Alcuni pensano che la microstoria regionale o paesana costituisca solo il supporto indispensabile alla Grande Storia e che gli storici propriamente detti nulla possono senza l’apporto degli studiosi locali. Si tratta di due falsi assiomi, peraltro ampiamente smentiti ormai da decenni dall’evoluzione del pensiero e del metodo storico. Non v’è infatti differenza alcuna tra storici per così dire “nazionali” e storici “locali” così come non v’è scala gerarchica tra la cosiddetta “grande storia” e i resoconti di eventi geograficamente circoscritti. Lo storico e lo storiografo di valore sono tali qualunque siano l’ambito e l’economia della loro ricerca. E la storiografia vera è sempre tale qualunque siano i limiti cronologici e spaziali all’interno dei quali essa indaga e si esprime.
Un esempio eclatante, qualora ve ne fosse necessità, è questa nuova miniserie inedita di Rocco Liberti che questo blog si onora di ospitare e che contiene un affresco tutt’altro che marginale della vita e della società del suo paese (Oppido Mamertina) di almeno ottanta anni fa. In esso c’è tutto: la ricerca antropologica, l’analisi economica, politica e sociale, l’apprezzamento delle varie culture popolari relegate ai margini di una pseudocultura dominante che tutt'oggi vorrebbe primeggiare. C’è la storia insomma, quella vera! E c’è inoltre da parte dell’Autore il ricordo soprendentemente nitido, dettagliato e diretto che costituisce l’inestimabile valore aggiunto che rende queste pagine un altro unicum! Grazie! (Bruno Demasi)
Un esempio eclatante, qualora ve ne fosse necessità, è questa nuova miniserie inedita di Rocco Liberti che questo blog si onora di ospitare e che contiene un affresco tutt’altro che marginale della vita e della società del suo paese (Oppido Mamertina) di almeno ottanta anni fa. In esso c’è tutto: la ricerca antropologica, l’analisi economica, politica e sociale, l’apprezzamento delle varie culture popolari relegate ai margini di una pseudocultura dominante che tutt'oggi vorrebbe primeggiare. C’è la storia insomma, quella vera! E c’è inoltre da parte dell’Autore il ricordo soprendentemente nitido, dettagliato e diretto che costituisce l’inestimabile valore aggiunto che rende queste pagine un altro unicum! Grazie! (Bruno Demasi)
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Secondo un vecchio vocabolario siciliano parrebbe che la frase dialettale, di cui al titolo, derivi dal sistema con cui anticamente si mettevano in moto i carretti, poi sostituito con i cuscinetti. Alla nostra epoca, variamente ripetuta forse unicamente dagli anziani, è rimasta sinonimo di un evo remoto, quando l’evoluzione era ancora di là da venire e si credeva a tutte le bubbole, ma anche del periodo in cui l’esistenza scorreva più semplicemente e si era tutti a stretto contatto nelle piazze e nei vicoli. Col tempo forse è stata associata anche all’ambiente ecclesiastico per via dei canonici immobili nei loro stalli a recitare il cosiddetto “ufficio”. Nel dialetto isolano infatti c’è presumibilmente una massima in relazione: O’ tempu di’ canonici ‘i lignu e quandu i sacristani eranu ‘i stagnu. Durante la nostra fanciullezza al pomeriggio ci precipitavamo al cortile del Seminario, ma, essendo in quelle ore preclusa l’entrata, approfittavamo che la cattedrale era aperta e vi sgattaiolavamo attraverso la navata di sinistra e la sala capitolare. Procedevamo piano piano per non allertare i sacerdoti che, secondo noi, facevano il pisolino murmuriàndu. Particolarmente statico in posizione quasi sonnolenta il can. Armino, che al solito sembrava si offerisse con gli occhi chiusi.
Ricordo con autentica nostalgìa i tempi in cui gli approcci di familiari e parenti con coloro che transitavano avanti casa e si soffermavano a chiacchierare sui fatti del giorno, locali e nazionali e in merito a quanto ineriva a ogni nucleo si qualificavano di prammatica. Sovente le persone venivano difilate anche a scopo di trascorrere qualche oretta. Chi non si comportava similmente e doveva affrettarsi per rientrare al proprio domicilio, comunque un cortese “bonasira, filicisira o bonanotti” non te lo negava davvero. Ci si ritrovava sempre in tutta semplicità e amicizia. Se avevi necessità casalinghe di tipo lavorativo a dismisura, si offriva sempre qualcuno in aiuto, in specie trattandosi di cibarie: se si faceva il pane, quando si ammazzava il maiale, ma pure in frangente di lavori eccezionali. Non appena mia nonna, in seguito all’uccisione dell’animale suino, poggiava sul focolare il pentolone per preparare le frittole, arrivavano da ogni latitudine parenti e amici, probabilmente richiamati dal penetrante odore o perché ne avevano avuto sentore.
La storia si ripeteva di anno in anno, ma sarà stato un caso? In verità, Oppido era un paese ricco di abitanti con famigliole onuste di varia figliolanza e le porte delle abitazioni stavano del tutto aperte, con i vicini e anche lontani che vi si affacciavano sempre di buon grado. Il vicinato rappresentava proprio un paese in miniatura. Nel solo vico Mamerto negli anni ’40 era dato contare una popolazione di ben 41 unità e 16 eravamo bambini. A occasioni di gioco il numero aumentava considerevolmente. Che dire oggi che si vive in un centro ridotto ai minimi termini e nel quale per notare un’anima viva devi compiere i famosi cento passi! Non soltanto, ma se ti è dato d’incontrare qualcuno per caso, il suo transito è frettoloso. È molto più usuale incrociare individui in auto col cellulare in mano che blaterano senza soluzione di continuità. Ma dove andranno mai passando e ripassando per le stesse strade? Io macino chilometri a piedi per raggiungere punti estremi persino effettuando i tragitti più desolati e a noia m’imbatto in un tizio che sbuca dai siti più disparati. Mi dico: ma che bella ginnastica! Malauguratamente, non è l’unico.
Ai tempi che furono all’atto di aprire le imposte t’investiva un allegro vociare e i tanti che si alternavano per i motivi più diversi ti salutavano calorosamente. Alla fontanina di vico Mattia Preti già Mamerto la ressa, a volte vivace, era di prammatica, ma di solito ci si approcciava amichevolmente e qualche ritornello si elevava festoso nell’aria. Piccoli e grandi muniti di catini, cortare e bumbule si dipartivano perfino dall’agglomerato di baracche accanto alla chiesa del Calvario in un andirivieni consueto. Oggigiorno pur nelle più strette viuzze domina un assoluto silenzio e in certi momenti non ti rispondono neanche se suoni il campanello. Sono tutti sicuramente impegnati a chattare con gli amici o amiche oppure a fissare le immagini stereotipate regalate dalle tante tv tenendo il volume piuttosto alto. Ma a che rimpiangere! Va così e chissà cosa regalerà di più e di peggio l’avvenire alle generazioni future!
A Oppido, come luogo dove la vita quotidiana ferveva maggiormente si offriva la citata Piazzetta, detta così in quanto derivava da uno spiazzo a fronte della magione della famiglia Sposato. Nei documenti comunali era infatti segnalata come Piazzetta Sposato. Di poi è diventata piazza Mamerto, quindi Salvatore Albano, mentre la dirimpettaia, quasi simile nella forma e in grandezza, nella quale troneggia il monumento ai caduti nella guerra 1915-18, ha preso nome per mia iniziativa di piazza Concesso Barca, dalle generalità dell’autore del manufatto. Entrambe tramandano il nome di due geniali artisti autoctoni. In tantissimi vi convergevano per vari motivi. Innanzitutto vi erano accosto la sede del Comune e quella dei vigili urbani, ma si qualificava del pari il nodo centrale che smistava per il cinema, le scuole, la sede della GIL, il campo sportivo e la chiesa del Calvario. Non c’erano bar, ma non mancavano tre negozi di generi alimentari (Pentimalli, Corvino, Stefanelli), uno di stoffe (Polistena), una rivendita di frutta (Demeo), due macellerie (Polimeni), una sartoria (Pangallo), un telaio (i maistri Barca perennemente in lite con la Russeja; ancora ne risente l’intera piazza), il ciabattino (Gioffrè), il pentolaio (‘u Cundellu). Al giorno d’oggi di attivo a malapena si propone un bar. Il resto attiene per la gran parte ad abitazioni malinconicamente deserte. Poco fuori la piazza si notavano esercizi quali la dolceria Feis, altro negozio di alimentari (un secondo Stefanelli), l’oreficeria Frisina e la forgia di mastro Alfonso Violi. Al tempo di cui trattasi le panchine e i resti di un’antica fontana in marmo, che accoglievano del pari, attiravano parecchia gente.
In un certo periodo, al giungere dell’autunno, si rivelava ricorrente il flusso da Cittanova dei caddaràri, che sistematicamente a loro volta vi armàvano fucina. Si verificava allora un andirivieni di donne che portavano a farsi risaldare padèj, tigàni, sculapasta e altri utensili utili in cucina. Da San Giorgio arrivavano invece i cannistràri, i cestai. In un’occasione i monelli d’occasione abbiamo dovuto registrare una fifa da non si dire. Veniva di frequente con una lunga naca in testa un tipo bislacco sia nell’aspetto che nel modo di propagandare il suo prodotto. Probabilmente era uno zingaro. Infatti un altro flusso in Oppido era caratterizzato dalla frequenza di appartenenti alla stessa etnia, che con tanti salamelecchi volevano leggerti la mano o venderti utensili di rame utili del pari in cucina. Il nostro Tizio sembrava in tutto simile al Fortunello del Corriere dei Piccoli. Incappato nell’attenzione dei perdigiorno d’ogni momento, era spesso preso di mira con grida d’ogni tonalità ed espressione. In un frangente del genere, nel mentre gli davamo la baia, davanti alla casa dei Gioffrè lo abbiamo visto crollare a terra come pèzzulu. Apriti cielo! Pensando di esserne stati noi la causa, tutti tremebondi, siamo coraggiosamente scappati e ci siamo nascosti. Trascorso un ragionevole lasso di tempo siamo usciti furtivamente all’aria e te lo abbiamo ritrovato in vita. Abbiamo saputo ch’egli era solito finire a terra in quanto periodicamente soffriva di mal caduco. Quando si dice il caso! Comunque, d’allora ci siamo guardati bene dal ripetere la birbonata. Un canestraio di uguale provenienza, tutto canuto, addirittura a Oppido vi aveva preso stanza. Abitava in un basso del dismesso cinema e apriva punto vendita in altro del palazzo Grillo, proprio di fronte alla monumentale fontana di piazza Zuco. Anche con lui i birbaccioni di turno non mancavano di darsi da fare e l’appellativo più ricorrente era strangugghiapreviti.
La piazzetta, che aveva attorno rioni popolosi (Caciagna, Carbàriu, Pretura, San Giuseppi, ‘U spitàli, ‘A strata nova) da cui promanavano frotte di bambini, si qualificava davvero il centro di raccolta del popolo minuto. Per i nobili era tacitamente riservata invece la piazza maggiore. Lì si apriva il circolo dei cosiddetti signori. Questi, quando non si esprimevano con la loro boria passeggiando avanti e indietro, si abbandonavano alle discussioni di tipo politico e paesano occupando il tempo per delle ore. Piazza Umberto indiscutibilmente rifletteva l’antica agorà: era dei nobili e dei professionisti. La piazzetta invece era plebea e tutti ci ritrovavamo in essa. A parte i numerosi giochi ci erano offerte altre occasioni, per cui tanti ne ricavavano un loro luogo fisso. Quando i fichidindia erano pervenuti a maturazione, all’angolo del Gioisano c’era sempre un tizio con una cofana piena. Era uno spettacolo osservare come provvedeva all’eliminazione della scorza: un vero programma con tutti quei tagli in lungo e in largo. Chi possedeva qualche soldino vi accedeva e si faceva una bella panzata, chi no stava a guardare leccandosi le labbra. Quei frutti intensamente verdi, blu, rossi e gialli rappresentavano davvero una bella leccornia e ti facevano venire l’anguleja. Si mettevano perfino scommesse a chi ne trangugiava un certo numero. Era logico che chi aveva i soldi si offrisse di pagare e il nullatenente accettava con entusiasmo, soltanto che poi l’indomani sarebbe stato quest’ultimo a pagarne le dolorose conseguenze. I fichidindia sono eccezionali a mangiare, ma …! Nella stessa piazzetta, ma sul lato che guarda le case dei Gioffrè, sostava ‘a luppinàra, una donna anziana che con un cestone di vimini sulla testa smerciava lupini salati. Era una bagnaròta e agiva come tantissime del suo paese di origine. Distintivo il suo melenso vocìo: "Duci e salatu ‘u luppinu jè”. Nella piazzuola a lato cattedrale dove ancora troneggia una grande fontana monumentale prendevano posto appena fuori lo spazio del mercato coperto invece i venditori di meluni (melloni) e zzipànguli (angurie), i quali vi trascorrevano le notti coperti alla bell’e meglio. Anche per tal genere di frutti fiorivano le scommesse. Aveva diritto di portarsene uno a casa chi riusciva, sedendovi sopra, a squarciarlo. Avendo una buccia spessa e dura, non era tanto facile raggiungere lo scopo. Guarda un po’ quante originali e poco serie trovate!
L’oziare in strada era di sicuro un esperto suggeritore. Se il bambino non si recava in gelateria a comprare qualche sorbetto, era questo a portarsi da lui. Un incaricato di tale esercizio nei pomeriggi assolati si aggirava per i luoghi affollati del paese con il suo triciclo sistemato appositamente quale gelateria ambulante. Era festa quando circolava per le strade e lo si contattava festosamente. Il grido gelati, gelati era davvero un irresistibile richiamo.
Tra i tanti passatempi vi era anche il carròcciolo o carretta, che consisteva in un piano di tavola con uno sterzo, che si muoveva all’inizio con ruote di legno quindi con dei cuscinetti a sfera. Ci si spostava a turno in quanto procedeva solo a forza di spinte. Era un trastullo per lo più riservato ai piccoli. I grandicelli godevano di altro mezzo meccanico più efficiente, la bicicletta. Ce n’erano di tutte le grandezze dai Pappalardo, dove ai pomeriggi si faceva sovente gran ressa. L’affitto era a tempo determinato, un quarto d’ora, mezz’ora e all’uopo si pagava una cifra prestabilita. Ma che succedeva? Che spesso i marioli, una volta saliti sul mezzo e presoci gusto, se ne dimenticavano e oltrepassavano l’orario fissato. Che fare? Di soldi in più non ce n’erano nelle tasche, quindi cosa rimaneva? Portare furtivamente le biciclette vicino alla porta, spesso buttandole a terra per la fretta e darsela subito a gambe. E i noleggiatori richiamati fuori dal rumore a inveire: figghiu di bona mamma, se ti pigghiu…!
La notte in piazzetta comunque si concludeva in bellezza. Attorno alla monumentale vasca opera del prefato Barca distrutta nel periodo post-bellico da insipienza democristiana in quanto in alcuni tratti si rilevava il fascio littorio, si portavano gruppi di baldi giovani che con strumenti popolari (fisarmoniche, chitarre, clarino, sassofono) e stentoree voci allietavano allegramente (fratelli Cecè e Mario Simone, Ninì e Peppe Polistena, Peppe Violi, Vincenzo Epifanio …). Il cavallo di battaglia di quest’ultimo era la popolarissima Casetta tra gli abeti. Al ritornello Amore, amore, or che il roseto è in fiore ascolta la mia trepida preghiera… esprimeva la sua massima potenza vocale.
Rocco Liberti