sabato 11 febbraio 2017

Colonìe III: LA SVENDITA DEL SUDORE

di Nino Greco
    Il carboncino di Gianna Pinto che apre questa nuova pagina di Nino Greco e che rappresenta in modo sublime il volto della donna, della madre calabrese per antonomasia mi ha sempre commosso: lo ritengo un capolavoro.
    Ed è degno di illustrare tutta la tristezza di Nino Greco  nel ripercorrere queste righe in cui sua madre, scomparsa pochi giorni fa, appare silenziosa, anche se non espressamente citata, insieme alle altre donne consunte dalla fatica rurale, affacciate allo stradone a svendere all’affarista di turno i frutti del loro sudore.
    La dipartita di queste donne senza tempo, sopravvissute al vecchio  secolo solo per assaggiare i veleni del nuovo  ormai privo di storia, lascia dei vuoti impensabili – io l’ho provato tre anni fa – perché rappresenta il crollo di una religione, quella del lavoro e dell’ umiltà orgogliosa, quella della sapienza antica e dell’arte della famiglia, distrutta inesorabilmente da mille nuove idolatrie che ci rubano la dignità senza che ce ne accorgiamo.
    A Caterina Gentile Greco, a tutte queste donne antiche che stanno lasciando in silenzio la scena di questo mondo dopo avere insegnato la vita e l’orgoglio della famiglia per tanto tempo, va la nostra smisurata e commossa gratitudine. (Bruno Demasi)

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   Nello slargo, sotto i pioppi, dopo ogni raccolta, avveniva la vendita dei fagioli. In quell’oasi d’ombra e di terra battuta ci si arrivava dallo stradone che, da Marro, fiancheggiando e in qualche punto attraversando le fiumare, porta fino alla Ferrandina. 

   Era il tragitto che, ogni anni a metà giugno, faceva Roccuzzu di San Martino. Girava per le contrade per accaparrarsi la vajaneja promentina, e approfittava per ‘mparolarsi il raccolto con chi ne fosse disponibile.
   Risaliva la fiumara col suo Lupetto rosso; il clacson del camioncino e un cupigghjuni di polvere era il richiamo per i coloni che sbucavano da ovunque e lo seguivano fino a lì, sotto ai pioppi e al fresco.
   Un giorno della fine di giugno, dopo aver radunato i coloni della Pignara e proposto a loro le condizioni, risalendo la fiumara, arrivò fino a noi, ai Tri Chiuppi.
   Le voci della Foresta avevano anticipato il suo arrivo; un passa parola mormorato tra le reste e le rasule di fagioli:
- Avoji ‘nc’è u camiu i Roccuzzu i San Martinu!
   Il rombo, il clacson del camion e la nuvola di purbarata sollevata confermarono le voci.
   Arrivò nello spiazzo, scese dal camio insieme al suo lavorante e attese l’arrivo di tutti coloro che avevano piantato nei paraggi.
   Era un omino basso, volto rigonfio e grondante di sudore, occhi grossi e arrossati incastrati in orbite che sembrava reggessero con fatica i movimenti dei bulbi; voce stridente, ventre straripante oltre la cintura, e la camicia, il cui collo arrivava a metà guance, rivelava apertamente un collo basso e che non vi fossero in commercio modelli di camicia adeguata al suo busto.

- Pure quest’anno volarria ‘ccattari la vostra fagiolina, anche se ho pensato seriamente di cambiare travagghjio! Non si guadagna niente!
   Disse ridendo e con la parlata dericinisa e allargando le braccia per mostrare una finta disperazione.
- Non piace più la fagiolina! Le famiglie ormai s’addubbano a pasta e carne, i fagioli non li mangia nessuno! - rise.
   Era un modo grossolano per preparare le condizioni e per giustificare le lire che avrebbe proposto per ogni chilo di fagiola.
- La prima cogghjuta di vajaneja tennera, sia di maddammolu che di milanisi, ve la pago a sessanta lire, ma deve essere carravuci, non voglio il mezzo coccio; per le prossime raccolte ci metteremo d’accordo, a mano a mano.
   Roccuzzu poneva le condizioni ed erano le stesse dell’anno prima, potevano variare solo le lire. E così, tranne le piante lasciate per semenza e quanto serviva per il consumo di casa, si accaparrava tutta la produzione; era l’unico a comprarla, nessun’altro si offriva né si era mai proposto. Scelta obbligata: o chistu o nenti, e ci si contentava.
   Ogni anno diceva le stesse cose, usando le stesse parole; forse non ricordava di averle già dette l’anno prima o le ribadiva poiché le reputava convincenti. Si sentiva talmente padrone e certo che nessun evento gli avrebbe distolto quei raccolti.
   E poi il prezzo lo poneva al momento della trattativa; quale colono, dopo aver riempito i sacchi di zombara, avrebbe rinunciato alla vendita ritenendo il prezzo non soddisfacente? A chi altro avrebbe potuto vendere quanto raccolto? 

- La gente vuole sostanza, cerca altre cose quando va al mercato, e la vendita diviene sempre difficile; e poi a vajaneja è: “chiantari e cogghjiri”.
   Sdegnava i sacrifici di coloro che svendevano intere giornate di lavoro e diceva che la fatica era limitata alla semina e alla raccolta; non teneva conto, o faceva finta di non sapere, che c’era da dubrare, da bivarare, e poi ancora l’impalare e lo spagghjarare.
   Nessuno votava parola, e non perché non c’era nulla da dire, non era opportuno scorrucciare il compratore, un altro non ci sarebbe stato.
   I coloni di quei paraggi, disposti a cerchio sotto l’ombra dei pioppi, erano con le orecchie aperte per cercare di capire a quanto avrebbe pagato un chilo di maddammolo e di milanisi, giusto per fare un veloce calcolo e capire quante lire avrebbe reso un sacco chinu di zombara, che ‘nsaccato bene conteneva oltre trenta chili.
   Io osservavo il volto serio di mia madre e degli altri: di commare Cuncetta, d’ a Cireiota, d’a Perduta, d’a Monaca, di Vavarella; si radunavano lì anche coloro che avevano le terre dei De Zerbi: ‘a Curruna e Nino Zinghinì.
   Tutti che pendevano dalle parole di Roccuzzu, e lui con aria di rammarico diceva che, ai mercati di Taurianova, in pochi compravano i fagioli.
- Ormai le famiglie si guvernanu di carne e pesce!
   Ripeteva continuamente, e rideva. Bisognava crederci, o fare finta di crederci.
   E poi lui faceva vedere i soldi. Una scena che si ripeteva nei momenti della compravendita e che conoscevano tutti.
   Accadeva che quando era il momento di pagare i coloni tirava fuori dalla tasca tanti pezzi da diecimila da cinquemila e da mille lire, una corposa mazzetta che gli riempiva il pugno e che passava sotto il naso di tutti. 

   Esibiva i denari ed esibiva il potere; che per lui era tutto lì, in quel pugno di banconote.
   Vantava il suo avere e Vavarella diceva:
- Cu mmostra i sordi mmostra u culu!
   Un modo semplice per dire che chi sfoggia il potere nella maniera più arrogante e senza discrezione, nel momento in cui lo fa mostra la parte più cajorda del suo essere. Vavarella non ossequiava Roccuzzu oltre l’opportuno, sembrava fosse invidia per quella manata di denari o un’antipatia spontanea per quell’uomo vanitoso.
    Quell'ostentazione del potere e del benessere ‘mportunava chi, come Vavarella, per vedere mille lire doveva vendergli venti chili di fagioli e a Vavarella quell’estate gli sarebbe servito davvero vendere tante quintalate di fasolo, aveva fatto la figlia più grande zita ed era prossima al matrimonio.