sabato 16 dicembre 2023

O' TEMPU DI’ CANONICI 'I LIGNU (Vita smarrita di paese) (I PARTE) di Rocco Liberti

    Alcuni pensano che la microstoria regionale o paesana costituisca solo  il supporto indispensabile alla Grande Storia e che gli storici propriamente detti nulla possono senza l’apporto degli studiosi locali. Si tratta di due falsi assiomi, peraltro ampiamente smentiti ormai da decenni dall’evoluzione del pensiero e del metodo storico. Non v’è infatti differenza alcuna tra storici per così dire “nazionali” e storici “locali” così come non v’è scala gerarchica tra la cosiddetta “grande storia” e i resoconti di eventi geograficamente circoscritti. Lo storico e lo storiografo di valore sono tali qualunque siano l’ambito e l’economia della loro ricerca. E la storiografia vera è sempre tale qualunque siano i limiti cronologici e spaziali all’interno dei quali essa indaga e si esprime.

    Un esempio eclatante, qualora ve ne fosse necessità, è questa nuova miniserie inedita di Rocco Liberti che questo blog si onora di ospitare e che contiene un affresco tutt’altro che marginale della vita e della società del suo paese (Oppido Mamertina) di almeno ottanta anni fa. In esso c’è tutto: la ricerca antropologica, l’analisi economica, politica e sociale, l’apprezzamento delle varie culture popolari relegate ai margini di una pseudocultura dominante che tutt'oggi vorrebbe primeggiare. C’è la storia insomma, quella vera! E c’è inoltre da parte dell’Autore il ricordo soprendentemente nitido, dettagliato e diretto che costituisce l’inestimabile valore aggiunto che rende queste pagine un altro  unicum! Grazie!
(Bruno Demasi)
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   Secondo un vecchio vocabolario siciliano parrebbe che la frase dialettale, di cui al titolo, derivi dal sistema con cui anticamente si mettevano in moto i carretti, poi sostituito con i cuscinetti. Alla nostra epoca, variamente ripetuta forse unicamente dagli anziani, è rimasta sinonimo di un evo remoto, quando l’evoluzione era ancora di là da venire e si credeva a tutte le bubbole, ma anche del periodo in cui l’esistenza scorreva più semplicemente e si era tutti a stretto contatto nelle piazze e nei vicoli. Col tempo forse è stata associata anche all’ambiente ecclesiastico per via dei canonici immobili nei loro stalli a recitare il cosiddetto “ufficio”. Nel dialetto isolano infatti c’è presumibilmente una massima in relazione: O’ tempu di’ canonici ‘i lignu e quandu i sacristani eranu ‘i stagnu. Durante la nostra fanciullezza al pomeriggio ci precipitavamo al cortile del Seminario, ma, essendo in quelle ore preclusa l’entrata, approfittavamo che la cattedrale era aperta e vi sgattaiolavamo attraverso la navata di sinistra e la sala capitolare. Procedevamo piano piano per non allertare i sacerdoti che, secondo noi, facevano il pisolino murmuriàndu. Particolarmente statico in posizione quasi sonnolenta il can. Armino, che al solito sembrava si offerisse con gli occhi chiusi.
 
   Ricordo con autentica nostalgìa i tempi in cui gli approcci di familiari e parenti con coloro che transitavano avanti casa e si soffermavano a chiacchierare sui fatti del giorno, locali e nazionali e in merito a quanto ineriva a ogni nucleo si qualificavano di prammatica. Sovente le persone venivano difilate anche a scopo di trascorrere qualche oretta. Chi non si comportava similmente e doveva affrettarsi per rientrare al proprio domicilio, comunque un cortese “bonasira, filicisira o bonanotti” non te lo negava davvero. Ci si ritrovava sempre in tutta semplicità e amicizia. Se avevi necessità casalinghe di tipo lavorativo a dismisura, si offriva sempre qualcuno in aiuto, in specie trattandosi di cibarie: se si faceva il pane, quando si ammazzava il maiale, ma pure in frangente di lavori eccezionali. Non appena mia nonna, in seguito all’uccisione dell’animale suino, poggiava sul focolare il pentolone per preparare le frittole, arrivavano da ogni latitudine parenti e amici, probabilmente richiamati dal penetrante odore o perché ne avevano avuto sentore.

    La storia si ripeteva di anno in anno, ma sarà stato un caso? In verità, Oppido era un paese ricco di abitanti con famigliole onuste di varia figliolanza e le porte delle abitazioni stavano del tutto aperte, con i vicini e anche lontani che vi si affacciavano sempre di buon grado. Il vicinato rappresentava proprio un paese in miniatura. Nel solo vico Mamerto negli anni ’40 era dato contare una popolazione di ben 41 unità e 16 eravamo bambini. A occasioni di gioco il numero aumentava considerevolmente. Che dire oggi che si vive in un centro ridotto ai minimi termini e nel quale per notare un’anima viva devi compiere i famosi cento passi! Non soltanto, ma se ti è dato d’incontrare qualcuno per caso, il suo transito è frettoloso. È molto più usuale incrociare individui in auto col cellulare in mano che blaterano senza soluzione di continuità. Ma dove andranno mai passando e ripassando per le stesse strade? Io macino chilometri a piedi per raggiungere punti estremi persino effettuando i tragitti più desolati e a noia m’imbatto in un tizio che sbuca dai siti più disparati. Mi dico: ma che bella ginnastica! Malauguratamente, non è l’unico.

   Ai tempi che furono all’atto di aprire le imposte t’investiva un allegro vociare e i tanti che si alternavano per i motivi più diversi ti salutavano calorosamente. Alla fontanina di vico Mattia Preti già Mamerto la ressa, a volte vivace, era di prammatica, ma di solito ci si approcciava amichevolmente e qualche ritornello si elevava festoso nell’aria. Piccoli e grandi muniti di catini, cortare e bumbule si dipartivano perfino dall’agglomerato di baracche accanto alla chiesa del Calvario in un andirivieni consueto. Oggigiorno pur nelle più strette viuzze domina un assoluto silenzio e in certi momenti non ti rispondono neanche se suoni il campanello. Sono tutti sicuramente impegnati a chattare con gli amici o amiche oppure a fissare le immagini stereotipate regalate dalle tante tv tenendo il volume piuttosto alto. Ma a che rimpiangere! Va così e chissà cosa regalerà di più e di peggio l’avvenire alle generazioni future!
   A Oppido, come luogo dove la vita quotidiana ferveva maggiormente si offriva la citata Piazzetta, detta così in quanto derivava da uno spiazzo a fronte della magione della famiglia Sposato. Nei documenti comunali era infatti segnalata come Piazzetta Sposato. Di poi è diventata piazza Mamerto, quindi Salvatore Albano, mentre la dirimpettaia, quasi simile nella forma e in grandezza, nella quale troneggia il monumento ai caduti nella guerra 1915-18, ha preso nome per mia iniziativa di piazza Concesso Barca, dalle generalità dell’autore del manufatto. Entrambe tramandano il nome di due geniali artisti autoctoni. In tantissimi vi convergevano per vari motivi. Innanzitutto vi erano accosto la sede del Comune e quella dei vigili urbani, ma si qualificava del pari il nodo centrale che smistava per il cinema, le scuole, la sede della GIL, il campo sportivo e la chiesa del Calvario. Non c’erano bar, ma non mancavano tre negozi di generi alimentari (Pentimalli, Corvino, Stefanelli), uno di stoffe (Polistena), una rivendita di frutta (Demeo), due macellerie (Polimeni), una sartoria (Pangallo), un telaio (i maistri Barca perennemente in lite con la Russeja; ancora ne risente l’intera piazza), il ciabattino (Gioffrè), il pentolaio (‘u Cundellu). Al giorno d’oggi di attivo a malapena si propone un bar. Il resto attiene per la gran parte ad abitazioni malinconicamente deserte. Poco fuori la piazza si notavano esercizi quali la dolceria Feis, altro negozio di alimentari (un secondo Stefanelli), l’oreficeria Frisina e la forgia di mastro Alfonso Violi. Al tempo di cui trattasi le panchine e i resti di un’antica fontana in marmo, che accoglievano del pari, attiravano parecchia gente.

   In un certo periodo, al giungere dell’autunno, si rivelava ricorrente il flusso da Cittanova dei caddaràri, che sistematicamente a loro volta vi armàvano fucina. Si verificava allora un andirivieni di donne che portavano a farsi risaldare padèj, tigàni, sculapasta e altri utensili utili in cucina. Da San Giorgio arrivavano invece i cannistràri, i cestai. In un’occasione i monelli d’occasione abbiamo dovuto registrare una fifa da non si dire. Veniva di frequente con una lunga naca in testa un tipo bislacco sia nell’aspetto che nel modo di propagandare il suo prodotto. Probabilmente era uno zingaro. Infatti un altro flusso in Oppido era caratterizzato dalla frequenza di appartenenti alla stessa etnia, che con tanti salamelecchi volevano leggerti la mano o venderti utensili di rame utili del pari in cucina. Il nostro Tizio sembrava in tutto simile al Fortunello del Corriere dei Piccoli. Incappato nell’attenzione dei perdigiorno d’ogni momento, era spesso preso di mira con grida d’ogni tonalità ed espressione. In un frangente del genere, nel mentre gli davamo la baia, davanti alla casa dei Gioffrè lo abbiamo visto crollare a terra come pèzzulu. Apriti cielo! Pensando di esserne stati noi la causa, tutti tremebondi, siamo coraggiosamente scappati e ci siamo nascosti. Trascorso un ragionevole lasso di tempo siamo usciti furtivamente all’aria e te lo abbiamo ritrovato in vita. Abbiamo saputo ch’egli era solito finire a terra in quanto periodicamente soffriva di mal caduco. Quando si dice il caso! Comunque, d’allora ci siamo guardati bene dal ripetere la birbonata. Un canestraio di uguale provenienza, tutto canuto, addirittura a Oppido vi aveva preso stanza. Abitava in un basso del dismesso cinema e apriva punto vendita in altro del palazzo Grillo, proprio di fronte alla monumentale fontana di piazza Zuco. Anche con lui i birbaccioni di turno non mancavano di darsi da fare e l’appellativo più ricorrente era strangugghiapreviti.

  
    La piazzetta, che aveva attorno rioni popolosi (Caciagna, Carbàriu, Pretura, San Giuseppi, ‘U spitàli, ‘A strata nova) da cui promanavano frotte di bambini, si qualificava davvero il centro di raccolta del popolo minuto. Per i nobili era tacitamente riservata invece la piazza maggiore. Lì si apriva il circolo dei cosiddetti signori. Questi, quando non si esprimevano con la loro boria passeggiando avanti e indietro, si abbandonavano alle discussioni di tipo politico e paesano occupando il tempo per delle ore. Piazza Umberto indiscutibilmente rifletteva l’antica agorà: era dei nobili e dei professionisti. La piazzetta invece era plebea e tutti ci ritrovavamo in essa. A parte i numerosi giochi ci erano offerte altre occasioni, per cui tanti ne ricavavano un loro luogo fisso. Quando i fichidindia erano pervenuti a maturazione, all’angolo del Gioisano c’era sempre un tizio con una cofana piena. Era uno spettacolo osservare come provvedeva all’eliminazione della scorza: un vero programma con tutti quei tagli in lungo e in largo. Chi possedeva qualche soldino vi accedeva e si faceva una bella panzata, chi no stava a guardare leccandosi le labbra. Quei frutti intensamente verdi, blu, rossi e gialli rappresentavano davvero una bella leccornia e ti facevano venire l’anguleja. Si mettevano perfino scommesse a chi ne trangugiava un certo numero. Era logico che chi aveva i soldi si offrisse di pagare e il nullatenente accettava con entusiasmo, soltanto che poi l’indomani sarebbe stato quest’ultimo a pagarne le dolorose conseguenze. I fichidindia sono eccezionali a mangiare, ma …! Nella stessa piazzetta, ma sul lato che guarda le case dei Gioffrè, sostava ‘a luppinàra, una donna anziana che con un cestone di vimini sulla testa smerciava lupini salati. Era una bagnaròta e agiva come tantissime del suo paese di origine. Distintivo il suo melenso vocìo: "Duci e salatu ‘u luppinu jè”. Nella piazzuola a lato cattedrale dove ancora troneggia una grande fontana monumentale prendevano posto appena fuori lo spazio del mercato coperto invece i venditori di meluni (melloni) e zzipànguli (angurie), i quali vi trascorrevano le notti coperti alla bell’e meglio. Anche per tal genere di frutti fiorivano le scommesse. Aveva diritto di portarsene uno a casa chi riusciva, sedendovi sopra, a squarciarlo. Avendo una buccia spessa e dura, non era tanto facile raggiungere lo scopo. Guarda un po’ quante originali e poco serie trovate!

    L’oziare in strada era di sicuro un esperto suggeritore. Se il bambino non si recava in gelateria a comprare qualche sorbetto, era questo a portarsi da lui. Un incaricato di tale esercizio nei pomeriggi assolati si aggirava per i luoghi affollati del paese con il suo triciclo sistemato appositamente quale gelateria ambulante. Era festa quando circolava per le strade e lo si contattava festosamente. Il grido gelati, gelati era davvero un irresistibile richiamo.

   Tra i tanti passatempi vi era anche il carròcciolo o carretta, che consisteva in un piano di tavola con uno sterzo, che si muoveva all’inizio con ruote di legno quindi con dei cuscinetti a sfera. Ci si spostava a turno in quanto procedeva solo a forza di spinte. Era un trastullo per lo più riservato ai piccoli. I grandicelli godevano di altro mezzo meccanico più efficiente, la bicicletta. Ce n’erano di tutte le grandezze dai Pappalardo, dove ai pomeriggi si faceva sovente gran ressa. L’affitto era a tempo determinato, un quarto d’ora, mezz’ora e all’uopo si pagava una cifra prestabilita. Ma che succedeva? Che spesso i marioli, una volta saliti sul mezzo e presoci gusto, se ne dimenticavano e oltrepassavano l’orario fissato. Che fare? Di soldi in più non ce n’erano nelle tasche, quindi cosa rimaneva? Portare furtivamente le biciclette vicino alla porta, spesso buttandole a terra per la fretta e darsela subito a gambe. E i noleggiatori richiamati fuori dal rumore a inveire: figghiu di bona mamma, se ti pigghiu…!

   La notte in piazzetta comunque si concludeva in bellezza. Attorno alla monumentale vasca opera del prefato Barca distrutta nel periodo post-bellico da insipienza democristiana in quanto in alcuni tratti si rilevava il fascio littorio, si portavano gruppi di baldi giovani che con strumenti popolari (fisarmoniche, chitarre, clarino, sassofono) e stentoree voci allietavano allegramente (fratelli Cecè e Mario Simone, Ninì e Peppe Polistena, Peppe Violi, Vincenzo Epifanio …). Il cavallo di battaglia di quest’ultimo era la popolarissima Casetta tra gli abeti. Al ritornello Amore, amore, or che il roseto è in fiore ascolta la mia trepida preghiera… esprimeva la sua massima potenza vocale.

Rocco Liberti

mercoledì 13 dicembre 2023

QUANDO MARIO LA CAVA DAVA LEZIONI DI SCRITTURA ALLA CALABRIA E AL MONDO ( di Bruno Demasi)


    Il genere narrativo del racconto minimalista e breve, che oggi ha tanta fortuna fuori dalla Calabria e dall'Italia, ha avuto un precursore nobile in quel Mario La Cava (Bovalino 1908 – 1988) che, al pari di tanti altri scrittori della nostra terra, è pressochè sconosciuto alle nuove generazioni e più che mai trascurato, se non ignorato, dalle cattedre dei nostri licei...
    In fondo l’attitudine alla brevità, alla sintesi narrativa del poco scritto e del molto lasciato intuire attraverso il voluto silenzio della penna Mario La Cava la eredita di sicuro dalla madre, ma anche dalla sua terra non a caso qualche secolo fa colonizzata dagli Achei e ancora oggi impregnata delle loro sintesi espressive e culturali asciutte ed eloquenti.
    Marianna Procopio, la madre, era stata infatti per la cultura della Locride e della Calabria tutta sicuramente la prima scrittrice naif che , alfabetizzata appena fino alla terza elementare, era riuscita nel suo “Diario” a condensare in brevissime notazioni la complessità del vivere quotidiano dopo la prematura perdita della madre che per i Calabresi costituisce, forse più che per altri, l’epos più struggente all’interno dell’epos più ampio della vita in sè.
    E, in una ombelicale mutualità narrativa, Mario La Cava direi che riprenda proprio dalla madre, dall’austerità narrativa dei vecchi delle nostre campagne, dalle sintesi lineari e insuperate della cultura magnogreca, l’attitudine all’ellitticità sapiente del racconto che nell’arco di una manciata di righe condensa una storia e ne suggerisce l’ acuta comprensione di tutti i passaggi e di tutte le possibili sfumature.
     “Caratteri” e “ I racconti di Bovalino” sono in questa dimensione le raccolte emblematiche di Mario La Cava, che anticipa e precorre con esse una fioritura incredibile nella narrativa minimalista di cui è interessata la narrativa neorealista italiana, ma è soprattutto disseminata la produzione letteraria anglosassone, specialmente a partire dall’ultimo ventennio dello scorso secolo.
     In modo assai riduttivo la produzione di La Cava è stata catalogata solo come testimonianza più o meno stucchevole di un angusto mondo, - quello della provincia calabrese – del quale egli sicuramente ha voluto sondare tutti i dilemmi e le contraddizioni. L’angustia che egli descrive esiste , eccome! Ma non è solo quella della società calabrese in un contesto più o meno datato, è invece quella dell’essere umano in sé, con tutte le sue grandezze, con tutte le sue ipocrisie, i limiti e la storia privata e pubblica inevitabilmente segnata da ferite e da compromessi. 

    “Caratteri” è costruito come un muro complessivamente elegante e slanciato verso l’infinito, ma fatto appena appena di mattoni riciclati e di cocci sbrecciati, ognuno dei quali narra in silenzio la propria storia incredibile, un vissuto che nemmeno immaginavi…
    E’ dunque il racconto breve o brevissimo in La Cava un canto di frammenti, di appunti, di abbozzi, di intuizioni, di quadretti sociali, una sorta di diario personale davanti al fluire dei tempi e all'immobilità delle convenzioni. E’, come osserva L. Sciascia, un'opera costantemente in fieri; più che diario, anche se sulla scia del diario materno, una testimonianza dell'anima, un grido di denuncia sociale scandito da notazioni improvvise, da echi narrativi definiti, ma anche da silenzi eloquenti…
    “ La scienza moderna ha trovato delle analogie tra la lana delle pecore e le foglie degli ulivi, - diceva zio Ciccillo. Era il tempo delle guerre continue, era il tempo delle requisizioni. Nostro padre, piccolo proprietario di terre, chino sul tavolo da studio, faceva i conti delle nuove tasse da pagare. – Che? Che? – domandò. – Vogliamo pigliarci pure le foglie degli alberi? ”(Frammento 82)
    Un genere speciale di racconto dunque in cui l’Autore, come osserva Elio Vittorini, sembra però fondere “il gusto dell'imitazione dei classici e lo studio naturalistico del prossimo”.
    Lo “studio del prossimo” è una metodologia di lavoro già sperimentata ampiamente nel quadro letterario
italiano, ma in La Cava non è mai avulso dalla situazione sociale e storica in cui si vive e non è nemmeno un sostanziale ripiegamento su se stessi, come accade in tanta produzione anglosassone.
    Sicuramente classici sono invece l’impianto espressivo e narrativo, il rigore stilistico, la forza evocativa e rappresentativa delle parole che vanno a caratterizzare personaggi , luoghi, situazioni con un’impersonalità ricercata, ma non artefatta, come invece avviene in tanto
neorealismo di maniera che ha ancora oggi indubbiamente maggiore fortuna che non la produzione di La Cava.
    Il merito del recente recupero dei “Racconti di Bovalino”, parzialmente e casualmente già pubblicati su riviste e antologie, ma per fortuna conservati sostanzialmente inediti dal figlio nella stesura definitiva rimasta autografa, va attribuito alla lungimiranza dell’editore Rubettino. Si tratta di venticinque racconti scritti verosimilmente intorno agli anni Trenta e poi sottoposti, nei decenni successivi, a esercizi di riscrittura.
    Scopo dei racconti - dice lo stesso La Cava — «non è stato di documentare alcunché, ma di esprimere poeticamente, secondo le mie forze, un sentimento tragico della vita, desunto da quelle della gente tra cui ho sempre vissuto».
    Sono frammenti pure questi , ma rispetto a quelli che danno vita a “Caratteri” assumono la personalità definita del racconto breve molto più curato e levigato nella sua stesura finale. Rappresentano anch’essi però momenti di vita sempre statici e difficili che raramente hanno movimento o sviluppo, anzi quasi sempre
stigmatizzano e mettono a nudo la fissità di esistenze segnate da qualcosa.
     Narrazioni brevi o brevissime, dunque, sia quelle dei “Caratteri” sia quelle contenute nei “Racconti di Bovalino” e tutte d'impianto sostanzialmente naturalista, ma rese uniche e inconfondibili da un linguaggio di sapore classico, del tutto sconosciuto a tanti narratori di oggi. Su di esse valga per tutti il giudizio, a sua volta fulminante, di Leonardo Sciascia: «Le cose di La Cava costituivano per me esempio e modello del come scrivere: della semplicità, essenzialità e rapidità a cui aspiravo».






sabato 9 dicembre 2023

LA STORIA , LA NARRAZIONE E LA MEMORIA : ROCCO LIBERTI ( di Bruno Demasi )

   Al compimento dei novanta anni, grandissima parte dei quali dedicati alla ricerca e alla narrazione storica, Rocco Liberti, apprezzato da tutti per la serietà del suo impegno di conoscenza e divulgazione del passato della Calabria, vuole ringraziare  la sua gente e i suoi moltissimi amici , che coralmente gli porgono voti augurali per un’ancora lunga e feconda  carriera di studioso, destinando a loro la sua ultima fatica: un prezioso  e agile libro di “Mémoires Mamertine” che di recente e a puntate avevano visto la luce sul locale weblog “HagiaAgathé” suscitando moltissimi interessi e congratulazioni.

    Uscendo per un attimo dalla scientificità meticolosa della sua sterminata produzione storica, Rocco Liberti vuole offrire proprio in questa occasione e con la semplicità dei grandi un dono di ricordo diretto alla propria terra e in particolare  al paese che gli ha dato i natali e lo ha visto crescere e operare in ambito scolastico ed educativo e soprattutto in ambito storiografico calabrese . Dismettendo infatti per una volta i “panni curiali“ si concentra nella struggente memoria civica o, per essere più esatti, nella  viva testimonianza del passato dando vita a  un prezioso libro di memorie che comprende non solo una sincera narrazione di fatti, di scene paesane e di persone, ma va a rivisitare con affetto e a salvare il ricordo di un mondo inesorabilmente scomparso. E’ il mondo di Oppido Mamertina e dell’intero Aspromonte a cavallo delle due grandi guerre e nel secondo dopoguerra, il mondo ecclesiale e quello civile, che ruota intorno al campanile, al glorioso ospedale, alle scuole, alle baraccopoli o alle campagne in cui trovano riparo gli sfollati durante l’ultima grande guerra , ma anche quello delle imponenti feste religiose, dell’ingegno della nostra gente in ogni occasione di ripresa , dei timidi ed esaltanti bagliori di speranza per un futuro migliore.

    Riemerge nitido in queste pagine un contesto omogeneo di gente che si batte con forza contro l’imbarbarimento incombente e ne esce vittorioso perché con le sue lotte, i suoi dispiaceri e i suoi entusiasmi riesce sempre a costruire o ricostruire sulle ricorrenti macerie quello che Luigi Maria Lombardi Satriani definisce “gruppo sociale”, persino nei momenti peggiori della sua storia paesana. E tra le fatiche affiorano molto spesso con la fine ironia di cui il Liberti è maestro tutti i momenti di allegria attraverso i quali la gente dà vita a quella ricca ” effervescenza sociale”, di cui parlano gli antropologi, per rialzare il capo dopo i terremoti non solo tellurici, ma anche sociali e politici e riedificare  le proprie case, le proprie strade, le proprie piazze, ma soprattutto un mondo di valori dimenticati che l’Autore riesce a restituirci con sincero rispetto e profonda nostalgia.

   Un’ulteriore testimonianza dell’impegno culturale del Liberti, affinato in lunghi anni di insegnamento e di animazione di un glorioso centro sociale di Educazione Permanente, poi profuso in molti decenni di faticosa ed esaltante ricerca storica, di puntuale narrazione degli eventi del nostro comune passato calabrese e meridionale.

   Frédéric Chabod, il masssimo studioso del metodo storico, analizzando le motivazioni dell’interesse sovrumano di Croce per la storia, giungeva alla conclusione che esso era stato originato sicuramente dal forte legame sentimentale con il passato e notava anche come il pensiero crociano nel tempo sembrava essere transitato dalla storia intesa come “narrazione” alla storia come “problema”. 

   Non è affatto pretenzioso applicare pari pari questa osservazione alla parabola degli studi e del pensiero storico di Rocco Liberti che ha votato la propria vita alla ricerca e alla rievocazione scritta di eventi e che ha prodotto e continua a produrre un’opera amplissima, composita, caratterizzata da una forte identità di metodo e di comunicazione riguardanti le nostre tenaci radici .

   Un’opera  incredibilmente ricca che costituisce già un patrimonio inestimabile per l’intera Calabria, e non solo per essa , e che rende ragione all’acuta osservazione dello stesso Chabod, che alla prevalenza della riflessione concettuale preferiva la narrazione puntuale e documentata degli eventi come risposta all’esigenza dell’interpretazione dei fatti e al desiderio di farli rivivere nella loro immediatezza. Un’opera omnia che a stento oggi per la sua vastità i suoi cultori ed eredi, come don Letterio Festa, potranno trovare il tempo di ricordare nella sua interezza.

   Sono tante, come si vede, le motivazioni e le metodologie di ricerca che hanno fatto del prof. Liberti uno storico di primissimo ordine. Tra tutte spicca sicuramente la sua martellante e incisiva azione di scavo che anche di fronte a documenti in cui la verità sembra di fatto incontrovertibile, sa sempre “ chiedersi se effettivamente quella verità sia tale”. Ne sono testimonianza vari scritti che in momenti diversi della sua vita hanno ripreso da angolazioni sempre inedite e diverse i medesimi argomenti con l’intento di aggiungere qualcosa di nuovo, qualche tassello mancante allo spaccato di vita via via considerato, come faceva  un tempo l’educatore, l’insegnante quando  si curava di ampliare e affinare la formazione dei propri allievi, riprendendo ciclicamente ogni contenuto didattico per fissarlo nelle giovani menti a lui affidate.

    Come Calabresi siamo tutti debitori di qualcosa a Rocco Liberti e quasi sicuramente nessuno studioso di cose storiche potrà cimentarsi nell’analisi di qualche momento del nostro passato senza fare i conti con quanto da lui meticolosamente ricercato, documentato e narrato rendendo sempre più ampio l’affresco storico di questa terra martoriata e santa.