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Lea Garofalo |
Nella giornata in cui si commemorano i sacrifici di parecchie centinaia di donne sopraffatte dalla violenza maschile, ma soprattutto dal silenzio in cui in Calabria siamo maestri, vale la pena ricordare alcune donne vittime non di violenza comune, ma di mafia, che hanno insanguinato i nostri paesi. E' uno steep piccolo, ma significativo per la presa di coscienza della situazione in cui si vive nella nostra provincia, dove le cronache giornalistiche non sempre riescono a configurare esattamente il caleidoscopio di grovigli nei quali viviamo... Ma lasciamo a Francesca Chirico qualche breve nota tratta dalla sua stessa introduzione al libro prefato da Michele Prestipino intitolato "Io parlo".
"I codici della ’ndrangheta ignorano differenziazioni di genere, e non certo perché rispettosi delle pari
opportunità: la presenza delle donne, semplicemente, non è contemplata e
il loro silenzio mansueto – nonostante l’imprevedibilità della natura
femminina «cantata» da tanta tradizione popolare – è presupposto dentro e
fuori la famiglia-cosca. È un dato culturale, consegnato da un mondo
contadino di poche parole che alle donne affidava la casa e precludeva
la polis. Tuttavia qualche codice non rinuncia a richiamare il
concetto, fornendo veri e propri consigli di bon ton: «La donna di un
affiliato non manifesta mai curiosità sulle discussioni o attività del
suo uomo ma tacitamente si adegua al proprio ruolo» La ’ndrangheta,
però, prevede anche il riconoscimento di benefit, come
l’assegnazione del titolo di «sorella d’omertà», l’unico che il mondo
maschile e maschilista della criminalità organizzata calabrese conceda
in via ufficiale alle esponenti dell’altro sesso. Il messaggio è chiaro:
la
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Francesca Chirico |
caratteristica più importante di una donna di ’ndrangheta, non
importa quanto sia scaltra, spietata o a quali importanti compiti
dirigenziali sia stata cooptata, resta il silenzio. Nel dettaglio: non
proferire parola quando le scelgono il marito, stare zitta durante gli
interrogatori di Carabinieri e Polizia, restare muta di fronte alle
decisioni di morte degli«omini».
Infrangendo il silenzio assegnato dalla
tradizione e preteso dalle cosche, combattendo paura e pudore,
raccogliendo, non in misura uguale, disprezzo e solidarietà, in Calabria
ci sono donne che hanno parlato. Madri, figlie, sorelle che negli
ultimi trent’anni hanno socializzato il dolore, per socializzare
l’ingiustizia, rimanendo spesso sole o isolate e pagando, in troppe, un
prezzo altissimo. Vittime di ’ndrangheta che, senza vittimistica
rassegnazione, hanno trasformato la ricerca privata di giustizia in una
battaglia collettiva di civiltà, «il pathos della traged ia in ethos
della democrazia»
Le prime infrazioni arrivano negli anni
Ottanta. Marianna Rombolà, a cui hanno ammazzato il marito a pochi metri
dal portone di casa, nel 1988 decide di confidare nella giustizia dei
tribunali: alcuni concittadini di Gioia Tauro le spediranno lettere di
solidarietà, ma senza firma; hanno un nome e un cognome, invece, i
tantissimi che le levano il saluto. E poi ci sono due «forestiere» – una
ragazza innamorata e una madre disperata– che la Calabria la incrociano
per loro sventura, donne cresciute stando zitte solo quando non avevano
niente da dire. Il 22
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Rossella Casini |
febbraio 1981 Rossella Casini comunica al padre
che sta per partire da Palmi e tornare a casa, a Firenze. Non ci
arriverà mai.
La giovane fiorentina è stata uccisa e
fatta a pezzi per avere spinto alla collaborazione il fidanzato
calabrese, coinvolto in una sanguinosa faida. Per la ’ndrangheta
Rossella era un’infame. Quando nel 1989 la «nordica» Angela Casella si
rivolge alle donne di Ciminà, chiedendo aiuto e solidarietà per il
figlio Cesare,sequestrato da Pavia, trova chi le ribatte un po’
stizzita: «Che ti dobbiamo fare, noi?». Di tragedie, nel paese
aspromontano con oltre quaranta
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Angela Casella |
morti di faida, le donne ne avevano
sopportate per vent’anni, tenendo la bocca chiusa e stando al loro
posto: sotto il velo del lutto, pensando alla vendetta, se facevano
parte delle famiglie coinvolte, o dietro le imposte, in attesa della
prossima vittima, se ne erano estranee. In entrambi i casi, in silenzio.
Qualcosa comincia a scricchiolare. La cappa si incrina,
impercettibilmente, e dalla fessura rifluiscono parole. Nasce nel 1989
il comitato Donne contro la mafia e, quattro anni dopo la «missione» di
Angela Casella, sarà la figlia di un sequestrato calabrese, Deborah
Cartisano, ad animare il comitato Pro Bovalino
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Deborah Cartisano |
Libera, promuovendo una
catena del digiuno e trascinando in Calabria il capo della Polizia e la
Commissione parlamentare antimafia. In quegli stessi giorni davanti al
Tribunale di Reggio Calabria staziona un’altra donna che ha deciso di
portare in piazza la sua battaglia contro il clan Mammoliti: si chiama
Teresa Cordopatri, ha visto il fratello ammazzato sotto i suoi occhi, ed
è calabrese.
Storie che diventano segnali. Come
quella, dirompente, degli undici commercianti di Cittanova che nel 1991
hanno denunciato, presentandosi insieme in commissariato, le richieste
di mazzetta dei Facchineri. Saranno due ragazze poco più che ventenni –
Maria Concetta Chiaro e Maria Teresa Morano – a dare voce e volto alla
loro ribellione. La strada è aperta, insomma. Ma resterà non abbastanza
battuta. Le voci faticano a diventare coro. Quando non sono le minacce,
le querele o, peggio, la morte, arrivano l’alone di scandalo, le accuse
di esibizionismo e il fastidio mal dissimulato ad accogliere chi ha
deciso di parlare chiaro, magari come la maestra Liliana Esposito
Carbone, con la foto del figlio ammazzato perennemente al collo. Perché,
in Calabria, la donna che parla lancia una doppia sfida: punta l’indice
contro i «nemici» ma
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Maria Concetta Cacciola |
anche verso un mondo che tace. Diventa, insomma,
un atto d’accusa ambulante che disturba sul piano criminale e imbarazza
su quello sociale. E allora ecco scattare i vecchi e consolidati
meccanismi di difesa e delegittimazione: Teresa Cordopatri è «buttana»
per gli uomini dei Mammoliti, e «pazza» per i loro avvocati. Rossella
Casini «era brava ma tornava tardi la sera». Liliana Carbone l’ha resa
pazza il dolore. La tendenza vale, naturalmente, anche per le donne di
’ndrangheta che hanno scantonato: Concetta Managò era «imbottita di
psicofarmaci», Lea Garofalo era «fuori controllo», Concetta Cacciola era
«depressa psichica», Rosa Ferraro è «pazza perché parla troppo» e a
Giuseppina Pesce «serve lo psichiatra». Proprio quello della fragilità
emotiva femminile, sbandierata come «prova contro», come inconveniente
di genere che priverebbe di valore scelte e parole, è un tema che
vedremo ritornare costantemente: depresse, instabili, pazze – come la
Cassandra dolente e furiosa di Christa Wolf – lo saranno considerate un
po’ tutte, le ribelli che parlano.
«Oggi le donne calabresi piangono ancora
chiuse in casa», dice Marianna Rombolà. Negli ultimi anni, invece, da
certe case le donne hanno scelto di uscire,
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Giuseppina Pesce |
facendosi nemiche di
«famiglia». Collaboratrici di giustizia come Giuseppina Pesce, cresciuta
all’interno della cosca più potente di Rosarno, e Rosa Ferraro.
Testimoni come Lea Garofalo, il cui esempio di coraggio risplende oggi
nella figlia Denise, o come Maria Concetta Cacciola e Tita Buccafusca
che, ritornate sui propri passi, hanno preferito l’acido a una vita tra
quattro mura «onorate». Una scelta di rottura, la loro, che ha infranto
muri considerati impenetrabili e potrebbe addirittura abbatterli, se
diventasse contagiosa. La condizione è che la loro voce non risuoni solo
nelle aule dei tribunali e che ad ascoltarla non ci siano solo i
magistrati."
E intanto a Roma si fanno vere e proprie acrobazie politiche per discutere di commissari e di commissioni sanitarie e distogliere l'opinione pubblica anche da questi problemi....!