giovedì 11 dicembre 2025

LA BELLA STAGIONE DEI GESUITI MAMERTINI (di Bruno Demasi)


    Nell’arco di appena tre anni, da marzo 1932 a giugno 1935 furono ben quattro i giovani di Oppido Mamertina che entrarono nelle fila dei Gesuiti per rimanerci con ferrea convinzione fino alla fine dei loro giorni. Quattro grandi figure a torto quasi dimenticate di cui non solo la loro città natale, ma l’intera Calabria può darsi vanto. Furono, in stretto ordine di ammissione ufficiale nella Compagnia di Gesù, Domenico De Giorgio; Angelo Schepis; Vincenzo Pezzimenti e Rocco Carbone, il cui contributo alla Compagnia di Gesù, sicuramente vario, ma accomunato sempre da serietà e profondità di intenti, è ancora presente nel ricordo di tanti oltre che negli annali della grande congregazione religiosa.

    Prima di delineare per ciascuno i tratti essenziali delle loro singolari vicende umane e spirituali, occorre però domandarsi quali furono l’occasione e il contesto che promossero queste quattro sincere e grandi vocazioni gesuitiche in un arco di tempo molto ridotto e in un ambito sociale e culturale tanto connotato qual era quello contadino e artigiano di un paese arroccato ai piedi dell’Aspromonte nel pieno della propaganda fascista che cercava di intridere di sé persino le istituzioni religiose.

 La spiritualità della Compagnia di Gesù era conosciuta dalla chiesa e dalla popolazione oppidese perché già in due periodi (1879 – 1881 e 1884-86 ), come documenta scrupolosamente Mons.G. Pignataro (1), alla direzione del seminario di Oppido erano stati i Gesuiti. Tuttavia tali presenze, sia pure importantissime per la loro eredità spirituale, ma ormai lontane nel tempo in riferimento all’epoca di cui si sta trattando, non sono interamente sufficienti a spiegare il sorgere delle quattro vocazioni gesuitiche. Occorre perciò andare oltre e osservare più da vicino, proprio agli albori degli anni Trenta, la statura spirituale e umana davvero gigantesca di Mons. Giovambattista Peruzzo, il vescovo di origine piemontese, appartente alla Congregazione dei Padri Passionisti, mandato a Oppido, di cui Andrea Camilleri, menzionando anche la diocesi di Oppido, ha tracciato un profilo biografico magnifico nel romanzo “Le pecore e il pastore” e di cui anche questo blog nel suo piccolo ha fatto memoria nell’articolo apribile cliccando sul seguente link:"  IL PASTORE DELLE PECORE D’ASPROMONTE - Monsignor Giovanni Battista Peruzzo, protagonista del libro di Andrea Camilleri ”Le pecore e il pastore”, vescovo indimenticato di Oppido Mamertina ".
 
   Nominato vescovo di Oppido Mamertina il 19 ottobre 1928, Mons. Peruzzo entrò in diocesi nel febbraio 1929, anno dei cd “Patti Lateranensi”, ma è proprio questo inizio del suo episcopato ad Oppido che incrocia un periodo di crescente permeazione del fascismo nella vita locale, con le sue istituzioni civili, la società, le associazioni e — in qualche misura — la Chiesa. Era stato vescovo ausiliare a Mantova dal 1924 e si era distinto per il suo zelo missionario, ma nel 1927, durante le celebrazioni per le feste centenarie di San Luigi Gonzaga aveva promosso eventi con forte partecipazione giovanile tramite l’ Azione Cattolica, e queste iniziative suscitarono intimidazioni gravi da parte di fascisti locali. Peruzzo intervenne in prima persona: denunciò gli episodi sia a livello ecclesiastico — portando i fatti a conoscenza del suo ordine e della Santa Sede — sia “politicamente”: si rivolse fino al vertice del regime, cioè direttamente a Benito Mussolini. Come osserva S.Rullo: “Insoddisfazioni,gelosie e rancori di partito fecero pressioni su Roma e il vescovo Peruzzo venne trasferito nella sperduta diocesi di Oppido tra i monti della Calabria”( 2) nella quale addirittura l’ultimo vescovo nominato, non aveva mai fatto il proprio ingresso.

   A Oppido nel brevissimo periodo del suo episcopato Peruzzo si distinse per la sua operosità e la sua intransigenza curando non solo la ricostruzione delle chiese, perseguendo serie ed efficaci forme di evangelizzazione e persino l’organizzazione di un congrersso mariano che ebbe risonanza in tutto il Meridione, ma effettuando anche onerose visite agli istituti religiosi e alle scuole secondarie tenute da religiosi e soprattutto incoraggiando con lungimiranza in ogni modo possibile l’incremento delle associazioni laicali. Chiamò subito a Oppido, quale rettore del seminario e col compito di riordinare e promuovere l’Azione Cattolica sul territorio, il sacerdote lodigiano Samuele Pandini che, secondo il Liberti ( 3), “lasciò di sé gran ricordo”, tanto che gli si dovette  la ripresa completa dell’Azione Cattolica e il miglioramento del seminario. Lo stesso riferisce che durante una visita il futuro cardinale Schuster avrebbe elogiato il seminario definendolo «il migliore del sud per condotta e studi, pietà e disciplina» e cita inoltre la comunicazione di Peruzzo al Capitolo il 26 settembre 1930 che qualificava Pandini «insigne per pietà, dottrina e zelo».

    Il nome di Samuele Pandini, che insieme al vescovo Peruzzo e all’abate Bruno Palaja, parroco della Chiesa di San Nicola (Abbazia), insigne latinista e docente del seminario, fervente zelatore della spiritualità passionista (ne è esempio lo splendido affresco della parete di destra della medesima chiesa, realizzato da Domenico Mazzullo su commissione dello stesso abate, in cui sono idealizzati i santi capostipiti della Congregazione), è sicuramente la chiave di volta di tutte le vocazioni gesuitiche nate a Oppido, ricorre esplicitamente infatti anche nel necrologio(4) di uno dei quattro gesuiti oppidesi, Domenico De Giorgio, dove il santo sacerdote lodigiano viene definito “ della gioventù d’Oppido zelante formatore e suscitatore di ideali e d’entusiasmo duraturi…” 
 
  L’azione spirituale sinergica ed entusiasta di Peruzzo e Pandini, la loro incessante e intelligente cooptazione delle leve giovanili oppidesi non potevano non suscitare invidie e gelosie nelle organizzazioni fasciste locali che si vedevano depauperate della materia prima necessaria alle loro adunate e alle loro ricorrenti parate giovanili. E quando Domenico De Giorgio, uno dei più convinti e sanguigni giovani oppidesi del gruppo di Pandini, poi divenuto gesuita,“ nel 1931, durante la crisi tra Fascismo e Azione Cattolica, in riunioni segrete per le campagne fuori paese teneva le file della Associazione, fu ‘ fermato’ e in caserma diffidato dal proseguire, pena il confino”( 5), il rancore contro il rettore del seminario e contro il vescovo esplose in modo aperto, tanto che il 26 novembre dello stesso anno Peruzzo ricevette pressante invito a firmare il proprio trasferimento nella diocesi di Agrigento.

    Il fecondo  seme vocazionale tuttavia era stato gettato e i frutti di vocazione furono tantissimi. Tra i tanti quelli dei quattro giovani oppidesi, tutti “allievi” di Pandini e Peruzzo esterni al seminario , tutti residenti a Oppido nelle strade adiacenti alla chiesa di San Nicola-Abbazia, di cui era parroco il Palaja, i quali, sia pure a qualche mese di distanza l’uno dall’altro, a parte De Giorgio e Schepis che vi furono ammessi contemporaneamente, abbracciarono con convinzione ferrea la missione gesuitica, portandola con santità fino al loro ultimo respiro. 

DOMENICO DE GIORGIO 
 
    Nacque il 12 maggio 1908 a Oppido Mamertina nella casetta posta sull’attuale Via Marconi, a pochi metri di distanza dall’incrocio con la Via Annunziata, a 24 anni entrò nella Compagnia di Gesù: era il 19 marzo 1932. Pronunciò gli ultimi voti come coadiutore temporale il 2 febbraio 1943, servendo fedelissimamente la Compagnia per ben 36 anni.

    Come apprendiamo da sicura fonte gesuitica, (6) era giunto al Noviziato nel 1931, quando era nel pieno vigore della giovinezza e subito dopo l’amaro episodio di difesa a oltranza dell’ Azione cattolica che gli era costato proprio nello stesso anno la diffida da parte delle forze dell’ordine . Chi lo conobbe prima che entrasse in Compagnia, ricorda con ammirazione la sua eccezionale forza fisica ( resta ancora  famoso nel ricordo tramandato di alcuni l’episodio che lo vide processionalmente portatore sulle spalle della pesantissima croce di ferro da allocare sulla cuspide del timpano della cattedrale in costruzione), ma anche la generosità e la forza non comune del suo carattere. Lo chiamavano tutti Giorgione con l’epiteto affettuoso e ammirativo che gli aveva dato proprio Mons. Samuele Pandini.

    Crebbe in una famiglia di grandi e onestissimi lavoratori sotto la cura di una madre davvero santa sia nel lavoro sia nell’apostolato di servizio verso tutti coloro con i quali incrociava le proprie giornate. Come osserva l’estensore del suo necrologio: ”Durante il Noviziato temprò il suo carattere, forte e non privo di angolosità, ad un amoroso servizio del Signore senza riserve, domando la sua esuberanza e vivacità.Il mese di Esercizi Spirituali, in particolare, gli dischiuse gli orizzonti interiori propri di un figlio della Compagnia”.

    Se la sua chiamata gesuitica fu forte, altrettanto forte si rivelò la sua vocazione missionaria alla quale si preparò con grande cura, cercando di apprendere quante più cose potesse per aiutar meglio la Compagnia nel servizio di Dio e rendendosi atto a molti lavori e servizi: conseguì anche il diploma di infermiere, compito che poi più a lungo avrebbe esercitato sia nella Provincia Gesuitica, sia nella terra di missione.

    Aveva acuto spirito di osservazione e anche spiccate doti di narratore, tanto che , quando nel Novembre 1934 partì per la Missione di Galle in Ceylon, sia durante il viaggio sia dalla Missione inviava dettagliate cronache delle sue esperienze missionarie, che “erano attese e lette con grande gusto e profitto” pur avendo egli un’ istruzione appena elementare. Una volta giunto a Ceylon si dedicò al lavoro senza risparmiarsi. Il Seminario di Kandy fu il suo prevalente spazio di attività . Il suo zelo trovava libero sfogo sia negli uffici che gli erano affidati sia nel tratto con gli altri, esterni e seminaristi. Come la madre, trovava spesso la parola opportuna per tutti, specialmente per i più deboli, che spesso lasciava profondamente edificati. 

   Nel suo slancio abusò spesso delle sue forze. Uno sforzo eccessivo gli provocò l’abbassamento di un rene, dando così inizio al suo calvario. Dopo la guerra dovette tornare in Italia per curarsi e fu sottoposto ad intervento chirurgico. Appena rimesso, ottenne di ritornare in Ceylon e vi riprese con ardore il lavoro. Ma dopo qualche anno dovette, e questa volta definitivamente, lasciare la terra dei suoi sogni giovanili di piena donazione al Signore. Fu sottoposto a nuovo intervento chirurgico. Riprese il suo lavoro, ma il vigore di prima non tornò più. Soggiornò a Vico Equense , all’Aquila, a Napoli. Dicono i suoi confratelli: “ Semplice e profonda la sua vita spirituale, nutrita di continua preghiera. L’attaccamento all’osservanza Regolare era spinta fino allo scrupolo, e, talora, ad una certa intolleranza, come può succedere a temperamenti forti. Costante il suo zelo che non gli lasciava sfuggire l’occasione di far del bene fino ad ottenere autentiche conversioni”.

    Il declino fu inesorabile e, specialmente dopo l’ultimo intervento chirurgico, subito nel 67 — questa volta per tumore —, non si riebbe mai pienamente e forse capì che la fine non sarebbe stata troppo lontana. Ne fu certo dall’agosto del 1968 dopo nuovi ricoveri in clinica e nuovi accertamenti. Finché ha potuto si è reso utile; poi non si è alzato più da letto. Qualche laico che fu a trovarlo ebbe a dire: «E’ ammirvole: è lui che conforta noi». Era consapevole che la preghiera rendesse serena e gioiosa l’attesa nelle grandi sofferenze. Dette così l’ultima prova della fortezza del suo carattere e della profondità della sua fede e della sua donazione al Signore. E’ deceduto al Gesù Nuovo di Napoli il 25 novembre 1968.

ANGELO SCHEPIS

     Nato il il 12 dicembre 1912 ad Oppido Mamertina nella casa ubicata sull’attuale “corso G.Mittica”, a breve distanza dall’Orfanotrofio Germanò, entrò con i primi voti nella Compagnia di Gesù il 19 marzo 1932 insieme al compaesano e vicino di quartiere Domenico De Giorgio, pronunciò gli Ultimi Voti come Coadiutore temporale il 2 febbraio 1943, è deceduto a Napoli il 9 aprile 1985 nel Gesù Nuovo. Varie delle notizie che abbiamo si riferiscono al suo commosso necrologio, pronunciato dal confratello Mario Casolaro (7) .

“ Erano passati pochi mesi dal mio ingresso nel noviziato della Compagnia di Gesù a Vico Equense,- scrive Casolaro - e le mie scarpe leggere estive si erano già in parte consumate. Mi recai nelle «officine» così si chiamava quella parte della casa dove c’erano i laboratori: falegnameria, sartoria, calzoleria, ecc., e per la prima volta incontrai il Fratello Schepis: poche parole, pochi sguardi, molta cordialità. Dopo alcuni giorni avevo il mio paio di scarpe. Ce le ho ancora davanti agli occhi, un po’ insolite per me abituato in città: erano scarpe robuste di grasso, vero cuoio ben spesso, molto curate in alcuni dettagli: ben tirate le ribattiture… poco rifinite in quanto ad eleganza formale, ma ben adatte e ottime …Ecco, se ne è costituito allora una cosa seria e solida. «Guardate, quei piedi si scarpano bene». E il F. Schepis ci diceva, sempre con il suo modo spiccio e concreto, che bisognava averli sempre bene in forma, in modo da sopportare ogni tipo di fatica… E’ insolito che un Fratello nelle Scuole di noviziato parli così: ma così era lo stile di un Fratello nelle Scuole di noviziato che ci conduceva con fermezza, ma con molta fraternità.

    Decisamente Fratello Angelo Schepis, pur nella semplicità del suo servizio, metteva in luce grandi doti missionarie e di evangelizzatore favorendo , aiutando e incoraggiando in ogni modo possibille i confratelli che partivano per la Missione e si è fatto amare molto nella comunità del Gesù Nuovo. Si notava anzitutto la sua puntualità nel rendimento dei servizi domestici: spiccio nei modi, deciso nelle espressioni: ma in fondo era semplice e si spiega così anche la sua facilità di entrare in contatto con la gente più povera e bisognosa: aveva anche fatto parte di un Gruppo Vincenziano fino al 1972, e non mancava mai agli incontri di carità al Gesù Nuovo dove erano frequenti proprio le persone bisognose. Nesso stesso anno fu trasferito a Vico Equense dentro la casa che lo aveva visto novizio: vi trovò un ambiente più ristretto, e ciò gli servì a rivivere quell’ambiente noviziato dove aveva iniziato la sua vita di Gesuita: ritrovò subito nel lavoro e negli incontri quella capacità di umanità e soprattutto quella sensibilità aperta verso la sofferenza altrui.

    Il taglio della sua vita era ormai segnato; e per questo fu molto contento quando nel 1978 i Superiori lo chiamarono a Napoli e lo inserirono nella Commissione Corrispondenti del Gesù Nuovo. Lo fece con serietà e con dedizione, senza chiedere nulla. Negli ultimi anni di vita gli si offrì la possibilità di un impegno diretto con le anime, come lettore qualificato della parola di Dio durante la liturgia eucaristica, ma soprattutto nel lavoro di accoglienza in sacrestia. Lì, infatti, coloro che andavano per fissare l'orario di una Messa o per chiedere preghiere, finivano quasi sempre spontaneamente per parlare dei problemi che li angosciavano come uomini e come credenti. Questo dialogo del F. Schepis con i fedeli si faceva profondamente concreto: partecipando alle ansie e unendosi nel ringraziamento per qualche grazia che il fedele dichiarava ricevuta, esortava a non limitarsi ad una eventuale offerta per il culto ma a partecipare più intimamente alla Grazia del Signore con la confessione e la comunione. Benchè, come abbiamo detto, il F. Schepis fosse uomo di poche parole, in queste occasioni sapeva superare se stesso, edificando per la sua semplicità e serenità.

    Un male, covato dentro forse da qualche tempo, l'ha consumato in pochi mesi; ha terminato la sua vita terrena il 9 aprile 1985 all'età di 73 anni, 53 di vita religiosa. Ha sofferto molto negli ultimi giorni, ma non era facile ascoltare dalle sue labbra un lamento che non fosse nello stesso tempo riferito alla Passione del Signore e alla salvezza delle anime. Il venerdì santo, ormai allo stremo delle forze, chiese a un Padre, che era andato a visitarlo, che giorno fosse. «È il giorno della Passione del Signore» gli fu detto; e alla richiesta se avesse bisogno di qualche cosa, rispose con quella poca, pochissima forza di voce che aveva ancora, ma distintamente: «la vita eterna».

“ A questo punto
– conclude Mario Casolaro - , se dovessi dipingere il Paradiso per il F. Schepis, rifarei la raffigurazione che ne ha dato il B. Angelico: un giardino fiorito, verde con tan- te gemme di colore, e un coro d'angeli sostenuto dal gentile e soave suono del le mandole.”

VINCENZO PEZZIMENTI

    Nacque il 6 novembre 1918 ad Oppido Mamertina nella casa ubicata sulla via Annunziata, a pochissimi metri di distanza dalla Chiesa di San Nicola Abbazia, dove il fratello Antonio, grandissimo ebanista e scultore, presto emigrato nell’America Latina, realizzò e scolpì lo splendido pergamo ligneo adornato di prodigiosi bassorilievi raffiguranti la vita di San Nicola di Mira, che è considerato e censito come vero e proprio capolavoro d’arte sacra. Entrò giovanissimo nella Compagnia di Gesù il 1 ottobre 1934, fu ordinato sacerdote dal vescovo Mons. Farina il 4 luglio 1948, pronunciò gli Ultimi Voti il 2 febbraio 1952 ed è deceduto a Napoli, anche lui al Gesù Nuovo, il 24 agosto 2019. Quando è morto Fr.. Pezzimenti, purtroppo, la rivista della Provincia non era più attiva quindi il suo necrologio non è stato pubblicato, ma è possibile ricostruirne la parabola umana e religiosa mediante qualche scheda e molteplici riferimenti reperibili negli archivi dei Gesuiti che testimoniano la sua prodigiosa intelligenza e l’altrettanto fervida spiritualità unita ad una formazione culturale fuori dal comune.

    La sua missione all’interno della Compagnia di Gesù si esplicò in modo multiforme e con delicatissimi incarichi di responsabilità che costellarono tutta la sua lunghissima vita: subito dopo il presbiterato ,nel 1949. pronunciò i terzi voti nel collegio gesuitico spagnolo di Gandia dove aveva assunto un incarico di coadiutore. Lo ritroviamo quindi nei primi anni Cinquanta docente di Italiano e prefetto degli studenti nel prestigioso convitto “Conocchia-Pontano” di Napoli. Dal 1953 al 1962 è rettore di grande fede e di grande equilibrio del Noviziato di Vico Equense e subito dopo, fino al 1967, rettore dell’Istituto “Pontano” di Napoli. Seguono due delicatissimi anni di impegno, fino al 1969, quale guida degli esercizi spirituali e presidente della “FIDAE” a Villa S.Ignazio a Napoli: periodo, questo, durante il quale ricoprì anche in maniera ineccepibilel’incarico di consultore, confessore e responsabile dell’amministrazione economica della stessa struttura. Gli anni successivi lo vedono Superiore della residenzagesuitica di Pescara e, a partire dal 1973, anche parroco della medesima, almeno fino al 1979, anno nel quale torna di nuovo a Vico Equense, restandolci fino al 1985 come superiore della casa dei novizi e contemporaneamente come padre spirituale del Seminario Diocesano. Gli anni che vanno dal 1985 al 1992 sono densi di impegni spirituali e pastorali, ma anche culturali e amministrativi al servizio ora di una ora dell’altra tra le più grandi e onerose strutture formative gesuitiche di Napoli. 

  Nel 1992 si apre per Fr. Pezzimenti un periodo intenso di lavoro quale superiore della Comunità gesuitica “Francesco Saverio” di Catania che si protrae fino al 1996, anno nel quale venne per l’ultima volta a Oppido Mamertina, suo paese natale, dove fu accolto con grande premura dal vescovo Domenico Crusco e dalla comunità scolastica che all’epoca lo srivente dirigeva, nella quale rimase memorabile la celebrazione di un “Precetto Pasquale” officiata dallo stesso don Vincenzo , concelebrata dal vescovo e arricchita da un’omelia seguita con estrema attenzione anche dagli allievi più piccoli, che si potrebbe benissimo scolpire negli annali delle cose migliori della scuola e della fede cattolica senza fronzoli e senza ridondanze.

    Il decennio successivo ( fino al 2006) lo vede ricoprire un ruolo delicatissimo e fiduciario affidatogli direttamente dalla Santa Sede, quale “delegato” presso la Congregazione Religiosa nascente “Missionari della Fede”. La fonte istituzionale (8) della stessa congregazione riferisce che P. Pezzimenti fu chiamato espressamente dalla Sede Apostolica a guidare e accompagnare il cammino dei Missionari della Fede durante un periodo di "discernimento e maturazione della comunità missionaria stessa” . Ciò indica chiaramente quanta fiducia riscuotesse la sua grande preparazione spirituale e umana presso il vaticano e quale delicatezza morale egli fosse in grado di esprimere nell’accompagnamento di una congregazione religiosa nascente. In un testo di ringraziamento interno alla stessa realtà (9) si può leggere : “Rivolgo il mio ringraziamento a P. Vincenzo Pezzimenti S.J., che in qualità di Commissario Pontificio ci ha condotti a questo traguardo con la sua ricchezza di scienza, di fortezza, di prudenza e di profonda spiritualità…” Ciò suggerisce che il suo mandato non fu solo formale, ma vissuto come un accompagnamento pastorale e organizzativo, contribuendo alla crescita istituzionale e spirituale dei Missionari della Fede, anche nei campi missionari e nelle esigenze di evangelizzazione in varie regioni.

    Gli ultimi tredici anni della sua poderosa e prodigiosa missione lo ntrovano intento a portare ancora avanti molteplici e delicatissimi impegni di consultore, guida degli esercizi spirituali, assistente CVX, assistente spirituale dell’Associazione Medici Cattolici a Napoli nelle grandi e prestigiose case di Villa S.Ignazio, al Collegio “Pantano” e nella comunità del Gesù nuovo, dove si è spento lucidissimo a 101 anni di età, tra il compianto unanime, nel pomeriggio del 24 agosto del 2019. I funerali, molto partecipati, sono stati celebrati due giorni dopo nella Chiesa del Gesù nuovo, proprio dove riposa il corpo di una delle icone più grandi dei medici cattolici, San Giuseppe Moscati.

ROCCO CARBONE

 
    Come risulta anche dal necrologio dei Gesuiti stilato da Fr. Filippo Iappelli, (10), Fr. Rocco Carbone nacque il 16 agosto 1917 ad Oppido Mamertina nella casa ubicata sull’attuale corso “G. Mittica” a pochi passi anch’essa dalla chiesa San Nicola-Abbazia. Entrò nella Compagnia di Gesù l'11 giugno 1935, pronunciò gli ultimi voti come coadiutore temporale il 2 febbraio 1948 ed è morto il 24 maggio 2004 nell’infermeria del Gesù Nuovo di Napoli.

    Si era formato come valente artigiano nella sartoria di Nicola Natale in Oppido Mamertina, frequentando con assiduità nello stesso periodo non solo le attività promosse perr i giovani oppidesi nel seminario vescovile, ma anche quelle dell’Azione Cattolica che lo stesso Mons. Pandini, rettore del seminario, organizzava per numerosi giovani esterni al seminario negli spazi nella chiesetta del Calvario, che ben presto divennero troppo angusti, oltre che fatiscenti, per il numero crescente dei partecipanti.

    Entrò nella Compagnia di Gesù l’11 giugno 1935 ed assunse le mansioni di sarto, arte nella quale si era progressivamente perfezionato nelle varie case della Provincia Napoletana, prestando anche la sua opera in altre mansioni in aiuto dei confratelli e nel servizio dei fedeli che frequentavano le chiese curate dalla Congregazione. Così al Convitto Pontano alla Conocchia (1940) con funzioni varie di responsabilità; al Gesù Nuovo, aiutando anche in chiesa gli infermi e prestandosi nelle opere assistenziali a favore dei bambini poveri nel dopoguerra napoletano (1945); all’Istituto Di Cagno Abbrescia di Bari (1949); a Villa San Luigi (Napoli, 1952); a Vico Equense (Scuola Apostolica, 1953; Noviziato, 1955). Dovunque si trovasse, superando una certa ombrosità del proprio carattere, esprimeva il meglio di sé specialmente nel servizio ai più deboli.

    Dal 1956 al 1983, per ben 27 anni, gli fu affidato l'incarico più gratificante come gesuita a Roma – quello di responsabile della sartoria nella Curia Generalizia a Borgo Santo Spirito , a ridosso delle mura del Vaticano, con il servizio quotidiano al Padre Generale, ai suoi Assistenti e ai loro collaboratori provenienti di ogni Provincia del Mondo – e come cattolico – per la vicinanza alla Basilica di San Pietro, con la facilità di partecipare attivamente e spesso anche di collaborare alle cerimonie papali e di introdurre i conoscenti nei “segreti del Vaticano”. Di questo lungo periodo della sua permanenza a Roma restano moltissime testimonianze della sua generosa accoglienza prestata, tra l’altro, ai tanti compaesani e corregionali che dalla Calabria per incombenze varie, si recavano nella Capitale. Restano anche i ricordi di molte persone, specialmente religiosi e sacerdoti, che lo erbbero guida pratica sicura nell’introduzione agli uffici della Santa Sede.

    Nel 1984 Fr. Carbone venne trasferito alla residenza del Gesù Nuovo a Napoli , col medesimo incarico di responsabilità e, dopo la morte del concittadino F. Schepis, di Vice Sacrista, con le devote mansioni di assi- stere i sacerdoti celebranti nelle Letture liturgiche e di aiutarli nella distribuzio-ne della Comunione. Un incarico nuovo per lui, abbracciato con grande devozione: il suo carattere generoso ed empatico aveva modo di esaprimersi totalmente nell’accoglienza delle persone che frequentavano quella grande chiesa e nell’aiuto morale e spirituale che spesso esse cercavano. Possedeva infatti un carattere esuberante, anche se a tratti impulsivo, ma aperto e portato ad aiutare tutti senza riseve.

    Quando superò la boa degli 85 anni si sono moltiplicarono gli acciacchi dell'età, aggravati dalla lussazione di una spalla in seguito a una caduta; ma sempre, quando si sentiva più in forze e la vista indebolita glielo permetteva, si trascinava in sartoria per collaborare con grande esperienza all’allestimento degli abiti dei confratelli. Più penosi a causa dei numerosi acciacchi gli ultimi mesi di vita, serena la fine.

   Su Fr. Rocco Carbone recentemente Rocco Liberti ha pubblicato “ Il gesuita Rocco Carbone da Oppido”(11), un contributo biografico – storico contenente notizie sulla sua nascita e sulla sua formazione legata al territorio oppidese, sul suo ingresso nella Compagnia di Gesù , sulle tappe della sua esperienza gesuitica e all’attività svolta a Napoli e a Roma con particolare attenzione al suo impegno religioso, culturale e sociale.

Bruno Demasi 
_________________

1) G.Pignataro I Gesuiti a Oppido,Historica,1968,n.1 
2) S.Rullo, Cronografia vescovile, 2002, pag.205, 
3) R. Liberti, Momenti e figure nella storia della vecchia e nuova Oppido, Quaderni Mamertini n. 29, Bovalino (Diaco), luglio 2002 (riveduto e corretto giugno 2016), p. 36. 
4) Notizie dei Gesuiti d’Italia, 1968, n.3,pp 46-47. 
5) Ibidem 
6)Ibidem 
7) Notizie dei gesuiti d'Itali
a, 1986, n. 1, pp. 27 – 28 
8)Bollettino deli Missionari della fede, 1996/97 
9)Ibidem 
10) Gesuiti in Italia
, 2004, n. 6, pp. 391 - 392. 
11) Liberti, Rocco. Il gesuita Rocco Carbone da Oppido. 25 giugno 2022. Accademia Edu.











venerdì 28 novembre 2025

QUEL LEGAME PERDUTO TRA I CERTOSINI DI SERRA E CASTELLACE DI OPPIDO (di Bruno Demasi )

 
    Fonti classiche e testi storiografici moderni ("Chronicon Serrae San Bruno" ,"Storia della Certosa di Serra San Bruno" di Giuseppe Giordano: "I Cistercensi e la Certosa" di Giovanni Morelli) confermano che, dopo la morte di san Bruno (1193), la comunità di Serra si divise: una parte abbandonò la regola certosina per passare ai cistercensi di Fossanova e condurre vita più cenobitica, mentre l’altra si ritirò «alle falde dell’Aspromonte, nella zona di Castellace (oggi frazione di Oppido Mamertina)”. Ma cos’era successo esattamente?

    E’ documentato che alla fine del XII secolo la Certosa di Serra attraversò una fase di tensione interna. Da un lato permaneva la rigida impostazione eremitica di san Bruno; dall’altro cresceva l’attrazione per modelli più comunitari che stava conquistando parte del monachesimo europeo, soprattutto grazie all’impatto dei cistercensi. Le fonti (specie quelle storiografiche moderne sopra citate, che riepilogano materiale manoscritto perduto durante i terremoti calabresi) parlano di un gruppo di monaci disaffiliati, probabilmente non numeroso, che abbandonò la Certosa tra il 1180 e il 1200. Cercavano una forma di vita meno eremitica, più cenobitica, pur mantenendo una dimensione ascetica rigorosa. 

     Viene spontaneo a tal punto domandarsi quale via abbia seguito verso Sud il gruppo dei monaci dissidenti. E’ plausibile che nel percorso di trasferimento da Serra San Bruno, seguendo gli antichi tratturi di cresta che collegavano le Serre all’Aspromonte, il piccolo gruppo abbia percorso un itinerario naturale: Brognaturo → Mongiana/Bivongi → Cittanova arcaica → alture di Castellace.  Rimarrebbe tuttavia un nodo da sciogliere: si trattava del Castellace attuale frazione di Oppido Mamertina o del Castellace frazione, o meglio contrada rurale di Gerace? In effetti la scelta  dei monaci provenienti dalla  Certosa di Serra San Bruno di stabilirsi a Castellace di Oppido Mamertina piuttosto che a Castellace di Gerace potrebbe sembrare a prima vista meno ovvia, visto che Gerace era una località geopgraficamente non troppo distante da Serra San Bruno, se non ci fossero state alcune motivazioni fondamentali che non possiamo trascurare e che potrebbero spiegare ampiamente la loro  scelta:

  • Geografia e Percorsi: la Certosa di Serra San Bruno si trova più a nord rispetto a Gerace, in una zona montuosa e isolata, che era tipica per le comunità monastiche che cercavano luoghi lontani da centri abitati per vivere in clausura. Oppidum, e di conseguenza Castellace ( all’epoca indicato come “Boutzanon” nella toponomastica bizantina), si trova più a ovest rispetto a Gerace, ma ancora abbastanza isolato e vicino alle montagne ed offriva le caratteristiche di tranquillità che i monaci cercavano;

  •  Ragioni di opportunità politica e religiosa: Andrè Guillou, uno dei più grandi studiosi dell’età bizantina in Calabria, nel suo studio sulla diocesi di Oppidum , che documenta come indiscutibilmente esistente nell’XI secolo, “La theotokos de Hagia Hagathé” si sofferma ( pp. 24-25) con dovizia di particolari ad illustrare il territorio dell’attuale Castellace, frazione di Oppido Mamertina. Il nome bizantino dell’insediamento civile ivi esistente , come si diceva, era “Boutzanon”, un “chorion” ben abitato posto al centro di un importantissimo “droungos” difeso da un “pyrgos”( torre elevata di difesa). Si trattava di una circoscrizione rurale e fiscale di particolare importanza, formata da un centro abitato circondato da un’ampia fascia di colture , di terreni privati e di chiese rurali. In definitiva un borgo particolarmente importante e ricco, degno avamposto dell’autorità vescovile che aveva sede a Oppidum (Hagia Agathé, dal nome della sua theotokos) e giurisdizione religiosa e amministrativa sull’intera “tourma” delle Saline, corrispondente lato modo con tutto il territorio disegnato dall’amplissimo bacino del Metauro-Marro (Petrace). Che i monaci fuorusciti da Serra abbiano scelto proprio tale territorio ben difeso e nello stesso tempo particolarmente liberale e munifico nei confronti delle comunità monastiche è più che plausibile;
  •  Tradizione e Storia: Sebbene Gerace fosse un centro importante nel Medioevo, con il suo castello e la sua cattedrale, potrebbe essere che gli stessi monaci, o comunque la Certosa di Serra San Bruno, avessero scelto di espandersi in territori che ancora non erano troppo saturi di insediamenti religiosi. Inoltre, Serra San Bruno aveva una tradizione di insediamenti monastici isolati, come quello che si sviluppò a Boutzanon, l’attuale Castellace che potrebbe essere stato scelto proprio per il suo decentramento, che rappresentava l'ideale monastico della vicinanza, ma anche della separazione dal mondo esterno, senza la pressione di dover interagire con la vita di una città come Gerace.

    In definitiva, anche se Gerace sarebbe stata per i monaci in fuga una scelta "naturale" sotto alcuni aspetti, Boutzanon, cioè l’attuale Castellace di Oppido Mamertina offriva probabilmente un insieme di condizioni che favorivano prima di tutto la sicurezza, ma anche la tranquillità e l'isolamento monastico, caratteristiche molto importanti per la loro vita religiosa, senza contare che la vita cenobitico–ascetica a Castellace (Boutzanon) sicuramente avrebbe adottato una forma ibrida caratterizzata da preghiera comune (cenobitica); forte austerità personale (eremitica); lavoro agricolo e boschivo;integrazione minima con i villaggi dell’entroterra di Oppidum. Questa forma ricorda molto numerosissimi altri piccoli insediamenti monastici nel territorio di Oppidum anche non ufficialmente riconosciuti da grandi ordini.

    Probabilmente il nucleo monastico, econdo alcune ipotesi, si sarebbe estinto tra XIII e XIV secolo, forse assorbito nella rete dei piccoli cenobi locali oppure scomparso dopo terremoti e carestie. 
 
  Quali potrebbero essere le tracce concrete circa l’insediamento cenobitico proveniente da Serra sulle alture dell’odierna Castellace di Oppido Mamertina? La storiografia locale fornisce forti indizi topografici e tradizioni orali su antichi insediamenti religiosi nella zona di Boutzanon , spesso situati in posizioni elevate e appartate — tipiche di gruppi monastici provenienti da contesti eremitico-cenobitici. Non esistono però documenti diretti (carte, bolle) che menzionino esplicitamente gli ex certosini in questo territorio nel XII secolo: gli storici lavorano per concordanze tra: dinamiche interne alla Certosa, abbandono di monaci in quegli anni, presenza di strutture religiose arcaiche a Boutzanon. Peraltro, Poiché non esiste — al momento — una descrizione documentata di un “cenobio certosino a Castellace” (o almeno non pubblicamente accertata), è possibile solo un’ipotesi ragionata, basata su: caratteristiche del territorio, logica di insediamento monastico in ambiente montano / collinare, analogie con piccoli centri religiosi e “fortificati” montani calabresi.

    Gli unici riscontri di un certo rilievo sono costituiti dunque dai toponimi che ancora oggi caratterizzano il territorio dell’antica Boutzanon, come emergonmo dagli studi archeologici e storici sul luogo: alcuni potrebbero essere coincidenti con aree di antico insediamento, sebbene con datazioni molto precedenti rispetto al XII secolo. Possono tuttavia offrire utili tracce di continuità o riuso:

· TORRE CILLEA: indica un’altura nei pressi di Castellace e dà il nome alla contrada nella quale è documentato un sito archeologico dell’età classico-ellenistica che presenta resti murari di insediamento italico ellenizzato. Il sito e il nome indicano che l’altura era già stata abitata ed era ed è significativa come “luogo d’altura isolato” poten zialmente adatto ( in epoche successive) a rifugi monastici o comunità eremitico-cenobitiche; 

· TORRE INFERRATA( o “Torre ferrata”, “Testaferrata”):luogo citato come parte del territorio dell’attuale Castellace, con ritrovamento dell’iscrizione votiva ad Eracle Reggino. Le aree «Torre …» segnalano alture fortificate o comunque punti strategici; un antico uso religioso o funerario aggiunge un valore simbolico / sacro al territorio — che un gruppo monastico avrebbe potuto rieleggere a propria sede;

· CASTELLACE (moderna frazione oppidese): Località attuale; altitudine circa 214 m s.l.m.; popolazione modestissima; posizione montano-collinare verso l’interno aspromontano. Pur con caratteristiche attuali, rappresenta un centro di via d’accesso tra costa e monti — plausibile come “porta di montagna” per monaci in fuga o in cerca di isolamento;

· CONTRADE MINORI( alture circostanti che , a parte l’attuale Lubrichi – “Roubiklon” bizantino -, non sempre toponimicamente risultano chiare: Il territorio di Oppido / Castellace appare punteggiato da località con toponimi dispersivi legati ad alture, torri, campagne, grotte. Queste micro-toponomastische possono nascondere tracce — mura, anfratti, grotte — che in epoche medioevali tardive erano ideali per insediamenti monastici “silenziosi”.

    Osservazioni sul toponimo “Torre”: la ricorrenza di denominazioni come “Torre Cillea”, “Torre Inferrata / Ferrata / Testaferrata” conferma che in epoca bizantina tali alture ospitavano un sistema difensivo particolarmente importante (“pyrgos”) oltre che abitativo e cultuale. In molti casi, questi nomi sono sopravvissuti come tronconi toponomastici, anche se l’edificio o gli edifici originari da cui mutuavano il nome non esistono più.

Buno Demasi

sabato 22 novembre 2025

LA MISTICA CALABRESE DELLA PORTA ACCANTO: GIUSEPPINA BONAVITA ( di Bruno Demasi )


    C’è una linea netta e decisa che collega Buonvicino, l’antica Βομβακίω bizantina in provincia di Cosenza, a Terranova Sappo Minulio, l’altrettanto antica città della Piana di Gioia Tauro, ed è la parabola mistica ed esistenziale di Giuseppina Bonavita, scomparsa il 29 settembre del 2018, ma già acclamata da varie parti come la mistica calabrese contemporanea  della semplicità e della quotidianità. Una linea che attraversa simbolicamente tutta la Regione ed impregna di sé ancora una volta le menti di coloro che credono fermamente nella peculiarità di una terra teatro di mille soprusi e di mille povertà, ma al contempo fecondata da esempi di santità davvero imprevedibili..

    Padre Rocco Spagnolo, attuale superiore generale dei Missionari dell’Evangelizzazione, che proprio a Terranova ha trasferito ormai da tempo la casa generalizia di questa benemerita congregazione fondata da un altro calabrese, padre Vincenzo Idà, di cui è in corso il processo di beatificazione, è stato per oltre trent’anni infatti  il direttore spirituale di questa donna la cui parabola umana e spirituale è ancora in gran parte da conoscere. A lei, alla sua singolare vicenda egli dedica oggi un secondo prezioso studio “Giuseppina – Con la croce piantata nel cuore, uscito in libreria in queste settimane per i tipi delle Edizioni Leggimi.Ed è uno studio tanto più apprezzabile quanto più  si presenta agli occhi del lettore attento, sintetico e illuminante non solo per portare alla luce nuove tessere dell’esistenza singolare di Giuseppina, ma anche per manifestare  attraverso questa narrazione  gli aneliti  e i limiti, spesso pesanti  e fuorvianti, della religiosità calabrese. 

  Sotto questo aspetto il nuovo e avvincente libro che narra la storia spirituale fuori dal comune  di una donna, che è stata anche moglie e madre ed educatrice, diventa narrazione tra le righe del cammino durissimo che ancora occorre fare da queste parti per guadagnare elementi di sinodalità vera e non solo di facciata e per sfuggire alla  ricorrente tentazione del formalismo che soffoca ogni anelito di rievangelizzazione. “ Giuseppina c’è riuscita – afferma Padre Rocco Spagnolo – restando in comunione con Dio e con il prossimo.Mai doppia. Gesù non ammette l’ipocrisia!…una tentazione dell’uomo religioso; quando è portato ad assolvere pratiche esteriori come novene, tridui,persino la partecipazione all’eucarestia senza un rapporto di amore con il Sigtnore, è solo religiosità vuota. Che serve assolvere a tutte le pratiche di pietà, se poi si trascura la compassione per il prossimo, vicino e lontano? Va rievangelizzata la religiosità popolare, il culto esterno affinchè diventi fede in Gesù morto e risorto…”

   Emerge da questo racconto la figura di una mistica sui generis, che senza clamori, nella sofferenza familiare e personale, nella dedizione quotidiana a Dio, incarna un tipo di spiritualità privo di ridondanze e di croste, realmente aperto al dialogo con i poveri, i sofferenti, i consacrati, i sacerdoti, con tutti! E questo secondo ritratto tracciato da Padre Rocco Spagnolo riesce a individuare bene il punto d’incontro tra fede, sofferenza e quotidianità, dando nuova vita e nuova voce a una figura ancora da scoprire pienamente e che affonda le proprie radici nella tradizione religiosa popolare del Sud , ma lo fa con sguardo moderno, rispettoso e mai sensazionalistico. Da Buonvicino, dove aveva la propria casa e il proprio lavoro, a Terranova , dove aveva "adottato" per la sua prteghiera incessante i Missionari dell'evangelizzazione, Giuseppina Bonavita ha dato vita  nel silenzio ad armonie spirituali e umane fuori dal comune che ancora risuonano in quanti la conobbero ed ebbero la fortuna di fruire delle sue parole e del suo esempio.

   Il vigore di questa nuova  indagine sulla figura di Giuseppina Bonavita risiede infatti nella capacità di mostrarla al lettore non come un’icona irraggiungibile, ma come una donna concreta, figlia di questo tempo di mille contraddizioni e di mille evasioni, ma capace di trasformare il dolore in un cammino interiore profondo. E la  Calabria non è semplice sfondo, ma parte integrante dell’ esperienza mistica narrata, con i suoi paesaggi aspri, la cultura del sacrificio e della sobrietà antica e quel forte senso di spiritualità che da sempre attraversa questa terra di frontiera.

    Ogni pagina esplora le visioni, le prove interiori, i momenti di abbandono e di estasi con un equilibrio notevole: la dimensione mistica non è mai spettacolarizzata, ma resa evidente attraverso la sensibilità psicologica della protagonista e la sua capacità di leggere, nella sofferenza, un dialogo intimo con il divino. Il simbolo della “croce piantata nel cuore” diventa così la metafora di un’esistenza molto segnata, ma mai spezzata, in cui il sacrificio non annulla la persona, bensì la rivela. 
 
  Lo stile è sempre meditativo, talvolta contemplativo, e alterna pagine di intensa introspezione a momenti di vita quotidiana che riportano Giuseppina nella sua dimensione umana. L’autore riesce a mantenere un tono rispettoso e partecipe, evitando eccessi agiografici e lasciando che siano la voce e soprattutto gli esempi e i silenzi della protagonista a parlare al cuore del lettore.

    Ancora un libro eccezionale di Padre Rocco Spagnolo che con la sobria vis narrativa di sempre offre al pubblico un’esperienza spirituale intensa che nessuno si aspettava. Una lettura decisamente consigliata  a tutti, specialmente   a chi è affascinato dalle figure mistiche, dalle storie spirituali radicate nel territorio e da quei personaggi capaci di rendere visibile l’Invisibile attraverso la propria esistenza quotidiana.

Bruno Demasi.

martedì 18 novembre 2025

Viaggiatori in Calabria nel sec. XIX: AUBIN LOUIS MILLIN DE GRANDMAISON (1812) ( di Rocco Liberti )

   Un’altra ricca pagina di Rocco Liberti sui viaggiatori stranieri che nell’Ottocento dedicarono la loro attenzione all’attuale Calabria sulla cui situazione geografica, sociale ed economica annotarono  punti di vista preziosi anche oggi. Il viaggio in Calabria compiuto da Aubin Louis Millin de Grandmaison nel 1812 – raccontato nel suo  "Voyage dans les départemens du midi de la France… "– è una testimonianza  eccezionale non solo per la descrizione del paesaggio e dei monumenti, ma anche per lo sguardo illuminista con cui l’erudito francese osserva una regione allora poco conosciuta in Europa. Come è possibile evincere dalle acutissime indicazioni di Rocco Liberti, Millin unisce curiosità antiquaria, sensibilità estetica e attenzione etnografica: descrive rovine greche e romane, tradizioni popolari, usi locali, ma anche le difficoltà materiali del viaggio, rivelando una Calabria al tempo stesso affascinante e “selvaggia”. Il suo racconto contribuisce a costruire un’immagine della regione come luogo ricchissimo di suggestioni  geografiche, di eredità culturali e di storia antica sebbene   marginale rispetto ai circuiti culturali del suo tempo.( Bruno Demasi )
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     Proprio sul finire del decennio francese un’artista d’oltralpe, naturalista, bibliotecario, archeologo e storico dell’arte, nato nel 1759 a Parigi e poi morto nel 1818, si avventurava in Calabria seguendo la scia dei tanti viatori del grand tour pervenuti prima di lui. Al tempo della rivoluzione, nel 1793, è stato imprigionato, ma in seguito rilasciato. In carica quale direttore di varie istituzioni, in parte da lui stesso fondate, ha pubblicato alcune opere. Tra 1811 e 1812 ha girato variamente, in compagnia del pittore Franz Louis Catel (Berlino 1778-Roma 1856), in Italia e all’ultimo perfino in Calabria, dove ha raccolto testimonianze del passato ricavando interessantissimi disegni. Ha tutto riportato nel lavoro “Extrait de quelques lettres Adressées à la Classe de la Littérature ancienne de l’Institut impérial Pendant son Voyage d’Italie” (Paris e l’Imprimerie de J. B. Sajou, 1814). Il suo viaggio è una sequenza puntigliosa dei luoghi attraversati e delle testimonianze via via acquisite.

    Partito da Napoli il 6 maggio del 1812, in Calabria è arrivato da Lagonegro e il primo abitato è stato Castrovillari, sottointendenza della Calabria Citra, dove non ha rilevato alcunché di speciale, soltanto la fornitura di buoni muli. In luogo di andare a Cosenza, ha preferito spostarsi a Cassano e Lungro, quest’ultimo villaggio albanese dai costumi particolari, per vedere la miniera di sale. Ripreso il cammino, sulle strade s’incontravano solo alcune case bruciate e l’erba per bestie e uomini. I viandanti coi quali si accompagnava fortunatamente potevano godere delle provviste che i «buoni Albanesi» di Lungro avevano loro fornito. A Cosenza, capitale della Calabria Citra, dove sono rimasti tre giorni, hanno notato la presenza di buoni stabilimenti e di ogni specie di mestieri. Sita in un luogo confacente, la città aveva però all’estremità una «valle assassina», nella quale erano stati uccisi molti soldati e ufficiali francesi. Vi hanno cercato il luogo della sepoltura di Alarico, ma non sono approdati a nulla, in quanto il corso dei fiumi Crati e Sibari era stato deviato.

    Da Cosenza  il ritorno ancora sulla costa tirrenica lasciata a Castelli (?) e attraverso boschi e montagne arrivo a Paola. Questa città si è offerta in una bella posizione, col suo monastero di San Francesco e la relativa statua sulla cima di una roccia, che tutte le navi passando salutavano e, infine, con i suoi edifici, rivelatisi degni di ogni attenzione. Ne aveva già disegnati come pure ad Amantea e a San Lucido[1].

   La costa da Amantea a Nicastro induceva a un rapimento da non sapersi esprimere, purtroppo bisognava sottoporsi a un tragitto di ben 56 miglia senza imbattersi in altro che in una taverna, dove si poteva incocciare solo del vino cattivo e un tozzo di pane. N’erano causa l’incendio e il devastamento, cui erano stati sottoposti i villini che si trovavano nella zona. Scrive Millin a proposito: «non si vedono che testimonianze del furore degli uomini e delle prove di uno spirito sfrenato di distruzione»[2]

     Inoltro verso l’interno superando un bosco di mirti, ginestre e alberi dai fiori odorosi, i cui colori erano mirabilmente mescolati e arrivo di notte a Nicastro spossati e affamati. Nel sentiero che ve li aveva portati, il mulo di Millin aveva messo le gambe nella briglia di quello di Catel ed era diventato talmente furioso che il primo, che temeva di essere ucciso, è rimasto tutto ammaccato. A Nicastro, dove è stata rilevata appena un’iscrizione antica di scarsa importanza, si evidenziavano ferite vecchie e recenti, quelle del terremoto del 1783 che l’aveva parzialmente abbattuta e le altre causate da un torrente che in meno di un’ora ne aveva distrutto un altro tratto. Al posto delle case si notavano le rocce che vi erano precipitate sopra. Nuova tappa Monteleone, interamente annullata dal sisma e dove si avvertivano due magnifici palazzi atterrati. Le case ancora in piedi erano soltanto baracche di legno. A Monteleone la sosta di tre giorni ha fruttato la copiatura di alcuni monumenti e belle iscrizioni sconosciute, ma anche la possibilità di escursioni al Pizzo e alle rive del Golfo di Santa Eufemia, dove ci si è avvertiti di altre scritte latine inedite.

   Di nuovo sulla costa a Tropea e, quindi a Mileto, dove le tracce dello spaventoso sisma del 1783 erano evidenti. Millin è riuscito ad avere disegni sull’antica sistemazione e anche del sarcofago di Ruggero. Addirittura, facendo scavare poco discosto da quest’ultimo, ha ritrovato quello della moglie Adelasia. Peccato che nella distruzione del monastero erano scomparsi i preziosi archivi. Si è proseguito verso Tropea, dai cui pressi era dato mirare le isole Lipari e Nicotera, ma anche porzione delle coste sicule. Tropea, conservava alcune testimonianze medioevali e con Parelia (Parghelia) e Nicotera erano tutte città situate in siti deliziosi che richiamavano l’interesse anche per via del loro nome di origine greca.

    Nuova deviazione verso l’interno e presto a Seminara per accertarsi di quello che aveva causato il sisma, poi in serata a Palmi e l’indomani a Bagnara e a Scilla, tutti luoghi di poca attrattiva per quanto riguardava l’archeologia e la storia medievale. Millin ha fatto più volte il giro della rocca di Scilla e ha capito dalla natura delle cose perché gli antichi avessero un tempo creato il mito. Vi scorgevano attorno cani urlanti come nelle nuvole si vedono talvolta dei giganti. A Scilla si è fermato per un’intera giornata e ha potuto seguire la pesca al pescespada che si faceva ancora come ai tempi di Strabone. Però nessuna espressione greca da rilevare, in quanto ne aveva la lista e in essa non ne risultava alcuna.

   È stato indi a Reggio, dove ha dimorato ben 11 giorni e, tra i guasti del terremoto, ha rinvenuto parecchi piccoli resti monumentali e financo il nome in greco della città impresso su un laterizio. È passato al Camp de Piale (Campo di Piale) e a San Giovane (Villa San Giovanni) da dove si sentirebbe cantare il gallo siciliano, evidentemente quello sistemato sul campanile della cattedrale di Messina. Il viaggiatore, se non ha sparato a zero, ha visto pur anche la sfilata degli inglesi e ascoltato la musica suonata dalla fanfara e anche le donne messinesi che si recavano a Messa.

   Voleva procedere verso Bova, però trattandosi di una strada non facile e trovandovi scarsa attrattiva, ha deciso di ritornarsene a Palmi, non più a cavallo, ma via mare per passare tra Scilla e Cariddi e ammirarne le coste. Erano queste così vicine che le palle di cannone sparate dall’una arrivavano sull’altra. Quando si faceva fuoco da Pentimele si vedeva alzarsi in aria la sabbia che stava davanti alle case del faro. Lo stretto perciò si rivelava poco sicuro per le piccole barche, ch’erano costrette a rasentare la costa. Nonostante i manifesti pericoli e le ammonizione avute, Millin ha fatto di testa sua, ma, una volta a Palmi, il comandante gli ha detto che non avrebbe compiuto lo stesso percorso perché la sua era stata un’imprudenza bella e buona.

 
  Da Palmi si è avviato a Gerace, ma prima ha dormito a Casal nuovo (l’odierna Cittanova). Scavalcato il passo dei mercanti, ecco Gerace, sulla punta di una roccia, dove ha notato monumenti interessanti. Indi discesa sul piano ove era l’originaria Locri e nel quale era possibile ancora intravedere l’antica cinta delle mura e il tracciato in pietre quadrate. Sul posto ha operato fruttuosi scavi e copiato un bell’elmo di bronzo con una scritta greca in caratteri arcaici e un frammento di vaso, ma anche monumenti di epoca medioevale. Proseguendo, avendo a destra il mare e a sinistra in alto su rilievi inaccessibili le città e davanti soltanto argilla sabbiosa solcata a ogni momento da torrenti di acqua malsana e fangosa, si poteva arrivare a Taranto senza incontrare città alcuna. Rientro a Gerace dopo un cammino disagevole per un suolo bruciato dal sole e con caldo da forno, ma con la sorpresa di rinvenire palazzi di buon aspetto, i cui padroni avevano però scarsi rapporti con quelli delle città vicine.

    Riguardo a Gerace Millin lancia una stoccata contro Swinburne affermando di essere certo che con tali difficoltà quegli in quella città non ci sia mai stato e che nella sua fatica ha detto cose comuni che sapevano tutti. Dopo Gerace si è diretto a Roccella e sul luogo dove sarebbe esistita l’antica Caulonia, quindi a Isca e Stilo. Qui è stato interessato dalla «chiesa greca assai singolare», indubbiamente la Cattolica e dalla colonna con iscrizione greca. È stato appresso a S. Caterina Stallati (S. Caterina dello Ionio?) e poi è risalito verso Squillace, dove si è avveduto di alcuni stimolanti monumenti, tra i quali una chiesa forse abbattuta dai primi cristiani. Interessante la riflessione in merito alla costa: «il cammino di questa costa è così difficile, che bisogna farlo a piedi; i muli rischiano a ogni istante di precipitare, e i miei mulattieri espressero delle grida di rabbia per essersi impegnati: per buona sorte la scorta da cui ero accompagnato ha loro imposto il silenzio. Occorre sempre avere una scorta nelle Calabrie, se non è contro i briganti, serve almeno per essere padrone dei mulattieri, e forzare i contadini a servire da guide. Non c’è alcuna considerazione per i viaggiatori che non hanno un fucile in bandoliera, o che non sono accompagnati da uomini che ce l’hanno»[3].

    A Catanzaro nessun peculiare segno di attrazione, ma pausa forzata per la quinquina (chinino) somministrata al disegnatore e al domestico che avevano la febbre. Si è tergiversato su Crotone, ma alla fine, per la ripugnanza di Catel ad andarvi, si è puntato su Taverna, però prima passaggio da Tiriolo, dove oltre alle antichità c’era da ammirare l’affascinante costume delle donne e a Genigliano (Gimigliano). Si trattava di città ch’erano state preda delle fiamme accese da bande di ribelli. A Taverna hanno attratto i visitatori soltanto i dipinti del celebre Mattia Preti, di cui hanno preso naturalmente le copie. L’erranza è seguitata per la Sila e San Giovane di Fiori (San Giovanni in Fiore), che ha offerto ben poco, quindi per Rossano ed escursione di rito all’antico monastero che va sotto il nome di Madonna del Patire, vetusta costruzione depredata e saccheggiata dalla malvagità degli uomini. Lapalissiano che abbia acquisito i disegni della chiesa, del pavimento in mosaico di tipo arabeggiante e di un grande vaso greco in marmo con iscrizione, ma pure di tant’altro.

A Corigliano il richiamo maggiore è stato per il grande acquedotto e per il sito dove era l’antica Sibari, al suo tempo solo una pianura di cardi alti e spessi. Si voleva proseguire lungo la costa fino a Taranto, ma l’arcivescovo di quella città lo ha sconsigliato, per cui si è affittata una vettura che da Cassano ha materializzato il trasferimento a Castrovillari. La strada fino a Padula non ha mostrato alcuna cosa capace di attirare l’attenzione e l’arrivo a Napoli è avvenuto il 18 luglio[4]
Rocco Liberti 
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[1] MILLIN…, Extrait …passim. 
[2] Ivi, p. 24, trad. dal francese. 
[3] Ivi, pp. 31-32. 
[4] Ved. AA. VV., Aubin Louis Millin (1759-1818) Entre France et Italie/tra Italia e Francia, Campisan editore, Roma 2011.

lunedì 10 novembre 2025

“In verità vi dico…", L’UMANESIMO LIRICO DI GIOSOFATTE FRISINA (di Bruno Demasi)


  Non capitano quasi mai tutti insieme , e neanche con  tanto  lampante evidenza, i tre caratteri costitutivi che hanno impregnato in maniera assoluta la produzione lirica e la vita di un poeta calabrese che varrebbe davvero la pena conoscere meglio, Giosofatte Frisina (1921 – 2021): la riservatezza totale che diventa umiltà; la ricerca costante e sofferta di senso per la vita; il lirismo del pensiero tanto più eloquente quanto più privo di smancerie emotive. Una poesia probabilmente unica nel suo genere distante mille anni luce dai labili parametri odierni di valutazione estetica e dalle ridondanze pubblicistiche  fini a se stesse che rischiano di far emergere solo il vacuo a scapito di tanta letteratura vera e sofferta che rimane sommersa.

    Oggi una parte piccola, ma assai significativa, della produzione di Giosofatte Frisina approda alle stampe con un prezioso volume curato meritoriamente dalla DBE-Barbaro Editore dal titolo “Nel tempo sospeso”, che costituisce di per sé un superamento della classica concezione delle cd sillogi poetiche che imperversano in tutte e per tutte le occasioni. E’ un diario lirico di un anno di guerra, il 1941, particolarmente sofferto in prima persona dall’Autore e ben delineato nei suoi caratteri fenomenologici da una riflessione storica introduttiva di Antonino Romeo. Un diario che si dipana giorno per giorno, attraverso gli scarni ma profondissimi appunti dell’Autore ai quali fanno da contrappunto a distanza di tantissimi anni le commosse e lucide osservazioni della figlia diletta del Poeta, coautrice del volume, che quasi completa a quattro mani e poi con una lirica del padre ogni momento fissato sulla carta e nel ricordo:

Salerno, 18 ottobre 1941 …prova dello sfilamento del reparto…in occasione del giuramento…

…mi chiedo cosa fossero le prove dello sfilamento…Ma mi viene da pensare a un significato più profondo …di cui parli in una tua poesia (Giusy Frisina ):

Il giuramento e il vento

Giura l’identità
 giura l’onore, 
giura l’amore: 
son tanti i giuramenti 
spazzati via come fuscelli 
dai venti della vita. 
Ma in fondo all’anima
 c’è uno spazio arcano, 
ove un giuramento convola 
e nol raggiunge il vento.


 

   Di quanto sia varia e multiforme la poesia di Giosofatte Frisina, che ha sempre come comune denominatore il parametro inconfondibile del verso asciutto e nervoso che scava nella storia individuale dell’esistenza, fanno testo le antologie poetiche che già prima di questa nuova pubblicazione avevano visto la luce dando un segno di questa fertilissima e insospettata presenza lirica nel panorama letterario calabrese (e non solo) del Novecento: La punta dell’iceberg (2004); Il filo magico della ricerca (2004); Verità riflesse(2005); L’eterno vivere nel relativo assoluto (2006); L’importanza dell’uomo nel rapporto con Dio(2016); Nel segno della vita (2020). Sette tappe significative di una vocazione poetica tutt’altro che dilettantesca, tutt’altro che di maniera. A me ognuna di queste liriche offre netta l’impressione di un brandello di vita e di pensiero fissato sulla carta quasi a voler rubare all’eternità che ci trascende uno sprazzo di luce nel buio fitto del mistero che ci travalica, ma non ci opprime e che ci conduce, come osserva varie volte l’Autore, a quel Dio affannosamente cercato:

Cos’è Dio dov’è Dio?

Dio, 
senza volto, senza figura: 
segreta essenza 
dell’immenso creato, 
nel pullular delle specie, 
nella stupenda alchimia, 
ove il fuoco, il mare, 
il vento, la pioggia 
rimodellano i sassi, 
nel baglior delle stelle, 
traspare 
nella coscienza dell’uomo, 
che curioso cerca 
in cotanto mistero.

                                                         
    (Da “Il filo magico della ricerca”)
    

   E , se è vero che la forma da sola non è poesia, è pur vero che una poesia in apparenza concettuale e “ di contenuto” non basterebbe a esprimere la vitalità dirompente del verso di questo Autore finora quasi sconosciuto e negletto che varrebbe davvero la pena conoscere meglio e far conoscere.  Lo stile lirico di Giosofatte Frisina viene infatti da lontano, percorre una sterminata messe di poeti antichi e moderni da lui avidamente assorbiti e dai quali ha tratto il gusto non solo per la profondità delle illuminazioini poetiche, ma anche per l’economia rigorosa di un verso, di una sintassi, di una forma che, pur prediligendo il verso libero, sfiorano la perfezione metrica e formale con una ricchezza lessicale  oggi quasi smarrita che appare classicamente pulita e coerente in tutte le occasioni come davvero pochi sono in grado di padroneggiare:
                                   
                                                                             Il ponte

Quanto è pauroso l’impeto del fiume 
che tracotante invade la campagna; 
scende potente e infuriato Nume 
                dalla montagna.

Tal della vita è il corso inusitato, 
o mia diletta, e sotto il nostro ponte 
pur passerà quel fiume irato 
                  che vien dal monte.

Così ci troveremo faccia a faccia 
noi con la fede nell’amore nostro
lui con la bieca livida minaccia, 
         il vile mostro.

Quale il periglio?...Il sole par non osi…
poi squarcia la fitta nuvolaglia…
par d’oro il ponte nell’apoteosi
         della battaglia.

                                                                             
  ( Da “Il sogno della vita” )
     
     E’ comunque nell’indagine del rapporto tra umano e divino che l’Autore, le cui riflessioni tradotte in poesia non sono mai di maniera, mai convenzionali, raggiunge il massimo del lirismo critico, creando quasi un nuovo strumento di speculazione teologica.
    Non voglio essere blasfemo, e men che mai lo avrebbe voluto lui, ma non si può trascurare il copernicano capovolgimento dell’indagine sulla scienza di Dio che opera Giosofatte Frisina ritornando in modo dirompente e libero alla posizione di Agostino di Ippona: Diò è perché c’è l’uomo, un’umanità sofferente che lo cerca e lo testimonia senza stancarsi e che reca impresse nella propria anima e nella propria carne le stigmate del sacro. Una poesia cristocentrica , come cristocentrico è il cuore dell’uomo, persino di quell’uomo che combatte a oltranza Dio, ma, senza saperlo, in quel preciso momento ne rende testimonianza a tutti:

                                       
   “In verità vi dico”

Cristo 
l’uomo o Dio
 e l’uno e l’altro.

Tanto non conta
quanto la sua parola
che generò il sociale

Con commento infinito
agli apostoli in poi:

viatico certo 
per l’umanità.

                                              
           (Da “L’importanza dell’uomo nel rapporto con Dio”) 

Bruno Demasi

lunedì 20 ottobre 2025

Viaggiatori in Calabria nel sec. XIX: ASTOLPHE DE COUSTINE (1812) ( di Rocco Liberti)

    Continua su queste pagine l’excursus inedito e avvincente di Rocco Liberti sui viaggiatori stranieri che nell’Ottocento predilessero l’attuale Calabria quale scenario variegato e imprevedibile per le loro annotazioni e le loro osservazioni. Stavolta non si tratta di un militare di carriera di stanza in questo territorio, ma di un viaggiatore propriamente detto, che pur proveniente dalla Francia, non ha nulla da invidiare ai dandys inglesi che nello stesso periodo si dedicavano ai loro gran tours aventi come meta peculiare il sud della Penisola. A De Coustine si devono comunque notizie di prima mano non solo sulle caratteristiche del paesaggio calabrese, in particolare Palmi e quella che oggi viene definita “Costa Viola”, ma anche sulla società del tempo e sul singolare ruolo femminile all’interno di tale contesto. Una pagina che vale la pena di leggere con attenzione per scoprirvi inedite visioni della nostra realtà meridionale che vengono opportunamente messe in risalto dall'abituale acume di Rocco Liberti e che, pur risalenti a due secoli fa, mantengono tratti imprevedibili di modernità.( Bruno Demasi)

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   In sequenza ai tanti militari di carriera pervenuti in Calabria nel decennio precedente, ecco finalmente un autentico turista con la brama d’intraprendere, come altri prima di lui, un’escursione in una zona, nella quale i miti greci e quelli romantici del brigantaggio facevano sempre grande presa. Il marchese Adolphe De Custine, un francese che acquisterà notevole fama per i suoi vagabondaggi per l’Europa, è arrivato in Calabria a Castrovillari il 23 maggio del 1812 e nella regione si è trattenuto insino al 5 luglio.

    Nato in Lorena nel 1790, è deceduto a Parigi nel 1857. Amante del girovagare, finiti sotto la ghigliottina il nonno e il padre, con la madre e i di lei amanti si è mosso per l’Europa. Omosessuale, ha coltivato amicizie sia maschili che femminili e talvolta ha meditato il suicidio. Ha lasciato pubblicazioni di viaggi - è noto il “Viaggio in Russia” - romanzi e poesie e anche lui non è uscito dagli schemi scontati dell’epoca in merito al giudizio sulla Calabria. In un iniziale lavoro ha infatti: «La Calabria assomiglia a tutto fuorché all’Italia», mentre in un secondo: «La Calabria è un vero mosaico, un abito d’Arlecchino, dove ogni piccola comunità ha mantenuto il suo colore locale, il suo carattere primitivo senza essere confusa con i suoi vicini».

    Il 25 maggio 1812 De Custine è stato a Lungro e per questo paese e relativo territorio non ha mancato di porre l’attenzione, com’era naturale, alle miniere di sale e agli Albanesi. Il 27 si è spostato a Cosenza e da qui, via Paola, ha percorso la costa fino a Palmi. In tale cittadina è giunto alle 9 di sera del 9 giugno provenendo dalla plaga tropeana e la sua visione e quella degli immediati dintorni lo hanno letteralmente mandato in estasi.

     Di seguito quanto ha sentito di esprimere in un’occasione, ma di occasioni se ne sono verificate più di una: «giardini profumati e la graziosa cittadina di Palmi, ai piedi di un’enorme roccia, quasi interamente nascosta sotto un bosco di castagni, completavano il quadro più dolce, più ricco, più pomposo che abbia mai catturato l’immaginazione di un pittore! I colori di un clima caldo gettato su questa scena, nel momento in cui la giornata stava per finire, mi hanno reso l’effetto di una visione. Ero di marmo, insensibile, lo stupore, l’ammirazione mi avevano sopraffatto! Non proverò più ciò che ho sentito questa sera: la sorpresa è stata parecchia; ed ora in poi è impossibile, finché vivrò, ricorderò con riconoscenza, con affetto le meraviglie della prima notte che ho visto nell’arrivare a Palmi … Ciò che ho provato è stato più che la vita. La mia anima era pervenuta alla mèta senza essere passata per la morte!». In altra addirittura dirà che
«Napoli e le sue meraviglie sono tristi rispetto a Palmi! Non c’è punto afflizione, mania, malinconia, malattia dell’anima che possa resistere alla vista di questo Eliseo, di questo paradiso terrestre». Non solo, ma, mettendo in paragone Scilla e Palmi, eleverà di molto la bellezza di quest’ultima: la posizione di Scilla è «meno ridente e meno bella di quella di Palmi. Palmi mi ha riempito di ogni cosa e d’ora in poi penserò a questo luogo come si rimpiange qualcuno»
. Alquanto lusinghiera questa dichiarazione finale[I1.

    Oltrepassate Bagnara e Scilla, De Custine si è poi trasferito a Reggio, dove è rimasto dal 14 al 23 giugno. Il 23 sarà ancora a Palmi via mare e salirà a piedi l’erta che dall’insenatura marina conduce ad essa. Ripreso il cammino il giorno seguente, pur costretto a spostarsi di qua e di là per trovare la strada, si è portato a Casalnuovo. Così riferisce in proposito: «alla fine di sei ore di marcia attraverso foreste d’ulivi e villaggi pittoreschi, arrivammo a Casal-Nuovo, piccola città situata ai piedi del monte Moleti, vicino all’Aspromonte». Eccolo di poi a Gerace, definita «mucchio di macerie». In essa si è dato al passeggio in compagnia del vicario del vescovo e di tre o quattro sacerdoti, che afferma: «mi sembravano i preti dei Racconti di La Fontaine o di Boccaccio». 

  Da Gerace discesa sul litorale ionico e arrivo a Rucello (Roccella) e Stilo, sulla quale così si sofferma: è «arroccato all’altezza del nido dell’aquila, senza sentieri, senza commercio, quasi senza terra, dimenticato dalla civiltà moderna, sul versante meridionale dell’Aspromonte». Via per Catanzaro, Rogliano, Cosenza e Tarsia. Per l’antica capitale dei Bruzi siffattamente tiene ad esprimersi: «ho provato un timore del quale mi ricorderò a lungo». Dopo Catanzaro, il 5 luglio si è fatto sotto a Castrovillari, dove ha dovuto trattenervisi in attesa di una carrozza che potesse trasferirlo a Napoli[2]

   Nell’opera di De Custine riescono numerosi i particolari degni di nota in riferimento allo spostamento da un centro all’altro e alla loro descrizione, ma essa risulta ricca non soltanto di specifiche notazioni sull’aspetto fisico di paesi e contrade, anche di considerazioni sulla società. Non potendoci attardare su ogni aspetto, ci limitiamo a officiarne almeno due, il clima e la donna. Scrive sul primo: «una delle peculiarità della Calabria è la diversità dei suoi climi: vi arrampicate per cento piedi, superate una catena di colline, fate una lega, girate un promontorio, avete cambiato latitudine. Gli stranieri non possono credere a così tanta variabilità di temperatura nello stesso territorio. Sono abituato a viaggiare senza prendere alcuna precauzione; ma in Calabria mi sono pentito spesso di non avere un cappotto, poiché il passaggio dal freddo al caldo, dall’estate all’inverno è improvviso e frequente. D’estate c’è più bisogno di coprirsi al sud che al nord». E sull’altro: «le donne quasi non si vedono, rimangono rinchiuse tutto il giorno, e non escono che di notte. Tuttavia, abbiamo cenato una volta con la bella figlia del nostro ospite, che è uno dei personaggi più ricchi della città. Sua nuora è una giovane donna, molto candida e molto carina, la cui sensibilità non mi è sembrata esagerata. Essa non ha tratti così delicati come molti altri italiani. Ha schiacciato il suo cane in una porta, e mentre il corpo sanguinante del povero animale veniva portato via, la signora, che stava conversando, ha girato soltanto la testa per chiedere cosa stesse succedendo. Potrei sbagliarmi, ma preferirei meglio essere suo figlio o suo marito piuttosto che il suo cane»[3].

     De Custine ha inserito le sue impressioni calabresi in “Lettres ecrites à diverses époques pendant des courses en Suisse, en Calabre, en Angleterre et en Ecosse”, edita a Parigi nel 1830 dalle Edizioni Vézard e uscita in contemporanea a Louvain chez F. Michel, Imprimeur-libraire de l’Universitè. La parte riguardante la Calabria tradotta in lingua italiana è apparsa inizialmente nel 1979 a Palermo presso Flaccovio a cura di Anna Maria Rubino Campini. La stessa però aveva già nel 1968 prodotto uno studio sul viaggiatore d’oltralpe e sui suoi viaggi. Si tratta di “Alla ricerca di Astolphe De Custine-Sei studi con documenti inediti” (Roma 1968, Edizioni di Storia e Letteratura, “Quaderni di cultura francese a cura della Fondazione Primoli”). Nel 1983 le Lettere sono state pubblicate a Diamante, quindi nel 2008 c’è stata l’edizione Rubbettino con la traduzione di Carlo Carlino. Quest’ultima è abbastanza accettabile, ma sovente il traduttore abbandona la costruzione letterale incappando a volte in evidenti errori. 
Rocco Liberti
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[1] Astolphe De Custine, Lettres ecrites à diverses époques pendant des courses en Suisse, en Calabre, en Angleterre et en Ecosse, Paris, Ed. Vézard 1830, tome I, pp. 306, 326, 381-382, 383, 398, trad. dal francese; Id., Lettere dalla Calabria, trad. di Carlo Carlino, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, passim. Un’interessante saggio sulla figura di De Custine e le sue peregrinazioni è stato dato alle stampe da Anna Maria Rubino. È “Alla ricerca di Astolphe De Custine-Sei studi con documenti inediti”, Roma 1968, Edizioni di Storia e Letteratura, “Quaderni di cultura francese a cura della Fondazione Primoli”. 
[2] De Custine, Lettres ecrites…, tome II, pp. 22, 25, 38, trad. Dal francese. 
[3] De Custine, Lettres ecrites…, tome I, pp. 408, 417.