venerdì 2 giugno 2023

Mémoires 6 : OPPIDO E L'ASPROMONTE DI GUERRA IN GUERRA ( Di Rocco Liberti )

        Stavolta la memoria diretta dello storico, che ancora per un attimo "smette i panni curiali", ripercorre  l'eterno dopoguerra nel quale vive e si dibatte la società dei paesi aspromontani dagli anni Venti fino alla soglia degli anni Cinquanta del secolo scorso. Oppido, anche in questo caso, ne è l'emblema eloquente con le sue povertà e i suoi aneliti di progresso frustrati sempre dalle miserie seminate dal I e dal II conflitto mondiale e dai rispettivi dopoguerra tra i quali infatti non sembra esserci soluzione di continuità. Il racconto, inedito e meticolosamente ancorato al vero, ancora una volta sembra mostrarci una società che non si riconosce per niente nei" grandi" eventi nazionali se non per subirne il capriccio, l'arroganza, la barbarie lontana dalle fondamenta illustri della civiltà di queste contrade, soprattutto la retorica infinita diffusa dalla radio prima durante e dopo ciascuna delle due guerre. E mentre passavano i conflitti e giungevano le " ricostruzioni" la fame e gli stenti restavano quasi gli stessi, le gonne usurate della donne si accorciavano sempre di più, per nascondere gli orli consunti, e i bambini crescevano per le strade preparando le braccia per quella che sarebbe stata da lì a poco la più disastrosa ondata emigratoria della nostra storia. Ancora grazie a Rocco Liberti e all'obiettività commovente  e mai di parte del suo racconto ( Bruno Demasi).
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     La prima fase del XX secolo non si è configurata di sicuro un periodo che può sintetizzarsi in una sola accezione. Si sono espresse frazioni di tempo che si ama rievocare con una certa nostalgìa, ma se ne sono alternate di altre, che, se non hanno distrutto completamente le memorie di una esistenza semplice e tranquilla, c’è mancato poco. Indubbiamente di viva memoria le tradizionali fiere e feste, le imponenti processioni sacre, le rappresentazioni teatrali, il cinema inizialmente muto poi sonoro, i cinegiornali dell’Istituto Luce con un Mussolini imperante dallo schermo a un angolo della Piazza Umberto I davanti a una gran massa di cittadini a bocca aperta e con gli occhi lucidi. Mi rivedo in braccio a mio padre a osservare Duce e Re sfilare pomposamente in auto scoperta. L’arrivo delle giostre e dei “circoli” equestri Canestrelli (rimasta famosa la giovane Mirra col nome appiccicato a una pseudo imitatrice oppidese), Zoppis (Fortunello, Amalia, il muto), Cristiani e dei carri di Tespi faceva il resto. I componenti dello Zoppis a Oppido sono stati sorpresi dalla guerra e dal conseguente armistizio e vi erano rimasti a lungo. Una buona parte di essi aveva alloggio in un appartamento sul corso oggi di proprietà Mazzullo. Per aiutarli a cavarsela spesso agli spettacoli si portavano gli alunni delle scuole. Agli esercizi ginnici e alle comicità dei clowns, talora, allo scopo di variare, si alternavano recite di drammoni con titoloni ad effetto come “Nozze di sangue”. Bisognava pur arrangiarsi!
     Erano davvero ore difficili quelle che all’epoca si vivevano. L’avvicendarsi di conflitti non aveva termine e anche a Oppido tali flagelli dell’umanità hanno arrecato desolazione e morte. Terminata l’avventura dell’Eritrea, si è fatta avanti quella di Libia con al seguito la prima guerra mondiale, quindi le altre di Abissinia e Spagna, per giungere all’ultima più cruenta e disastrosa, che ha completato l’opera.
      Mi è ancora vivida la partecipazione alle sfilate fasciste delle vedove di guerra indossanti una lugubre uniforme. Le vedove di guerra! Mi si offre alla mente Annuzza Napoli, che ha perso il marito Francesco Lipari in Spagna. È morto assieme al sottotenente Rocco Mammone di Piminoro e a Michele Grillo di Messignadi. Mi dava un certo senso vederla al gran completo in nero e con l’espressione e l’atteggiamento marziale che s’imponevano. Tra i caduti rammento altresì il carabiniere Gregorio Molluso, vicino di casa, che ha lasciato la vita a Durazzo in Albania nel 1941 in un’imboscata, Mimì Cilea nel 1943 caduto con l’idrovolante in mare e perito per non saper nuotare, Tullio Tripodi e Nino Manna eliminati per mano partigiana nel 1944 in Alta Italia e Francesco Mittica deceduto in un lager in Germania nel 1945. Una commemorazione in cattedrale di cittadini morti in differenti plaghe è stata immortalata dal vescovo Canino in uno dei suoi filmini. Il presule era un patito della macchina da presa e registrava quanto avveniva intorno a lui.
     Parecchi Oppidesi che si sono recati in Africa onde procurarsi un futuro più prospero si sono ritrovati coinvolti nella grave situazione causata dalle ricorrenti operazioni belliche. Se taluni hanno fatto provvisorio rientro, sono conseguentemente ritornati nei siti nei quali avevano messo stabili radici e si erano fatti una posizione, altri non si sono più mossi. Mi sovviene la famiglia Matalone, i cui membri appellavamo Tripolini in quanto oriundi dalla Libia, che dopo la guerra si sono riportati in Africa. 

    Per il primo periodo la tragica conflagrazione si è avvertita alquanto in distanza, almeno da noi piccoli. Ascoltavamo discorsi di ogni tipo, ma non potevamo impensierirci più di tanto. Si sosteneva che avremmo alfine vinto e questo in qualche modo attutiva, ove c’erano, eventuali preoccupazioni. Le poche radio esistenti facevano al caso e la popolazione si accostava a quelle abitazioni dove ce n’era una. Quella della mia famiglia, una delle prime radio pervenute a Oppido negli anni Venti, non ha più voluto sentire ragioni di funzionare e, avendo mastro Gustino, un calderaio oriundo cittanovese, tentato di ripararla, ha perduto la voce completamente, per cui ci siamo dovuti appressare a quella della famiglia Muscari, che risiedeva dirimpetto. Non abbiamo più potuto continuare ad ascoltare nottetempo i battibecchi che si svolgevano tra il giornalista Mario Appelius e il disturbatore Luigi Polano. Quatti quatti e usando sotterfugi per non farci notare si porgeva orecchio anche a radio Londra da cui partivano tra un assordante rumore di ripetute scariche per annullare la contropropaganda, tra gli altri, i commenti ai fatti del giorno del colonnello Stevens e di Umberto Calosso.
   Ma, tanto tuonò che piovve, offerisce un antico detto, per cui siamo giunti a un punto di non ritorno. Il 1943 ci ha fatto constatare una realtà veramente problematica. Ma, mentre tutto andava a catafascio, dai muri delle case continuava a guardarti duro e quasi minaccioso il Duce in divisa e fez o con l’elmetto. Negli ultimi tempi l’operazione si era moltiplicata e io ho avuto una immagine sul prospetto della mia dimora. Sembrava che ti seguisse per controllare se entravi o uscivi. Gli davi uno sguardo en passant, ma si rivelava ingombrante. Non erano da meno le scritte, ma queste perlomeno ti costringevano a leggere. Le ripetevamo a iosa anche senza sapere cosa volessero dire. Il credere, obbedire e combattere si stagliava a caratteri cubitali e anche i muri del Municipio recavano la loro stimolante striscia. Certe volte era un’ossessione. Non so in quante occasioni abbiamo fissato lo sguardo in alto sul palazzo Simone per leggere ciò che ci si proponeva a fronte: È l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende. Leggevamo a voce alta e si qualificava indiscutibilmente una litania. 
   Diciamo eufemisticamente che leggevamo, ma è sicuro che in merito non capivamo un’acca. Il faccione di Mussolini non mancava in ogni casa popolare eretta durante il regime. Era come un marchio di fabbrica! Una cosa però bisogna dirla! Le case ancora si stagliano imperterrite come se l’età non fosse trascorsa e per scalfirle ci vuole altro che il martello pneumatico, mentre quelle costruite nel dopoguerra hanno richiesto sovente rilevanti riparazioni.
    Nell’ultimo anno di guerra a Oppido sono state stanziate truppe di ogni genere. Per primi sono pervenuti i militari del battaglione Lupi di Toscana, formato in larga parte da settentrionali, ma guarda caso, tra loro ce n’era uno anche di Messignadi, Rocco Misale, che vedevo frequentare giornalmente dei parenti che abitavano sulla via Curcio di fronte all’abitazione dei Vergara. Il grosso è stato sistemato nei bassi Cannatà di fronte al Municipio. Per far loro posto sono stati sloggiati quanti negozi vi operavano (l’oreficeria di Filardi soprannominato ‘u profeta in quanto profferiva scherzosamente di aver fatto un contratto col Padreterno per arrivare più in là e rinnovare secolo dopo secolo, ma che è morto dopo qualche anno, la bottega di generi alimentari d’u ‘Mericanu (Stefanelli) e il Corpo delle Guardie Municipali. I soldati sono stati sistemati in letti di legno a castello subito approntati dalla segheria Morizzi. Tali inderogabili suppellettili a guerra finita sono state trasformate in sedie per gli studenti frequentanti la scuola media.
  
   Superfluo dire che i ragazzi ne eravamo affascinati sia nell’assistere alle varie esercitazioni (talvolta seguivamo le schiere in marcia fino all’appezzamento agricolo condotto dai Napoli) che ai canti in coro, tipici quelli del Nord Italia. Ricordo l’inizio di un ritornello: O come mai povera Emma…. Solo perché una mia sorella porta tal nome. A noi che stavamo di fronte regalavano scatole di marmellata oppure gallette. Non è che queste ci piacessero soverchio, ma faceva d’uopo cibarsene. Sovente capitava d’intrattenerci con i soldati in libera uscita e di chiacchierare seduti sulle panchine della Piazzetta. Il reparto meccanizzato, conosciuto come Autocentro, cioè camion, camionette ecc. è stato posizionato nei pressi del Calvario, dai Lombardo in giù. Allora il terreno era tutto sgombro o c’era qualche orticello (Calarco).
    Particolarmente commovente è riuscita per la festività dell’ottava del Corpus Domini la funzione offerta da un altarino piazzato su uno dei mezzi. La gente era commossa e con gli occhi lucidi. Gli ufficiali hanno trovato ricetto all’albergo Pandolfini mentre lo Stato Maggiore ha occupato l’Episcopio appena riedificato. Un militare era sempre di sentinella col fucile in spalla davanti al portone. Di specifico mi è noto soltanto l’episodio che riguarda l’arresto di un soldato. Questi, pare di idee contrarie al regime, bazzicava nella sartoria di mastro Alfonso Pangallo, dove ne convergevano di altri e i Gioffrè. Colpiva nell’occhio in quanto si offeriva sospetto di antifascismo. Alcuni militari alla fine hanno portato all’altare donne del paese. Tra essi: Zanco (il noto netturbino e tuttofare Angiolino), Lazzari, Napoletano, Vacca, Negrini.
    Partiti i Lupi di Toscana è stato il turno delle Camicie Nere. Era un gruppo altamente variopinto che viaggiava su delle biciclette non proprio ottimali. Dava l’impressione che le forze armate fossero ormai allo sbando. I militari, che tali non mi sembravano, sono stati collocati nelle scuole elementari. Lo spaccio ha avuto sede nel basso Cannatà quello oggi dietro il Bar Giannetta. N’era impegnato un Neri di Reggio Calabria.
   Le camicie nere si sono ripresentate anche in altra fase, ma lo spaccio col medesimo addetto è stato dirottato presso l’Ospedale. Con i miei, che lo foraggiavano di qualche cosa che si ritrovavano, come pomodori, frutta e altri generi di campagna, erano diventati amici e in un’occasione mi ci sono recato dietro suo invito. Nella seconda sede mi ha consegnato un sacchetto di farina bianca che più bianca non ce n’era. È stata come una provvidenziale manna dal cielo. Alla fine i militi si sono spostati su Gambarie e Neri, dopo un paio di cartoline non si è fatto più vivo.
    In Oppido vi sono stati anche i tedeschi, che hanno alloggiato nella allora sconsacrata chiesa dell’Oratorio. In questa vi sono stato solo a guerra conclusa. Il luogo era distante un po’ dal mio domicilio e i pericoli si avvisavano ad ogni passo. A una visita vi ho rinvenuto un vero sfacelo con suppellettili e santi in gesso o cartapesta buttati di qua e di là. I militari germanici li vedevo però transitare con i camions sul corso principale. Si soffermavano accanto alla piazzetta Mamerto e le persone vi si appressavano per chiedere di tutto, in particolare cibarie, ma anche sigarette. Erano sempre gioiosi e sorridenti. Poggiavano pure presso l’albergo Italia di Lentini. Francamente in pochi riuscivano a ingerire quel loro pane oblungo e nero. Pareva composto di crusca e ne aveva anche il sapore, diciamo che ngargiàva. Faceva il paio con quello che poi ci hanno regalato gli americani, la cosiddetta farineja, una farina di cereali, che a definirla disgustosa era poco. Solo mio padre ha avuto il coraggio di trangugiarla, il resto ci siamo rifiutati anche a costo di non mangiare più niente.
   Gli americani si erano invece emendati a guerra terminata quando ci hanno fatto avere quella farina bianca da cui si ricavava un pane alto il doppio di quello che conoscevamo. Era morbido e saporito come un dolce, ma era pure una fùffula, cioè spariva a vista d’occhio. Si offriva tutto mollica. Per saziarci ce ne voleva di quel pane! Son passati anni prima che ci sentissimo satolli. Avevamo sempre fame. Era invero una fame arretrata. A tavola per averne di più io e mio fratello a pranzo non mangiavamo nei piatti, ma nelle cosiddette gamelle usate dai militari. Ne entrava sicuramente in quantità maggiore.
    I tedeschi nonostante ogni appariscente accostamento corretto non è che si comportassero sempre in maniera accettabile e come amici. Un imponente scandalo si giudicava soprattutto quanto si perpetrava sulla piazza accosto alla cattedrale. Io non mi ci sono mai avvicinato né so di altri, ma credo che i curiosi non mancassero. Che cosa ci facevano in quel luogo i tedeschi? Dopo aver rovistato tra le case di Reggio e Messina che venivano colpite dai bombardamenti, arraffavano quanto si presentava loro agevole e ve lo portavano a vendere. C’era di tutto: coperte, lenzuola, mobili e altri oggetti. In una circostanza a creare scandalo è stato addirittura un pianoforte. In verità, tutto poteva far gola, per cui non lasciavano nulla d’intentato. I ripetuti misfatti passavano di bocca in bocca e con l’attenzione necessaria. Il timore regnava sovrano. La gente non vi si avvicinava sia per il disgusto che quelle azioni provocavano sia perché i soldi non c’erano. E chi ce li aveva? Altro che acquisti! Per le ristrettezze in cui si versava i pantaloni venivano rabberciati con delle vistose toppe sul didietro racimolate da altri ormai non più in uso e le gonne si accorciavano fino al disopra dei ginocchi! Con le improvvisate mini vestine le donne si configuravano abbastanza goffe. Si qualificava certamente una forzatura! Era il tempo in cui era necessario mostrare buon viso a cattivo gioco.
   Ai tedeschi si deve la costruzione di due bunker da noi ricordati come “fortini” sulla strada che porta da un lato in montagna e dall’altro a Santa Cristina d’Aspromonte, esattamente al bivio. Sono stati eliminati in seguito a un’ennesima ristrutturazione dell’asse viario, ma ancora se ne avvedono due consimili proseguendo verso detto paese.
  
    La presenza dei tedeschi in zona ha registrato uno strascico doloroso nel territorio comunale. Avevano essi installato un grosso deposito di munizioni in località Maddalena di Castellace. All’ora del fuggi fuggi era logico che non pensassero a trasferire tutto con loro per cui del materiale di carattere bellico era rimasto incustodito. Che succede? Che a tanti giovani oppidesi è subito balenata l’idea di recarvisi per rastrellare quanto possibile. Dicevano che andavano a cercare la “miccìna”. È finita bene perchè il tutto si è chiuso con un ricovero in ospedale di diversi giorni, per cui i vari Carrano, Faraone, Inga, Princi e altri se la sono cavata. Non è andata bene a un Giampaolo che ci ha rimesso una gamba, ma in questo caso si è trattato di una pistola rinvenuta in contrada Foresta. Il caso! Un suo fratello ha perduto pure lui uno degli arti inferiori, ma a Modena in conflitto occasionale con alcuni tedeschi ad armistizio avvenuto. Durante la precipitosa ritirata nella nostra plaga si sono registrati altri episodi cruenti. Sempre in zona di Castellace un soldato germanico ch’era entrato in una vigna e l’aveva, diciamola proprio, vendemmiata, è stato ucciso dal proprietario del fondo. Purtroppo appena tre giorni dopo la proclamazione della pace, il 5 settembre, nello stesso territorio ci hanno rimesso la pelle alcuni abitanti a causa di un mitragliamento operato dagli alleati in rabbiosa reazione all’abbattimento di un loro aereo da parte dei tedeschi. All’istante sono morti il ventenne Vincenzo Verduci e la quinquenne Rosaria Monaco, mentre all’ospedale della Croce Rossa di Oppido sono decedute la quindicenne Filomena Calabrese e la ventunenne Francesca Messina.
     Un’ultima schiera di militari italiani il 7 giugno del 1943 è stata di passaggio a fine di recarsi in montagna o sulle terre dello Ionio, ma nell’avviarsi da Oppido, in località Folàri incappava in un’inopinata morte per improvviso malore il tenente vicentino Pietro Valbusa. Naturalmente, i funerali dello sfortunato giovane sono stati celebrati in paese. La di lui madre, dopo la guerra, si faceva un dovere, finché ha potuto, di portarsi tutti gli anni in Calabria per andare a visitare il luogo dove il figlio era deceduto. Amava intrattenersi cordialmente con le persone che l’attorniavano commosse. A quei tempi la gente non era tanto adusa a parlare con abitanti di altre regioni e perciò la curiosità era massima. Nella piazzetta si formavano spesso dei capannelli.
     I primi americani (reparti di canadesi), un gruppetto sbucato dalla strada della Vina, l’ho visto nei pressi del luogo dove ora c’è l’ufficio postale. È stato quasi assalito da una folla che chiedeva di tutto. Quelli potevano dare e davano solo sigarette. Non avevano altro e ognuno giocoforza se ne accontentava. A qualcuno della famiglia sarebbero riuscite utili. Era il momento in cui si era privi di tutto. Vi è intervenuto un improvvisato interprete, che, messosi una fascia al braccio con scritta in inglese, cercava di fare da tramite. Era una persona anziana venuta dall’America che abitava nei pressi del cosiddetto Ponte di Tresilico. Tra i più esagitati che allungavano le mani per ricevere qualcosa ricordo la mammana donna Concettina M. Il suo agitarsi scomposto in verità colpiva alquanto.

Rocco Liberti