro del Foscolo, ha seguito le orme del grande amico nel 1808 con altro carme di uguale titolo.

    Nel regno di Napoli una similare misura è stata introdotta per volontà di re Ferdinando I con legge dell’11 marzo 1817, che stabiliva la costruzione di un “camposanto” in ogni comune. Un regolamento in relazione sarà varato il 21 successivo ad opera del ministro Donato Antonio Tommasi. È pacifico che, a seguito della legge, non sia avvenuta alcuna corsa all’edificazione di tali strutture. Ce ne sono stati sicuramente di amministrazioni sollecite ad avviare a soluzione il problema, ma per la gran parte, soprattutto nei comuni piccoli, quello è stato affrontato ed indirizzato su solidi binari soltanto a partire dalla seconda metà del secolo. Tanti, addirittura, dopo vari tentativi andati a vuoto sicuramente per motivi di ordine pecuniario, hanno potuto raggiungere lo scopo appena sul finire dello stesso, quando non ancora in quello successivo.

  Non sappiamo se in epoca borbonica ci siano stati in Oppido tentativi per avviare una tale opera di civiltà, ma di essa se ne discuteva nel consiglio comunale pochi anni dopo il conseguimento dell’unità d’Italia. Nella seduta del 25 dicembre 1864 si dichiarava che «non si ha in questo Comune Capoluogo Campo Santo, con tutto ciò che avrebbe maggiore importanza di quello del Sotto Comune di Castellace, ed i cadaveri si seppelliscono nei sepolcri della chiesa Parrocchiale», per cui si veniva a deliberare di «non avere in atto il Comune i mezzi per applicarsi alla costruzione dei Campi Santi, e quindi si riporta ad altro tempo la costruzione di quello di Castellace». Da quanto chiaramente espresso si evince che tutto muoveva da una richiesta degli abitanti di Castellace.

    Sicuramente, era stato molto più sollecito il piccolo comune di Tresilico, che ad appena un anno dal decreto di re Ferdinando aveva avviato le pratiche necessarie per varare un suo camposanto. Come tutte le amministrazioni che si rispettavano, anche quella tresilicese è stata attenta per tempo a seguire i dettami discendenti dall’editto napoleonico, che finalmente liberava le chiese e, quindi, i paesi dai miasmi apportati in tanti secoli dal seppellimento dei defunti e, di conseguenza, dall’insorgere di malattie contagiose. Sin dal 1818, infatti, ha iniziato ad inserire apposita voce in bilancio, anche se per la prima occasione la somma stanziata è stata di appena 20 ducati, ma la stessa man mano che si andrà avanti aumenterà progressivamente. Già due anni dopo, nel 1820, saliva ad 80 e nel 1846 addirittura a 160.
 
   Tornando ad Oppido, è dato riscontrare che, in successione a quanto riferito, un «piano topografico del cimitero» a cura dell’ing. Luigi Oliverio era stato approvato con un decreto prefettizio in data 18 ottobre 1871. Sicuramente, si trattava dello stesso che in una delibera comunale risulta allestito nel 1864. Purtroppo, quel progetto prevedeva l’ubicazione del manufatto in contrada Carrì, località che la commissione sanitaria è venuta a scartare per la netta opposizione del limitrofo comune di Tresilico. La commissione in sua sostituzione ha allora scelto la contrada Resta, ma a tal punto il piano non si adattava più al nuovo sito, per cui si è commesso l’impegno all’ing. Andrea Cozzolino. Il progetto da questi approntato poteva essere così approvato dal consiglio comunale nella data del 22 maggio 1874. Ancora l’anno prima, il 22 aprile 1873, si recriminava che non si era potuto dare il via all’opera, in quanto la pratica in riferimento risultava “incompleta” per il fatto che mancava il decreto che autorizzava il comune ad acquistare il fondo. Sistematesi alquanto le cose ed iniziati i lavori con la ditta Giovan Francesco Carbone di Tresilico, nel 1876 tutto stava per giungere finalmente in porto, quando è sopraggiunto l’inopinato decesso di quell’impresario. A tal motivo è subentrata la rescissione del contratto ed il comune è stato costretto a completare il tutto in economia nel periodo 1878-1879.

    Il discorso inaugurale per l’apertura del camposanto di Oppido toccava a Candido Zerbi, lo storico locale allora in voga, che lo pronunciava proprio nel giorno consacrato ai morti, il 2 novembre 1879. Si tratta di una concione come tante all’epoca, particolarmente aulica ed ampollosa oltre i limiti, che poco concedeva a fatti reali e dove, tra i tanti riferimenti ad antiche e famose sepolture che toccavano un po’ tutte le latitudini, non poteva mancare quello ai “Mausolei di S.a Croce” di foscoliana memoria. Ecco quanto ha quegli tenuto ad offrire agli astanti in merito al progresso ottenutosi con l’opera in questione. Anche se l’enfasi non è assente del tutto, è forse il passo che si rende più comprensibile ai molti:

    «L’igiene moderna, o Signori, proscrive, con severo precetto, i cimiteri delle civiche abitazioni, e con maggiore scrupolo dell’antico romano costume, che li poneva nel pomerio delle città, ne vuole lo stabilimento in luogo da esse molto discosto, e sempre aerato ed aprico. Gli esiziali effetti delle mefitiche esalazioni, di cui fecesi in ogni tempo la ragion precipua di simile spediente, e noi plaudendo sempre al vecchio, ed indispensabile assioma, che la salute pubblica è legge suprema, l’accettiamo senza malgrado, divenuto oggi savio provvedimento della vigente legge di pubblica sicurezza. È di vero, o Signori, quei fangosi carnai, crateri perenni di contagi e miasmi nei paesi rurali, da nessuna precauzione vigilati, da nessuna aromatica effusione, se non purificati, resi meno insalubri, e perniziosi, travagliano selvaggiamente la civiltà dei tempi, e rifugge da essi con orrore la vista, e non che il pensiero dei micidiali effluvi, l’altro ancor più grave della barbarie di un volgare becchino, che frettoloso, ed impaziente ne stiva, per ogni dì lo spazio, pigiando con feroce disinvoltura il cadavere dei già venuti per lasciar luogo ai vegnenti.
    E si che gore letali sono gli attuali sepolcri delle chiese urbane. Il vostro ambiente è malsano. Senza alcuna mente del danno, che ne avviluppa, e compenetra, perché senza occhio, che li vegga, noi aspiriamo continuamente a gran sorsi, il germe della morte; e gassi putridi, e miriadi d’infusori, ed organici corpuscoli ne sono gl’invisibili portatori. E pesti calamitose (la vecchia e nuova patologia l’attesta) e morti nere e lue tifica e carbonchiosa, e maligni esantemi furono sovente il triste effetto di cotesta occulta e velenosa inoculazione. Oh, se l’areoscopo del Pouchet[i] potesse divenire un familiare istrumento, quanti nuovi mali imminenti ci sarebbero noti, e quante nuove sollecitudini per allontanare il periglio! …
    Accettiamo dunque, senza peritose esitazioni il portato della civiltà. Percorriamo anche noi con franchezza, il cammino del progresso, e col viatico della prudenza, e dell’accorgimento per ischivare i pericoli di un sentiero troppo lubrico e precipitoso. Orsù fatevi cuore, e con premure unanimi, e con unanimi preci, consacriamo, volenterosi, il campo del nostro ultimo asilo; chiamiamolo, da oggi, inviolabile-santo. Non è ancora in buon’essere. Il vostro solerte maestrato Municipale, che ebbe sollecita cura della sua costruzione, vorrà prender carico del suo totale rassettamento: ne affretto l’indispensabile compito con le mie più calde preghiere»[ii].

 
  Come chiaramente si evidenzia dalla prosa altamente declamatoria dello Zerbi, il camposanto oppidese si è subito rivelato un manufatto inadeguato alla bisogna e già nel 1888 all’ing. Domenico Mezzatesta si è dato incarico per un suo ampliamento. Per cui, tra il ’90 e il ’92, una nuova impresa, la Giuseppe Rizzica, provvedeva in merito. Ma, apparendo limpide altre necessità, ad occuparsene è stato ancora lo stesso tecnico tra ’91 e ’93. Nonostante così tanti interventi, non si era però pervenuti ad uno stadio accettabile se il commissario straordinario Nicodemo Maria Del Pozzo, nel 1894 veniva ancora a lamentarsene così:
«…il pubblico Cimitero … non è corrispondente né ai bisogni della popolazione, né alle alt re opere belle ed importanti, di cui questa cittadina è decorata. La cinta è ristretta, limitato troppo il locale destinato alle tombe gentilizie, le cripte mal costruite, e deficienti i muri di spessore.
Manca poi un campo per i morti di malattie epidemiche-infettive, la cappella, la sala per le autopsie, la camera mortuaria e l’altra del custode, giusta i regolamenti.
Oppido, al modo come fu condotta l’opera, non può avere più un camposanto né bello per la sua situazione ed esposizione, né monumentale»[1].


    Offerta questa non proprio lusingante relazione sullo stato del camposanto di Oppido, il Del Pozzo si è dato a segnalare quali a suo avviso potevano risultare i rimedi utili a riqualificare quel pio luogo. Ma, invero, si è dovuto sicuramente attendere l’impegno fattivo del sindaco Giuseppe Mittica, che tra gli anni ’50 e ’90 del novecento ha profuso incessanti energìe per una soluzione adeguata ai nuovi tempi. Molti sono stati però gli intoppi che hanno rallentato un progressivo avanzamento. È però merito anche delle amministrazioni che si sono succedute fino ad oggi se il tutto pare stia per completarsi in modo abbastanza idoneo.

    Eccoci ora di nuovo a Castellace, frazione nella quale è stato installato un cimitero in ordine di tempo dopo Oppido. Tale struttura si è materializzata tra 1886 e 1887 ad opera della ditta Domenico Farone per una spesa di £ 4.100 e su progetto del solito ing. Mezzatesta dell’anno 1886. Nel 1894 si evidenziavano tuttavia varie carenze e, in primo luogo, quella di una strada che lo mettesse in comunicazione col paese in maniera comoda. Quella allora in uso si rivelava, infatti, così malmessa che spesso faceva d’uopo interrompere il trasporto dei cadaveri. Deplorava ciò nel 1894 lo stesso commissario Del Pozzo. Così, infatti, teneva ad enunciare nel merito: «siamo dolorosamente ben lungi da poterlo dichiarare completato»[2] e ne elencava le insufficienze.

    Un progetto per il cimitero di Messignadi rimonta al 1886 e probabilmente è stato anch’esso opera del solito ing. Mezzatesta. La materializzazione è avvenuta nel 1890 in un terreno demaniale dello stato, nel fondo detto di S. Maria dell’Angelo. In questo sito è durato ben poco se in una delibera dell’11 giugno 1895 si afferma che il manufatto «si è dovuto spostare perché nel 1887 essendosi impiantato per ordini perentori del Ministro un cimitero provvisorio per quella borgata in una località dello stesso fondo demaniale … per non violarsi le tombe del cimitero provvisorio venne il bisogno indispensabile dello spostamento». Anche del cimitero di Messignadi il Del Pozzo non aveva mancato nel 1894 di segnalare le consuete carenze[3].

     Un cimitero è stato realizzato anche a Piminoro, ma nel 1894, così come a Castellace, non ci si poteva servire di una strada agevole. Ne restava senza il sobborgo Zurgunadi, ai cui abitanti, per l’estrema vicinanza al capoluogo, è stato consentito di servirsi del cimitero del maggiore centro. Nel 1894, tuttavia, il Del Pozzo, chiedendo di abolire il sistema in vigore, che non doveva essere certo ottimale, invitava l’amministrazione a dotarsi all’uopo almeno di un carro funebre[4]
 
Rocco Liberti
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1) Si tratta di Felix Archimede Pouchet (1800-1872), naturalista francese e strenuo sostenitore contro Pasteur della teorìa della generazione spontanea dalla vita della materia non vivente. Tra le sue tante opere, infatti, c’è “Heterogenìe, ou Traitè de la generation spontanee : base sur de nouvelles experiences", J. B. Beilliere et fils, Paris 1859.
2) Discorso pronunciato dal commendatore Candido Zerbi nel Campo Santo di Oppido Mamertina aperto, e solennemente benedetto il 2 Novembre 1879, Tip. Ceruso, Reggio Calabria 1879.
3) Relazione su l’amministrazione del Comune di Oppido Mamertina letta dal R. Commissario Straordinario Cav. Nicodemo M.a Del Pozzo nel dì dell’insediamento del nuovo Consiglio 11 gennaio 1894, Stamperia del Progresso, Reggio Calabria 1894, pp. 49-50; Liberti, Oppido Mamertina ieri e oggi nelle immagini-II, Diaco Editore, Oppido Mamertina 1985, pp. 123-124.
4) Del Pozzo, Relazione …, pp. 51-52.
5) Ivi, p. 52.
6) Ivi, pp. 52-53.