Da Cosenza il ritorno ancora sulla costa tirrenica lasciata a Castelli (?) e attraverso boschi e montagne arrivo a Paola. Questa città si è offerta in una bella posizione, col suo monastero di San Francesco e la relativa statua sulla cima di una roccia, che tutte le navi passando salutavano e, infine, con i suoi edifici, rivelatisi degni di ogni attenzione. Ne aveva già disegnati come pure ad Amantea e a San Lucido[1].
La costa da Amantea a Nicastro induceva a un rapimento da non sapersi esprimere, purtroppo bisognava sottoporsi a un tragitto di ben 56 miglia senza imbattersi in altro che in una taverna, dove si poteva incocciare solo del vino cattivo e un tozzo di pane. N’erano causa l’incendio e il devastamento, cui erano stati sottoposti i villini che si trovavano nella zona. Scrive Millin a proposito: «non si vedono che testimonianze del furore degli uomini e delle prove di uno spirito sfrenato di distruzione»[2].
Inoltro verso l’interno superando un bosco di mirti, ginestre e alberi dai fiori odorosi, i cui colori erano mirabilmente mescolati e arrivo di notte a Nicastro spossati e affamati. Nel sentiero che ve li aveva portati, il mulo di Millin aveva messo le gambe nella briglia di quello di Catel ed era diventato talmente furioso che il primo, che temeva di essere ucciso, è rimasto tutto ammaccato. A Nicastro, dove è stata rilevata appena un’iscrizione antica di scarsa importanza, si evidenziavano ferite vecchie e recenti, quelle del terremoto del 1783 che l’aveva parzialmente abbattuta e le altre causate da un torrente che in meno di un’ora ne aveva distrutto un altro tratto. Al posto delle case si notavano le rocce che vi erano precipitate sopra. Nuova tappa Monteleone, interamente annullata dal sisma e dove si avvertivano due magnifici palazzi atterrati. Le case ancora in piedi erano soltanto baracche di legno. A Monteleone la sosta di tre giorni ha fruttato la copiatura di alcuni monumenti e belle iscrizioni sconosciute, ma anche la possibilità di escursioni al Pizzo e alle rive del Golfo di Santa Eufemia, dove ci si è avvertiti di altre scritte latine inedite.
Nuova deviazione verso l’interno e presto a Seminara per accertarsi di quello che aveva causato il sisma, poi in serata a Palmi e l’indomani a Bagnara e a Scilla, tutti luoghi di poca attrattiva per quanto riguardava l’archeologia e la storia medievale. Millin ha fatto più volte il giro della rocca di Scilla e ha capito dalla natura delle cose perché gli antichi avessero un tempo creato il mito. Vi scorgevano attorno cani urlanti come nelle nuvole si vedono talvolta dei giganti. A Scilla si è fermato per un’intera giornata e ha potuto seguire la pesca al pescespada che si faceva ancora come ai tempi di Strabone. Però nessuna espressione greca da rilevare, in quanto ne aveva la lista e in essa non ne risultava alcuna.
È stato indi a Reggio, dove ha dimorato ben 11 giorni e, tra i guasti del terremoto, ha rinvenuto parecchi piccoli resti monumentali e financo il nome in greco della città impresso su un laterizio. È passato al Camp de Piale (Campo di Piale) e a San Giovane (Villa San Giovanni) da dove si sentirebbe cantare il gallo siciliano, evidentemente quello sistemato sul campanile della cattedrale di Messina. Il viaggiatore, se non ha sparato a zero, ha visto pur anche la sfilata degli inglesi e ascoltato la musica suonata dalla fanfara e anche le donne messinesi che si recavano a Messa.
Voleva procedere verso Bova, però trattandosi di una strada non facile e trovandovi scarsa attrattiva, ha deciso di ritornarsene a Palmi, non più a cavallo, ma via mare per passare tra Scilla e Cariddi e ammirarne le coste. Erano queste così vicine che le palle di cannone sparate dall’una arrivavano sull’altra. Quando si faceva fuoco da Pentimele si vedeva alzarsi in aria la sabbia che stava davanti alle case del faro. Lo stretto perciò si rivelava poco sicuro per le piccole barche, ch’erano costrette a rasentare la costa. Nonostante i manifesti pericoli e le ammonizione avute, Millin ha fatto di testa sua, ma, una volta a Palmi, il comandante gli ha detto che non avrebbe compiuto lo stesso percorso perché la sua era stata un’imprudenza bella e buona.
Da Palmi si è avviato a Gerace, ma prima ha dormito a Casal nuovo (l’odierna Cittanova). Scavalcato il passo dei mercanti, ecco Gerace, sulla punta di una roccia, dove ha notato monumenti interessanti. Indi discesa sul piano ove era l’originaria Locri e nel quale era possibile ancora intravedere l’antica cinta delle mura e il tracciato in pietre quadrate. Sul posto ha operato fruttuosi scavi e copiato un bell’elmo di bronzo con una scritta greca in caratteri arcaici e un frammento di vaso, ma anche monumenti di epoca medioevale. Proseguendo, avendo a destra il mare e a sinistra in alto su rilievi inaccessibili le città e davanti soltanto argilla sabbiosa solcata a ogni momento da torrenti di acqua malsana e fangosa, si poteva arrivare a Taranto senza incontrare città alcuna. Rientro a Gerace dopo un cammino disagevole per un suolo bruciato dal sole e con caldo da forno, ma con la sorpresa di rinvenire palazzi di buon aspetto, i cui padroni avevano però scarsi rapporti con quelli delle città vicine.
Riguardo a Gerace Millin lancia una stoccata contro Swinburne affermando di essere certo che con tali difficoltà quegli in quella città non ci sia mai stato e che nella sua fatica ha detto cose comuni che sapevano tutti. Dopo Gerace si è diretto a Roccella e sul luogo dove sarebbe esistita l’antica Caulonia, quindi a Isca e Stilo. Qui è stato interessato dalla «chiesa greca assai singolare», indubbiamente la Cattolica e dalla colonna con iscrizione greca. È stato appresso a S. Caterina Stallati (S. Caterina dello Ionio?) e poi è risalito verso Squillace, dove si è avveduto di alcuni stimolanti monumenti, tra i quali una chiesa forse abbattuta dai primi cristiani. Interessante la riflessione in merito alla costa: «il cammino di questa costa è così difficile, che bisogna farlo a piedi; i muli rischiano a ogni istante di precipitare, e i miei mulattieri espressero delle grida di rabbia per essersi impegnati: per buona sorte la scorta da cui ero accompagnato ha loro imposto il silenzio. Occorre sempre avere una scorta nelle Calabrie, se non è contro i briganti, serve almeno per essere padrone dei mulattieri, e forzare i contadini a servire da guide. Non c’è alcuna considerazione per i viaggiatori che non hanno un fucile in bandoliera, o che non sono accompagnati da uomini che ce l’hanno»[3].
A Catanzaro nessun peculiare segno di attrazione, ma pausa forzata per la quinquina (chinino) somministrata al disegnatore e al domestico che avevano la febbre. Si è tergiversato su Crotone, ma alla fine, per la ripugnanza di Catel ad andarvi, si è puntato su Taverna, però prima passaggio da Tiriolo, dove oltre alle antichità c’era da ammirare l’affascinante costume delle donne e a Genigliano (Gimigliano). Si trattava di città ch’erano state preda delle fiamme accese da bande di ribelli. A Taverna hanno attratto i visitatori soltanto i dipinti del celebre Mattia Preti, di cui hanno preso naturalmente le copie. L’erranza è seguitata per la Sila e San Giovane di Fiori (San Giovanni in Fiore), che ha offerto ben poco, quindi per Rossano ed escursione di rito all’antico monastero che va sotto il nome di Madonna del Patire, vetusta costruzione depredata e saccheggiata dalla malvagità degli uomini. Lapalissiano che abbia acquisito i disegni della chiesa, del pavimento in mosaico di tipo arabeggiante e di un grande vaso greco in marmo con iscrizione, ma pure di tant’altro.
