In fondo l’attitudine alla brevità, alla sintesi narrativa del poco scritto e del molto lasciato intuire attraverso il voluto silenzio della penna Mario La Cava la eredita di sicuro dalla madre, ma anche dalla sua terra non a caso qualche secolo fa colonizzata dagli Achei e ancora oggi impregnata delle loro sintesi espressive e culturali asciutte ed eloquenti.
Marianna Procopio, la madre, era stata infatti per la cultura della Locride e della Calabria tutta sicuramente la prima scrittrice naif che , alfabetizzata appena fino alla terza elementare, era riuscita nel suo “Diario” a condensare in brevissime notazioni la complessità del vivere quotidiano dopo la prematura perdita della madre che per i Calabresi costituisce, forse più che per altri, l’epos più struggente all’interno dell’epos più ampio della vita in sè.
E, in una ombelicale mutualità narrativa, Mario La Cava direi che riprenda proprio dalla madre, dall’austerità narrativa dei vecchi delle nostre campagne, dalle sintesi lineari e insuperate della cultura magnogreca, l’attitudine all’ellitticità sapiente del racconto che nell’arco di una manciata di righe condensa una storia e ne suggerisce l’ acuta comprensione di tutti i passaggi e di tutte le possibili sfumature.
“Caratteri” e “ I racconti di Bovalino” sono in questa dimensione le raccolte emblematiche di Mario La Cava, che anticipa e precorre con esse una fioritura incredibile nella narrativa minimalista di cui è interessata la narrativa neorealista italiana, ma è soprattutto disseminata la produzione letteraria anglosassone, specialmente a partire dall’ultimo ventennio dello scorso secolo.
In modo assai riduttivo la produzione di La Cava è stata catalogata solo come testimonianza più o meno stucchevole di un angusto mondo, - quello della provincia calabrese – del quale egli sicuramente ha voluto sondare tutti i dilemmi e le contraddizioni. L’angustia che egli descrive esiste , eccome! Ma non è solo quella della società calabrese in un contesto più o meno datato, è invece quella dell’essere umano in sé, con tutte le sue grandezze, con tutte le sue ipocrisie, i limiti e la storia privata e pubblica inevitabilmente segnata da ferite e da compromessi.
“Caratteri” è costruito come un muro complessivamente elegante e slanciato verso l’infinito, ma fatto appena appena di mattoni riciclati e di cocci sbrecciati, ognuno dei quali narra in silenzio la propria storia incredibile, un vissuto che nemmeno immaginavi…
E’ dunque il racconto breve o brevissimo in La Cava un canto di frammenti, di appunti, di abbozzi, di intuizioni, di quadretti sociali, una sorta di diario personale davanti al fluire dei tempi e all'immobilità delle convenzioni. E’, come osserva L. Sciascia, un'opera costantemente in fieri; più che diario, anche se sulla scia del diario materno, una testimonianza dell'anima, un grido di denuncia sociale scandito da notazioni improvvise, da echi narrativi definiti, ma anche da silenzi eloquenti…
“ La scienza moderna ha trovato delle analogie tra la lana delle pecore e le foglie degli ulivi, - diceva zio Ciccillo. Era il tempo delle guerre continue, era il tempo delle requisizioni. Nostro padre, piccolo proprietario di terre, chino sul tavolo da studio, faceva i conti delle nuove tasse da pagare. – Che? Che? – domandò. – Vogliamo pigliarci pure le foglie degli alberi? ”(Frammento 82)
Un genere speciale di racconto dunque in cui l’Autore, come osserva Elio Vittorini, sembra però fondere “il gusto dell'imitazione dei classici e lo studio naturalistico del prossimo”.
Lo “studio del prossimo” è una metodologia di lavoro già sperimentata ampiamente nel quadro letterario
italiano, ma in La Cava non è mai avulso dalla situazione sociale e storica in cui si vive e non è nemmeno un sostanziale ripiegamento su se stessi, come accade in tanta produzione anglosassone.
Sicuramente classici sono invece l’impianto espressivo e narrativo, il rigore stilistico, la forza evocativa e rappresentativa delle parole che vanno a caratterizzare personaggi , luoghi, situazioni con un’impersonalità ricercata, ma non artefatta, come invece avviene in tanto
neorealismo di maniera che ha ancora oggi indubbiamente maggiore fortuna che non la produzione di La Cava.
Il merito del recente recupero dei “Racconti di Bovalino”, parzialmente e casualmente già pubblicati su riviste e antologie, ma per fortuna conservati sostanzialmente inediti dal figlio nella stesura definitiva rimasta autografa, va attribuito alla lungimiranza dell’editore Rubettino. Si tratta di venticinque racconti scritti verosimilmente intorno agli anni Trenta e poi sottoposti, nei decenni successivi, a esercizi di riscrittura.
Scopo dei racconti - dice lo stesso La Cava — «non è stato di documentare alcunché, ma di esprimere poeticamente, secondo le mie forze, un sentimento tragico della vita, desunto da quelle della gente tra cui ho sempre vissuto».
Sono frammenti pure questi , ma rispetto a quelli che danno vita a “Caratteri” assumono la personalità definita del racconto breve molto più curato e levigato nella sua stesura finale. Rappresentano anch’essi però momenti di vita sempre statici e difficili che raramente hanno movimento o sviluppo, anzi quasi sempre
stigmatizzano e mettono a nudo la fissità di esistenze segnate da qualcosa.
Narrazioni brevi o brevissime, dunque, sia quelle dei “Caratteri” sia quelle contenute nei “Racconti di Bovalino” e tutte d'impianto sostanzialmente naturalista, ma rese uniche e inconfondibili da un linguaggio di sapore classico, del tutto sconosciuto a tanti narratori di oggi. Su di esse valga per tutti il giudizio, a sua volta fulminante, di Leonardo Sciascia: «Le cose di La Cava costituivano per me esempio e modello del come scrivere: della semplicità, essenzialità e rapidità a cui aspiravo».