martedì 9 settembre 2025

Viaggiatori in Calabria nel sec. XIX: Nicolas Phillipps Desvernois ( di Rocco Liberti)

    Un’altra bella ed eloquente pagina inedita di Rocco Liberti, che stavolta scava nelle testimonianze ancora non molto conosciute relative al groviglio politico in cui era precipitata la Calabria nell’ 800 conseguente alla lotta tra i Borboni e la ventata rivoluzionaria e libertaria che era stata impersonata da Joacquim Murat. Il generale francese Desvernois proprio di Murat segue la parabola umana e politica con tutte le sue ansie di rinnovamento e con le sue contraddizioni, prima fra tutte la lotta aspra e acritica al cosiddetto brigantaggio, fenomeno magmatico e assai incerto  se schierarsi tra la fronda e l’appoggio al regime borbonico. Desvernois è però qui ricordato soprattutto come memorialista non privo di acuta attenzione per l’universo calabro, in particolare per l’attuale Piana di Gioia Tauro, con i suoi caratteri  sociali e le sue consuetudini politiche che in qualche modo possono contribuire a spiegarne anche il costume  attuale. (Bruno Demasi) 



    Anche il luogotenente generale Nicolas Phillipps Desvernois (1), che si è trovato in Calabria a causa dei suoi impegni militari tra 1811 e 1815, ha riferito sui luoghi dove è transitato, Mileto in particolare. In tale località il 5 dicembre 1811 si è reso addirittura promotore del trasporto nel paese ricostruito di una statua di San Nicola e dei resti del mausoleo normanno, che erano ancora allocati nella primitiva sede. Nella sua opera però a risaltare sono lo svolgimento del periodo storico vissuto e le continue repressioni compiute a danno dei cosiddetti briganti, interventi dei quali lui è stato sovente autore spietato. Non conosciamo dati completi sulla condizione civile, sappiamo soltanto ch’era nato nel 1771 a Lons-le Saunier e nel 1834 contava 63 anni. Apprendiamo da un saggio, che ne ricorda le vicissitudini, che ha partecipato a vari conflitti in Europa, Tirolo e Spagna soprattutto. Dopo aver ricevuto in donazione alcuni beni in quel di Altomonte, si è ricondotto a Mileto e qui ha soggiornato parecchio. Ordinatogli di partire per la spedizione di Russia, era pervenuto già in Lucania quando gli è stato intimato di ritornare indietro.

    Ma ecco parte della cerimonia relativa al trasporto dell’antica statua di San Nicola a Mileto come esposta nei suoi “Souvenirs”:

«Il 5 dicembre 1812, a trecento cacciatori del reggimento, a cui si unì un gran numero di abitanti, fu ordinato di operare questa traslazione. La statua fu posta su una slitta, costruita espressamente, e imbrigliata con quaranta coppie di buoi, e poche ore furono sufficienti per il successo dell'operazione, che si concluse con le grida ripetute mille volte di Viva il Colonnello Desvernois e Nicolò Taccone (in italiano nel testo). Il capo del santo, la cui mitra era d'oro, fu ricollocata sulla statua, che il giorno successivo fu inaugurata col più grande apparato, alla presenza di oltre diecimila spettatori, accorsi da tutti i punti della vasta diocesi di Mileto»[1].


    A riguardo del territorio della Piana, nelle “Memorie” non riporta impressioni di sorta, ma tiene a riferire almeno qualche episodio. Nel gennaio del 1813 veniva data «alla guarnigione, alle signore e ai nobili della Città di Palmi» una festa con ballo, che è risultata alquanto turbata e forse cessata prima d’iniziare a motivo di una sortita degli inglesi, ch’erano sbarcati «nei pressi della strada che sale per Palmi». L’epilogo si è configurato però una vera carneficina in danno di coloro che avevano pensato di cogliere di sorpresa i francesi. Nella notte tra il 21 e il 22 aprile poi, appreso che degli insorti si trovavano in forze avanti Casal Nuovo, con due battaglioni presi dal contingente che operava sui Piani della Corona, si è precipitato nella zona, dove ha rimesso le cose a posto.
    Desvernois si è trovato ad operare parecchio sia nella zona meridionale che in quella settentrionale della Calabria in particolare nell’ultimo periodo del dominio murattiano. Si è dato alla caccia dei borbonici provenienti dalla Sicilia e che infestavano sia la costa intorno a Villa che a partire da Capo Spartivento. In particolare, ha dovuto impegnarsi in quel di Scilla anche a causa del fulmine che il 14 gennaio 1815 aveva causato una strage tra i militari di stanza nel forte. Si è stanziato con la moglie in un certo periodo ad Altomonte e si è occupato per la costruzione di una strada utile a coloro che pervenivano da Castrovillari, Cosenza e Lungro. Ha avuto varie ovazioni dove perveniva e nel soggiorno ad Altomonte, in amicizia con quei padri, tra l’altro, si è dato ad organizzare una biblioteca con 200 volumi e un medagliere e ha affidato la cura dei suoi interessi a p. Scaramucchio del soppresso convento dei domenicani. A quanto scrive, la moglie vi aveva delle proprietà. È intervenuto tempestivamente anche in difesa del vescovado di Mileto, che in tanti richiedevano fosse spostato a Monteleone. Si paventava allora una vera sollevazione. Tra le tante prodezze vantate anche la lotta contro i pirati algerini che si portavano sovente in Calabria compresa la cattura di un bastimento siracusano, che operava il commercio clandestino del sale. Anche allora!

    Caduta ogni speranza per Murat di conservare il regno in seguito alla definitiva sconfitta di Napoleone a Waterloo, al maggior generale francese non restava ormai che abbandonare la Calabria, per cui a Messina il 13 giugno 1815 riusciva a imbarcarsi su un battello greco che faceva vela per Tolone. Napoleone III lo creerà commendatore della Legion d’Onore e generale conte di Serre. Si fregerà pure dell’ordine delle Due Sicilie[2]

     Le memorie del Desvernois sono state edite una prima volta, come in nota, nel 1858 per interessamento di una sua nipote (Memoires du général Bon (barone) Desvernois d’après les manuscrits originaux-Publiés sous les auspices de sa nièce M.me Bousson-Desvernois 1789-1815, Paris, Ch. Tanera Editeur Librairie Plon-E. Plon, Nourrit et C.ie Imprimeurs-Èditeurs. L’introduzione e le note sono di Albert Dufourcq). Una successiva edizione si è verificata nel 1898, sempre a Parigi a cura degli stampatori-editori E. Plon, Nourrit e C.ie. Un’impeccabile traduzione è avvenuta nel 1993 e si deve al Prof. Giuseppe Misitano (N. F. Desvernois, Un Generale di Napoleone nel Regno di Napoli Memorie di N. Ph. Desvernois 1801-1813, Qualecultura Jaca Book, Vibo Valentia 1993. Ampie notizie sulle peripezie dei manoscritti del Desvernois e sui suoi mancati editori è dato leggerle a cura di Alberto Lumbroso su una nota rivista, la Rivista Storica Italiana (Dir. C. Rinaudo, vol. XV (III della N. S.), Fratelli Bocca, Torino ecc. 1898, pp. 444-447). 
                                                                                                                                                                           Rocco Liberti
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[1] Souvenirs militaires du Baron Desvernois redigés d’après les documents authentiques par Emm. Bousson de Mairet, Paris Ch. Tanera Editeur 1858, p. 147, trad. dal francese.


[2] Ivi.

sabato 30 agosto 2025

L’INCREDIBILE CROCIFISSO LIGNEO DELLA CHIESA MATRICE DI TAURIANOVA (di Bruno Demasi)


     Produsse un certo scandalo Natalia Ginzburg quando nel 1988 sull ”Unità”, l’organo ufficiale del partito comunista più forte dell’Occidente scrisse senza mezzi termini: “ Il crocifisso è il segno del dolore umano. La corona di spine, i chiodi, evocano le sue sofferenze. La croce, che pensiamo alta in cima al monte, è il segno della solitudine nella morte. Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro umano destino. Il crocifisso fa parte della storia del mondo.”  
 
    Erano parole calibrate su una visione della storia e del mondo che ritornava in modo dirompente alla dimensione della Croce, troppo a lungo osteggiata o minimizzata, ma erano anche sensazioni sapientemente descritte da una grande scrittrice che avrebbe dovuto quanto meno ignorare, o far finta di ignorare, la grandezza del Cristo trafitto per almeno due ordini di motivi: era ebraica di nascita e di formazione e aveva abbracciato in maniera viscerale il credo marxiano diventando in breve tempo  attivista politica di primo piano del PCI. 


     Sono parole e sensazioni che ti tornano prepotentemente alla memoria nell’osservare questo incredibile crocifisso ligneo che, entrando nella chiesa matrice di Taurianova, trovi collocato in modo umile e quasi anonimo all’inizio della navata di destra e al quale non si riesce ancora a dare un autore, sebbene don Mino Ciano, parroco della stessa chiesa, propenda a pensare che sia di scuola e di mano altoatesine.

   Non ho competenze di critica d’arte né, almeno per il momento , altre informazioni. In compenso disponiamo tutti di due elementi di valutazione che possono contribuire a tracciare le linee semplici e scarne di una vicenda artistica singolare: il primo concerne la storia minima della sua collocazione all’interno della chiesa; il secondo riguarda la morfologia di questa opera d’arte che la rende unica e irripetibile pur tra tantissimi esempi, anche molto pregevoli e censiti come beni artistici, di manufatti lignei o meno dislocati nella stessa città o altrove.

   Le scarne notizie che è possibile attingere fanno pensare che questo Crocifisso abbia posto la propria dimora in questa chiesa dopo la ricostruzione di essa conseguente al terremoto del 1908 e che sia stato collocato subito nell’area presbiterale e quindi davanti alla parete absidale di destra ( com' è possibile osservare nella foto a fianco), lasciando il posto centrale sull’altare maggiore alla statua della Madonna della Montagna, presente già nella chiesa distrutta da oltre un secolo. Nel 2024, in concomitanza con i lavori di realizzazione del pregevole mosaico che oggi ricopre l’intera parete absidale e che riprende tipologicamente quello preesistente che ne adornava già la cupola, il Crocifisso venne spostato nella sua attuale collocazione, all’inizio della navata di destra della Chiesa. Tale spostamento quanto meno ha consentito e consente a tutti coloro i quali entrano nell’edificio sacro la visione ravvicinata e diretta sicuramente di un capolavoro, non tanto nei suoi stilemi scultorei e plastici, che non sono declinati in fogge particolari ascrivibili a questa o quella corrente artistica, quanto in un insieme incredibilmente armonico che produce una sensazione palpabile di bellezza e di emozione allo sguardo attento del visitatore. 

     Chiunque lo abbia scolpito, sicuramente al di fuori di ogni schematismo di bottega, è riuscito infatti a fornire di vita palpitante ed eloquente questa statua, della quale possiamo rilevare l’equilibrio assoluto delle proporzioni nel rappresentare le membra del Cristo, il lavoro meticoloso nella riproduzione del dettaglio anatomico ( vedansi, ad esempio, la perfezione stupefacente della bocca e dei denti o quella delle estremità inferiori semilogorate dal tocco dei fedeli), la maestria indicibile nella riproduzione espressiva del viso e delle membra. Tutti dettagli – si dirà – presenti in abbondanza in molte altre statue similari, ma rarissime volte coesistenti in modo tanto dinamico nello stesso manufatto, tanto da farlo apparire un unicum. Il che produce un effetto sorprendente: il dolore “umano e divino ” del Cristo esplode con indicibile forza, sottolineata persino dalle lacrime e dalle palpabili gocce di sudore e di sangue che colano dal viso e dalle carni .

    Un crocifisso forse senza autore, sicuramente senza onori, senza orpelli e senza storia che però incarna “ ad alta voce” nella sua povertà una Storia decisamente grandissima ed eterna e parla direttamente al cuore di chi si ferma davanti a lui... 

                                                                                                               Bruno Demasi

giovedì 14 agosto 2025

25 ANNI DI “CITTADELLA DELL’MMACOLATA” NELLA FESTA DI S. MASSIMILIANO KOLBE E SOLO CON L’AIUTO DI DIO ( di Bruno Demasi)

A CERAMIDA DI BAGNARA CALABRA UNA PALESTRA DI FEDE E DI VITA 
 NEL SOLCO DELLA “MILIZIA DELL’IMMACOLATA”

     Non è solo un’oasi di pace, perché del mondo accoglie tutte le angosce e i mille bisogni per illuminarli , è piuttosto un sentiero di fraternità che travalica il luogo in cui sorge e irrora beneficamente tutte le vie della Calabria e non solo. «Una città in cui vivere e pregare insieme, in cui accogliere i pellegrini, in cui praticare la carità. Un centro di fervida evangelizzazione in cui si respirano l’odore della terra e il profumo del cielo e del Paradiso.Questo luogo nasce dopo un lungo discernimento condotto tempo fa grazie alla guida del mio padre spirituale, monsignor Serafino Sprovieri, all’epoca arcivescovo di Benevento. Fu lui a incoraggiarmi a seguire la mia intensa ispirazione di dare vita a un luogo di preghiera con il cuore rivolto a Maria e a Gesù». 

   Con queste poche e scarne parole padre Santo Donato , iniziatore all’alba di questo terzo millennio dei “Piccoli fratelli e sorelle dell’Immacolata” e della Cittadella omonima descrive una grandissima realta di fede e di azione operosa nella fede, da lui fondata inizialmente a Pellegrina di Bagnara e oggi nella frazione di Ceramida dello stesso comune, nella provincia e nella diocesi di Reggio Calabria, come si ha avuto modo di raccontare su questo stesso blog qualche tempo fa ( clicca qui per aprire il link: RICORDANDO MASSIMILIANO MARIA KOLBE, VIAGGIO NELLA CITTADELLA DELL'IMMACOLATA A CERAMIDA (di Bruno Demasi)

 
     Tanto si potrebbe ancora scrivere su cosa sia e cosa rappresenti la Cittadella dell’Immacolata, nata da una ispirazione segnata dall’esempio di San Massimiliano Maria Kolbe, sacerdote e francescano polacco, martire di Auschwitz, fondatore del convento di Niepokalanów a Teresin in Polonia. Idealmente la Cittadella, che la nostra terra ha la fortuna di accogliere e di custodire, ne è la continuazione e i tanti gruppi laicali che l’hanno eletta a luogo di incontro e di preghiera comune agiscono tutti nel solco di quella “Milizia dell’Immacolata” che segnò la vita intera di San Massimiliano , emblema di una fede che rifugge ogni forma di religiosità paganeggiante e trionfalistica, di cui purtroppo sono ancora  molto impregnate tante nostre contrade e tante nostre realtà parrocchiali, per andare al cuore della parola e dell’esempio di Cristo fatto uomo.

   In tal senso questa realtà religiosa fresca e giovane, che unisce sapientemente tradizione e innovazione, diventa ogni giorno di più emblema di quella nuova evangelizzazione e di quella testimonianza di cui si avverte il bisogno crescente in tempi in cui la scristianizzazione sotto varie maschere impregna di sé ogni realtà umana nei nostri paesi.

    Qui  alla Cittadella il profumo buono della terra scaturisce  dagli undici ettari di distesa verde che si affaccia sullo Stretto, dagli ulivi secolari e dalla vegetazione rigogliosa e curatissima che circonda la cappella centrale, le dimore dei frati e delle suore, i numerosi suggestivi luoghi di preghiera e contemplazione. Qui nemmeno un centesimo viene accettato come finanziamento da parte di organismi politici e amministrativi e tutto è dono della Provvidenza. Qui in  ogni stagione avverti  un tripudio di colori e di fragranze. E’ il profumo del cielo e del paradiso  incarnato  dalle persone che lo abitano in una comunità spirituale mista, organizzazione che insieme all’ispirazione a padre Kolbe determina l’unicità di questa realtà in Italia. Essa è composta infatti già da oltre cinquanta fratelli e sorelle in abito azzurro , consacrati a Maria Immacolata, che ti ricordano con il loro sorriso la pace diffusa nel mondo  da Padre Kolbe fino al sacrificio supremo di sè.

   Nel buio di Auschwitz, tra grida soffocate e fili spinati, brillò un gesto di pura luce. Maximiliano Kolbe, frate francescano polacco, durante l’occupazione nazista, rischiò tutto: diede rifugio a ebrei e partigiani, ben sapendo a cosa andava incontro. Aveva origini tedesche, che avrebbero potuto proteggerlo, ma rifiutò ogni privilegio. Era polacco, e da polacco voleva morire. Fu arrestato e deportato ad Auschwitz, dove tra fame, paura e disperazione, continuò a essere un pastore. Condivideva il poco cibo che aveva, pregava con i prigionieri, li consolava. Lo picchiavano per aver aiutato i più deboli. Non si lamentava mai. Non si arrese mai.Un giorno, dopo una fuga dal campo, i nazisti scelsero dieci uomini a caso per farli morire di fame. Uno di loro, padre di famiglia, scoppiò in lacrime. Kolbe fece un passo avanti e disse: «Voglio morire al posto suo».L’ufficiale accettò lo scambio. Fu rinchiuso in una cella senza cibo né acqua. Pregò ogni giorno con gli altri condannati. Uno dopo l’altro morirono… lui fu l’ultimo a resistere. Quando, dopo qualche giorno, i soldati aprirono la cella,  era ancora in piedi. In silenzio. A pregare.Fu ucciso con un’iniezione di acido fenico il 14 agosto del 1941. Morì in pace e senza odio. Il suo corpo insieme a quello dei compagni fu cremato il giorno dopo, proprio in quella festa dell’Assunta che egli tanto amava.

   Oggi, padre Kolbe è un simbolo eterno di amore e sacrificio.Nel luogo dove l’uomo dimenticò l’umanità… lui ricordò al mondo cosa vuol dire essere umano.

domenica 3 agosto 2025

Viaggiatori nella Calabria dell’Ottocento: PHILIP JAMES ELMHIRST (di Rocco Liberti )

     Con quest’agile rivisitazione della permanenza coatta in Calabria, e specificamente nell’attuale provincia reggina, del militare e viaggiatore inglese Philip James Elmhirst Rocco Liberti dà qui avvio a una piccola serie inedita di resoconti di viaggio in Calabria ad opera di alcuni osservatori stranieri. Si trattava nella gran parte dei casi di viaggiatori tanto più interessati alla vita di questo estremo lembo della Penisola nel secolo XIX quanto più influenzati da una sovrabbondante letteratura pseudoromantica che già favoleggiava di una terra strana dominata spesso dal brigantaggio e da contraddizioni culturali talmente abnormi da venire additate sia in altre parti d’Italia sia, appunto,  all’Estero come fenomeni sociali degni di analisi e studio. A maggior ragione dunque questa e le altre preziose pagine del Liberti che seguiranno potranno dare viva testimonianza di un costume geoantropologico straniero che non ha mancato, per la propria parte, di condizionare pesantemente l’immagine di questa terra. (Bruno Demasi) 

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   Tra settembre 1809 e aprile 1810 si è trovato suo malgrado in Calabria un militare inglese, Philip James Elmhirst, ch’era stato catturato e messo in prigione. Pur essendo trattenuto per un certo tempo nei paraggi di Palmi e cioè tra Casalnuovo e Laureana, il suo status di detenuto non gli ha offerto l’agio di muoversi a piacimento. Comunque, ha avuto l’opportunità di visitare qualche centro abitato e di andare a caccia con colleghi francesi. Alla fine, scagliandosi sia contro i briganti che avverso i militari dell’esercito nemico per gli efferati atti spesso compiuti, è stato costretto a riconoscere che gli ultimi «sono dalla parte del popolo, e hanno contribuito alla sua relativa emancipazione».

     Ufficiale della real marina britannica, nato a Londra nel 1781 e ivi morto nel 1865 (secondo qualche autore nel 1866), nel 1805 è rimasto coinvolto nella famosa battaglia di Trafalgar. Incrociando nell’Adriatico tra Zante, Cefalonia e Santa Maura, a un bel momento la sua nave ha fatto naufragio a Punta Stilo. Ha subito cercato a mezzo di una scialuppa di filarsela in Sicilia, ma, per mancanza di acqua potabile, si è visto forzato ad avvicinarsi alla costa. Qui è stato arrestato e posto in quarantena a Bianco. Era il 23 settembre 1809. Il 17 ottobre veniva avviato a piedi alla volta di Gerace, dove gli si è fornita occasione di effettuare un giro in città e fare le sue considerazioni di carattere storico.

    Il 20 dello stesso mese partenza per Monteleone attraverso una plaga che gli ha permesso di esprimere valutazioni di ordine naturalistico. Indi, arrivo a Casalnuovo. Qui ha indugiato appena una giornata, infatti appresso ripartiva per Laureana, dove ha potuto ritagliarsi un quadro della situazione urbana e ambientale: «Città poco importante, situata all’estremità della pianura … Le case sono linde anche se non ben costruite; e sono basse per motivi di sicurezza contro i terremoti. Gli abitanti sono pacifici, laboriosi, allegri e rispettosi gli uni degli altri: con i forestieri sono di una cordialità e di una ospitalità straordinarie».

  Evidentemente, l’accoglienza ricevuta nella magione di Carlo Palmisano dev’essere riuscita convivialmente ottima sotto tutti i punti di vista. Ma di seguito d’altro canto ennesima nota non propriamente benevola: «In città vivono parecchi frati mendicanti ed altri fanatici, che preferiscono vivere del lavoro degli altri piuttosto che del proprio».

    Per Laureana, dove ha preso alloggio nell’abitazione di un avvocato, ha soltanto: «paese situato in una piacevole posizione ai piedi della montagna». Ma non ha dimenticato di accennare all’assalto dei briganti che aveva dovuto subire alquanti giorni prima.

   Nuovo commiato il 22 e il giorno successivo eccolo a Monteleone via Mileto. La lunga sosta ivi gli permette di divagare alquanto in relazione alla crudeltà di francesi e fuorilegge, indole degli abitanti, prodotti, usi e costumi, come pure sulla condizione delle case e sulle festività natalizie. Il tutto si è trascinato fino all’anno susseguente, ma il 10 febbraio 1810 è arrivata alfine l’ora della libertà. Partito di mattina, in serata è pervenuto in quel di Rosarno «una città importante, situata in un’amena posizione lungo la costa, una campagna fertile e ricca d’alberi» e celebrata per «l’eccellente vino» che vi si produceva. Transitando per la Piana ha potuto rivolgere uno sguardo alle distruzioni operate dai terremoti e a trarne delle stime. Il 16 ha toccato Seminara, al cui proposito ancora ha ricordato i sismi e i banditi dai quali il territorio era afflitto. L’11 marzo è giunto finalmente a Villa. Libero a Messina il 21, si è poi imbarcato per Malta, ma solo il 13 aprile ha toccato terra a Cefalonia. Il 15 era ormai in salvo sulla sua nave.

   Nel 1812 si è trovato in Spagna, quindi ha partecipato all’attacco a New Orleans. Per una ferita ricevuta in quel di Trafalgar, oltre la pensione, ha ricevuto in premio a Otonabee mille acri di terreno, ma in seguito è rientrato in patria[1].

    Le peripezie di Elmhirst sono state affidate a una pubblicazione in lingua inglese edita a Londra nel 1819 da Baldwin, Cradock, and Joy col titolo “Occurrences during a Six Months Residence in the Province of Calabria Ulteriore, in the Kingdom of Naples, in the Years 1809, 1810; containing a Description of the Country, Remarks on the Manners and Customs of the Inhabitants, and Observations on the Conduct of the Frenck toward them, with Instances of their Oppression, &c. By Lieutenant P. J. Elmirst, R: N. 8vo, Baldwin and Co 1819[2]. Nel 1998 n’è stata curata un’edizione italiana da M. Martino per l’Editrice Prometeo di Castrovillari con titolo “Occurrences in Calabria nel 1909-1810”. Infine, nel 2010 il lavoro, con traduzione di Giorgio Massacra, è entrato a far parte della pregiata collana diretta da Vittorio Cappelli per l’Editore Rubbettino con intestazione “Nella Terra dei “selvaggi d’Europa”.

     Sulla coeva rivista inglese “The British critic” pubblicata proprio nel 1817 all’opera in questione sono dedicate ben nove pagine. Se ne commenta col riporto di parecchi tratti. Tale si offre come “un piccolo volume modesto, sensato, scritto senza alcuna pretesa di nulla al di là di una semplice narrazione degli avvenimenti”. Elmirst in buona sostanza “ha raccontato la sua storia in maniera semplice, succinta e con pochi dettagli, e questo è il miglior elogio a cui dovrebbe mirare uno scrittore di viaggi, il valore intrinseco della sua storia è un’altra questione”. Il merito, quindi, va attribuito a quel che racconta più che a come racconta[3]

Rocco Liberti

[1] A Naval Biographical Dictionary: comprising the life and services of every living officer in her Majesty’s navy etc., by William R. O’Byrne, Esq., London, John Murray, 1849, p. 336; History of the Count of Peterborough, Ontario, Toronto, C. Blakett Robinson, 5 Jordan Street, 1884, p. 679.
[2] The British critic, new series; vol XI, London 1819, p. p. 67.
[3] Ivi, pp. 26, 75. I riporti non segnalati in nota sono tratti dal volume stampato dalla Rubbettino.

mercoledì 30 luglio 2025

DOPO 90 ANNI LA CALABRIA ANCORA AMARA E DOLCISSIMA DI CESARE PAVESE ( di Romano Pesavento)


   In queste settimane ricorrono i 90 anni dall’arrivo di Cesare Pavese al confino di Brancaleone Calabro ( 4 agosto 1935) e i 75 dalla sua prematura scomparsa (27 agosto 1950): come si fa a non ricordare queste due date tanto importanti non solo per gli studiosi dello scrittore e poeta piemontese, ma anche per la terra di Calabria che a lui deve una visione di sé assolutamente inedita eppure ancora oggi poco conosciuta? Ho accennato a Pavese qualche tempo fa su questo blog ( Clicca qui per aprire l’articolo: UN BRANCO DI ALUNNI DISTRATTI , BRANCALEONE E CESARE PAVESE  ), ma non si può assolutamente trascurare l’immagine emozionante qui colta da Romano Pesavento, che, ricostruendo la vita di Pavese immersa nella realtà di Brancaleone, dà vita a una pagina di rara suggestione. Vi coniuga infatti l’ammirazione per la figura di un  innamorato di questa terra col fascino della  narrazione   di ciò che gli occhi dell’esule vedono  di volta in volta in  flash che sanno di eterno  e fa rivivivere   il rapporto  strettissimo tra un poeta vero e quella terra di Calabria che , malgrado tutto, della poesia sa essere ancora custode fiera e  gelosa. (Bruno Demasi)

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    Passeggiando tra le campagne e le spiagge assolate, tra gli angoli remoti e gli sguardi greci degli abitanti, nel caldo abbacinante estivo di un piccolo paesino, Brancaleone Calabro, situato sulla fascia ionica..., non può che venire in mente agli amanti della letteratura la figura di un intellettuale piemontese: Cesare Pavese. Egli seppe cogliere sfumature e dettagli dei nostri luoghi e della nostra gente ancora attuali, vividi ed efficaci: “La gente di questi paesi è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era greca. Persino le donne che, a vedermi disteso in un campo come un morto, dicono 'Este u’ confinatu', lo dicono e lo fanno con una tale cadenza ellenica che io mi immagino di essere Ibico e sono bello e contento. I colori della campagna sono greci. Rocce gialle o rosse, verdechiaro di fichindiani e agavi, rose di leandri e gerani, a fasci dappertutto, nei campi e lungo la ferrata, e colline spelacchiate brunoliva.” ( lettera alla sorella Maria dal confino, 27.12.1935); ed ancora nella lettera del 9 agosto 1935 indirizzata a Maria ,si legge: “Qui ho trovato una grande accoglienza: brave persone abituate al peggio cercano in tutti i modi di tenermi buono e caro….Che qui siano tutti sporchi è una leggenda, sono cotti dal sole…”.
   
    Indipendentemente da queste riflessioni, per certi versi benevole e lusinghiere, nei confronti della terra di confino, bisogna riconoscere che, come è stato osservato da più parti e come lo stesso Pavese sottolinea più volte, l’approccio, l’incontro con il mondo calabrese non è stato tra i più facili: troppa era la distanza tra il colto, ironico, malinconico intellettuale piemontese e la “selvaticità” del paese di confino. “La mia stanza ha davanti un cortiletto, poi la ferrovia, poi il mare. Cinque o sei volte al giorno mi si rinnova così la nostalgia dietro i treni che passano. Indifferente mi lasciano invece i piroscafi all’orizzonte e la luna nel mare che con tutti i suoi chiarori mi fa pensare solo al pesce fritto. Inutile, il mare è una gran vaccata.” (Lettera a Maria 19.08.1935.)   Eppure il soggiorno forzato nella nostra terra (dal 1935 al 1936) ha rappresentato un fondamentale punto di svolta nella produzione lirico-narrativa del poeta; tale concetto può essere sostenuto e dimostrato con reale evidenza di fatti. “Fatti” letterari e biografici, per intenderci. Ricostruire il percorso umano ed artistico dello scrittore piemontese è possibile attraverso le opere e attraverso – forse in modo anche più fruttuoso – gli sfoghi diaristici, gli scambi epistolari con le persone care della sua vita.

   Pertanto, pur non avendo la pretesa di avventurarci in un’esegesi del pensiero pavesiano, mediante la lettura attenta di questo vasto materiale, anche al lettore meno “istruito” possono presentarsi con immediata vivezza immagini, echi, suggestioni intrisi dei profumi, dei colori dei nostri luoghi, con tutto il bene e il male che ne deriva.

   In alcuni passi dedicati nel carteggio alle nostre zone Pavese, a tratti, manifesta un senso di fastidio – se non di vero e proprio orrore – verso luoghi malsani per la propria cagionevole salute: inverni piovosi e umidi ed estati torride e infestate da voraci e ipercinetici scarafaggi; per non parlare della percezione soffocante della noia, comune denominatore delle giornate di confino, vissuta come un tarlo interiore inesorabile, di sapore dichiaratamente “leopardiano”. 

  Nelle lettere, molto spesso, è ostinatamente mantenuto una sorta di distacco ironico tra la realtà di Brancaleone e lo sguardo “estraneo” e straniero di Pavese; a tratti, questo costante senso di lontananza fa pensare ad un proposito, da parte dello scrittore, di non legarsi ai luoghi del confino, allo scopo di viverli essenzialmente ed esclusivamente come un/ il carcere. In alcuni passi egli ama dipingersi come una figura “epica”, dai tratti tragi-comici, in balià di situazioni che definisce “disgrazie”.Tuttavia,è proprio l’esperienza della solitudine, fino ad allora sempre inseguita come unico “status possibile" nella falsità sociale, a produrre nell’autore il tanto agognato salto qualitativo in campo artistico. In un certo senso,possiamo dire che è proprio l’isolamento di Brancaleone, la riflessione forzata ,la ricerca interiore la “sedimentazione” più o meno consapevole di volti, immagini e situazioni calabresi a produrre quel turbamento interiore foriero di cambiamenti determinanti nell’uomo e nel letterato. Ed è proprio a Bancaleone che Pavese volge il suo sguardo durante la stesura e la rielaborazione delle sue esperienze di confinato nel racconto – fortemente autobiografico – Il carcere.

    La natura, la donna, la povertà e l’ambiguità passionale degli abitanti sono proposti ai lettori come un mistero insondabile e inspiegabile. Forse per capire il/i sentimenti molteplici e contrastanti dello scrittore nei confronti della Calabria si può partire giusto dalla figura di Concia, presenza enigmatica in tutta l’opera e mai disvelata fino alla fine: “La sua fantasia diede un balzo quando vide un mattino su quella scaletta una certa ragazza. L’aveva veduta girare in paese –la sola- con passo scattante e contenuto, quasi una danza impertinente, levando erta sui fianchi il viso bruno e caprino con una sicurezza ch’era un sorriso. Era una serva …È bella come una capra. qualcosa tra la statua e la capra…” ("Il carcere") 

  Concia parla e interagisce poco con gli altri personaggi ; eppure nella sua inafferrabilità, nella sua duplice natura umana e ferina, non solo permea di sé tutta la vicenda, ma addirittura sembra incarnare la complessità di un intera terra : selvaggia e aggraziata, misera e canzonatoria, rassegnata e violenta.Concia è un po’ l’emblema di quella donna-Natura che ritroviamo in tante poesie di Pavese e fa pensare a quelle creature della mitologia greca (satiri, sirene ed altri “ibridi”), capaci di destare ammirazione e panico (dal nome del dio Pan)in chi le osserva ; qualcosa di simile doveva provare Pavese per il suo personaggio, creatura non nata dall’estro artistico ma da un incontro reale con una donna di Brancaleone, il cui nome era davvero Concetta. E anche il mare, il mare ionico, come Concia, costituisce una presenza ossessiva e simbolica con la sua carica di significati ancestrali e terrifici nell’immaginario e nel vissuto dello scrittore: il mare è la vita, la morte, desiderio di fuga e prigionia, è la distesa placida e il pericolo in agguato. Probabilmente sono la “doppiezza”, il “bifrontismo”, la complessità di luoghi e persone a disorientare, intimidire e irritare,a volte, lo scrittore, che, tuttavia, riesce a trasmettere tutto il suo disagio e la sua meraviglia in ogni singola pagina.
   
    In definitiva, le descrizioni di luoghi e visi captano molto più di quanto si possa prefiggere la nuda referenzialità: Pavese riesce a carpire, a tratti, quello che è il mistero, l’essenza, lo spirito del Sud di allora :” Gli antri bui delle porte basse le poche finestre spalancate e i visi scuri,il riserbo delle donne anche quando uscivano in strada a vuotare le terraglie, facevano con lo splendore dell’aria un contrasto che aumentava l’isolamento di Stefano”.“le prime case avevano quasi un volto amico. Riapparivano raccolte sotto il poggio, caldo nell’aria limpida, e sapere che davanti avevano il mare tranquillo le rendeva cordiali alla vista ….” ("Il carcere"). Ombra e luce, attrazione e repulsione si fondono quasi alchemicamente nella tessitura della “poesia racconto” di chi ammetterà in seguito di aver guardato con “occhi tanto scontrosi” alla realtà calabrese. Occhi che di certo non mancano di acutezza, e forse non erano del tutto immuni dalla malìa della nostra terra. 
                                     
                                                                                                                  Romano Pesavento 

mercoledì 23 luglio 2025

IL CULTO DI SAN FRANCESCO DI PAOLA NELLA VECCHIA E NELLA NUOVA OPPIDO ( di Rocco Liberti)

           LA CHIESA DEL BUON CONSIGLIO, DETTA OGGI "CHIESA DI SAN GIUSEPPE"

   Dopo oltre un anno di chiusura la chiesa  dedicata alla Madonna del Buon Consiglio in Oppido Mamertina vede in questi giorni l'inizio di importanti  e onerosi lavori di restauro, resisi necessari , tra l'altro,   per salvaguardarne la stabilità minata da qualche tempo da  insidiose crepe, che interessano la volta della  cripta subpresbiteriale,  e  per il consolidamento del tetto, a sua volta  negli anni oggetto di scompiglio ad opera del Libeccio e del Levante. Una chiesa peraltro  duramente provata nei secoli dai frequenti terremoti, in particolare da quello del 1908, ma tenacemente arroccata nella sua signorile bellezza che i frequenti rimaneggiamenti murari non sono riusciti a guastare . E' un tesoro architettonico che, pur  quasi anonimo nel suo insieme, rivela all' occhio attento una somma di bellezze antiche e meno antiche che coesistono  in una dignitosa  armonia architettonica  di insieme che negli altari centrale e laterali, nei dipinti , nella cripta  dalla volta superba, nel  putridarium limitrofo a quest'ultima  e persino negli annessi laterali dell'edificio  raggiunge  vertici di virtuosismo artistico a lungo studiati dal compianto architetto Antonio Paiano, innamorato di questo complesso sacro, tanto da dedicargli  gratuitamente e volontariamente molti dei sui attentissimi studi  a livello storico-architettonico ed artistico, finalizzati  non solo alla sua conservazione e al suo consolidamento, ma anche  alla sua valorizzazione. Una chiesa  che non soltanto  gli addetti ai lavori, ma tutta la gente oppidese, gelosa custode delle proprie glorie, amano centimetro per centimetro, persino nelle piccole pietre che la compongono e che sa parlare al cuore di tutti il suo straordinario linguaggio muto ed eloquente  più esplicito sui volti di tante statue incredibilmente belle  e di tanti dipinti che ne popolano l' unica e superba navata. Sicuramernte   la più antica di tali statue è  quella di San Francesco di Paola. A questo santo che per moltissimo tempo contraddistinse e impregnò l'edificio sacro  col suo culto indomito, è dedicata questa ricca e informatissima pagina  dello storico Rocco Liberti, già  compresa vari  anni fa, in un contesto più  generale di studio e di narrazione,  sul n. 62 dei "Quaderni Mamertini" ( " Il culto di San Francesco di Paola nella piana di Gioia Tauro" - Settembre 2005). Ringrazio l'Autore per questa ennesimo dono che arricchisce le memorie oppidesi e insieme a tutti mi auguro  vivamente che presto la chiesa  del Buon Consiglio o  di San Giuseppe o di San Francesco da Paola possa essere restituita in sicurezza e in tutta la sua commovente  bellezza al culto cittadino e diocesano. (Bruno Demasi)

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     Stando al Fiore ( P. Giovanni Fiore da Cropani ) ed allo Zerbi (Candido Zerbi), i Minimi si sarebbero installati a Oppido nel 1610 - il Roberti ha indicato invece il 1611 - mercè l’interessamento del vescovo Cesonio e le sostanze del nobile Camillo Sertiano, che vi avrebbe contribuito parzialmente [1]. Come stanno veramente le cose al riguardo lo apprendiamo al solito dalla relazione allestita in successione alla costituzione innocenziana del 1649. Ecco quanto scrivevano a Roma il 25 febbraio 1650 i frati Giacinto Camastra di Maida correttore, Giacomo Filippone di Siderno, Domenico Filipponi di Siderno, Giacomo Lombardo di Oppido:

    Detto Monasterio è situato entro le mura della sudetta Città, la quale (respective) è populosa, ricca, e nobile, e con divotione frequenta à detto luogho; fù fondato, et eretto l’anno 1611. alli 9. d’8bre con l’assenso, et autorità del P. Andrea di Zambrone allhora Provinciale, e del Sig. D. Antonio Cesonio allhora Vescovo della sudetta Città, con obbligho di pagare al sudetto Vescovo la quarta funerale, con assegnamenti di due Capitali di Scudi Romani nove Cento Cinquanta l’uno, fatti dal qm. Sig.r Abbate Scipione Sertiano, e dal qm. Camillo Sertiano ambi fondatori. 
    Ha la Chiesa, ove si celebra sotto il Titolo, et invocatione di S.to Francesco di Paola fornita di mura larghe due palmi, e mezzo, coverta, e lunga palmi Cento; un Dormitorio gionto à mezza fabrica capace di quattordice stanze, che si fornirà fra cinque anni; al presente li frati habitano in una casa di mediocre Commodità comprata insieme con altre Casuccie per dar sito al detto dormitorio Scudi Rom. due Cento Cinquantasette, pauli quattro, e baiocchi cinque, presi dal Capitale di scudi nove Cento Cinquanta assignato per la fabrica solamente sintanto si fornirà, dopo d’applicarsi per vitto, e vestito dal qm. Sig. Camillo Sartiano predetto, quale Casa è posta dentro il Sito, e Circonferenza di detto Monasterio, che fa quasi un corpo con la predetta nuova fabrica. 
    Il numero dei Frati Commoranti in esso fù di Sei, al presente sono Sette cioè il P. fra Giacinto Camastra di Mayda Correttore, il P. Giacomo Filippone di Siderni, il P. Gio: Lombardo d’Oppido Sacerdoti, Frà Carlo Rijtano d’Oppido Chierico, Frà Antonino di Ieraci oblato, fra Gregorio Iermanò di Sinopoli Tersino, con commodità d’un orto d’un quarto di Tumulo di Capacità solo coltivabile nell’Inverno, et il Terzo d’esso doverà essere occupato dalla Clausura da farsi [2]… 


 Una iniziale indiretta nota sull’esistenza di una casa di minimi a Oppido, che la pianta prospettica del Pacichelli poi ci rappresenterà situata nei pressi del castello, come peraltro si evince oggi dai pochi ruderi rimasti, ci viene da un atto notarile, che evidenzia la residenza in città nel 1663 di un correttore nella persona del padre f. Francesco Massone. Ad essa ne segue altra identica, che riferisce come l’anno successivo risultasse correttore invece il rev. f.Silvestro da Roccella [3]. Una piena conferma che all’epoca l’istituzione fosse già una realtà ci deriva dalla relatio officiata nel 1666 da mons. Paolo Diano Parisio, con la quale questi tenne ad informare la S. Sede come al centro diocesi si riscontrassero allora tre conventi maschili, non più due e, cioè, i soliti pertinenti ad osservanti e cappuccini [4]. Sarà lo stesso vescovo nel 1673, con altra relatio, a specificare che in Oppido al pari dei citati ordini monastici, agiva pure quello dei minimi di S. Francesco di Paola, che vi aveva un proprio cenobio [5]. Rinnoverà l’informazione nel 1675, 1678, 1685, 1688 e 1692 il successore mons. Vincenzo Ragni [6]. Allo stesso modo si uniformerà nel 1695 mons. Bernardino Plastina, di Fuscaldo e del seno dei minimi [7].

    Da alcuni rogiti balzano i nominativi degli scarsi frati che, nella 2a metà del XVII sec., erano di stanza nel convento. Nel 1681 risultava con mansioni di vicario il veneziano Michelangelo Gristi, indubbiamente la stessa persona che Michelangelo Grissi, autore in Venezia nel 1707 per Domenico Lovisa dell’operetta La Quaresima perpetua de’ Religiosi Minimi, cioè Istruttioni a’ Novizzi, et a’ Neofiti alla Professione per la retta osservanza del quarto voto, Humiliate al Santo Padre Francesco de Paula Institutore del medesimo [8]. Gristi poteva contare allora appena sull’apporto di un solo sacerdote, p. Domenico da Anoia e su quello di due frati laici, Andrea da Galatro e Agostino da Gerace. Nel 1682 detti figuravano tutti confermati, ad eccezione del sacerdote, il posto del quale era stato preso da p. Vittorio da Roccella. Per il 1608 non è segnalato alcun incaricato. Si avverte solo la presenza di due sacerdoti, i pp. Domenico da Laureana e Francesco da Nicotera e del frate laico Lorenzo da Tropea [9].

      Nel dicembre del 1699 il vescovo mons. Bisanzio Fili, con la sua coeva relatio, volle essere più circostanziato dei predecessori e venne a tramandare un dato, che permette di conoscere in modo preciso l’importanza del convento di pertinenza dell’ordine dei minimi. Scriveva, infatti, quel presule che tal monastero si trovava soggetto alla sua giurisdizione, in quanto non ospitava frati in numero sufficiente [10]. Gli stessi particolari l’ordinario li replicò con le relationes del 1702 e 1705 [11]. Nel 1706 figurava in qualità di vicario f. Gennaro Nani, mentre per il 1710 era dato in tale veste p. Giacinto da Tropea, che godeva della compagnia di altro sacerdote suo conterraneo, p.Placido [12]

    Nel 1715 era vescovo una delle glorie dei minimi, Giuseppe Maria Perrimezzi di Paola. Costui, però, malgrado potesse dire tanto sull’istituzione trovata in diocesi, si limitò a comunicare che, al pari delle altre due, agiva con grande edificazione del popolo. Così avvenne anche con la relatio del 1729, con la quale esternò soltanto che i minimi, come i domenicani di Messignadi, vivevano con buoni costumi e applicavano la regolare disciplina. Nel 1733, classificando piccoli i due cenobi, nei quali risiedevano i citati monaci, aggiunse che, se un tempo aveva scoperto che questi ultimi conducevano una vita meno religiosa ed evitavano d’incitare le folle, non aveva esitato ad intervenire con i superiori, onde trovare un giusto rimedio, non prescindendo anche dall’allontanamento degli stessi e che alla fine l’inconveniente lamentato era del tutto sanato. Al Perrimezzi si deve un mezzo busto in argento del santo di Paola, che sparì in circostanze poco chiare dopo il sisma del 1783 [13].

     Nel 1725 il vicario del conventino era configurato in un primo tempo in persona di p. Giacinto Fossare, quindi di p. Felice Maria Fossare da Oppido. Al tempo si segnalavano anche un f. Giuseppe A. da Zungri ed un Tommaso Corica, che per la devotione, che disse portare, e porta al Glorioso S. Francesco di Paola si è risoluto farsi Religioso terziario di detto Venerabile Convento, per cui venne a rinunciare ai beni terreni. L’anno successivo era dato ancora presente il predetto f. Giuseppe, ma in più si riscontrava un lettore, che rispondeva alle generalità di f. Antonino di Cirò. Il fatto che nello stesso 1725 risaltasse la sepoltura, davanti all’altare del Titolare, del canonico cantore d.Vincenzo Malarbì, deceduto nell’ottobre del 1724, che all’uopo aveva lasciato 100 duc. per celebrazione di messe, ci spinge a pensare o che tale avesse ben meritato per aver svolto qualche particolare funzione nel monastero o che la sua famiglia avesse avuto parte rilevante nella fondazione dello stesso o in lavori eseguiti successivamente ed avesse praticato una specie di protettorato, così come accaduto per i Grillo con i cappuccini e per gli Zerbi con gli osservanti. Per il 1726 è dato avvertire la permanenza a Oppido di altri paolotti, i pp. Francesco Maria La Ruffa, lettore giubilato e provinciale dei minimi e Antonino Gesualdo, lettore di filosofia al seminario. Entrambi sono notati per la partecipazione al sinodo promulgato dal Perrimezzi. Il motivo della presenza, soprattutto del primo, a Oppido nell’occasione è facilmente intuibile. Nel 1727 risulta ancora vicario il predetto f. Felice Maria Fossare [14]. Durante il vicariato di p. Reginaldo Madrucci, nel 1741, ancora un esponente della famiglia Fossare, il magnifico Carlo, figlio del notaio Domenico, risolvette di lasciare il secolo e farsi frate minimo e lo fece, è detto nel relativo rogito, come ispirato da Dio [15]. A metà del secolo, proprio nel 1750, il convento sicuramente dovette allargare i termini della sua importanza. Ce lo conferma chiaramente la lista di ben 6 persone presenti all’epoca. Erano il vicario p. Giovanni Rangoni, i sacerdoti pp. Agostino Conforto, Marco Mancuso, Gaetano Anania ed i frati laici Gregorio di Bagnara e Antonio Giuseppe da Zungri [16]. Del Mancuso troviamo tracce fino al 1758 nei registri parrocchiali. 

   Mons. Ferdinando Mandarani dedicò ai minimi un’intera pagina della sua relatio nel 1751, dove venne a trattare esclusivamente della liceità o meno di consentire alle fondatrici od alle mogli dei fondatori l’ingresso nei loro chiostri, cosa che allora si pretendeva, non essendo stati indicati espressamente i conventi dei paolotti nella recentissima costituzione papale de clausura Virorum Regularium. Secondo quanto si stimava, era consentito che tali persone potessero accedere nel luogo monastico facendo a meno del Privilegio Apostolico. Era sufficiente al proposito l’esibizione di Lettere Patenti rilasciate dal padre generale dell’ordine, dalle quali poteva ben rilevarsi la coniunctio, et descendentia dai fondatori. E se non era lecito trovarsi alcuna chiesa od oratorio, a cui si pervenisse direttamente per l’esercizio delle pie opere, era tuttavia permesso arrivare fino ai dormitori dei frati, all’orto ed alle officine. Tutte queste pretese risultavano avvalorate da varie considerazioni. Per prima cosa si sosteneva che il papa ogniqualvolta aveva parlato dei regolari nel loro complesso non aveva mai esteso il suo dire ai minimi. Quindi, si mettevano le mani avanti dichiarando che la questione delle fondatrici era stata già affrontata in chiari termini nel corpus degli statuti dello stesso ordine. Il Mandarani si espresse a riguardo affermando di credere che tale argomento riuscisse del tutto rovesciato rispetto alla lettera ed allo spirito della citata costituzione, ch’era stata concepita con rilevantissime clausole e deroghe e tenne ad assicurare i superiori che la sua azione rimaneva ben salda ed ancorata a ciò ch’era stato da loro prescritto [17]. Che il Mandarani ed anche i predecessori tenessero in gran conto il più santo dei Calabresi è provato dall’esistenza nel 1769 nella cappella vescovile di un quadro ornato con cornice di legno dorato di S. Francesco di Paola, che, assieme ad altro raffigurante S. Giuseppe, facevano da corona a quello della Madonna, che troneggiava in mezzo [18]

  Un rogito dell’anno 1768 ci fa partecipi di un singolare episodio, al centro del quale si venne a trovare un frate del conventino oppidese, p. Giacomo Anania. Il 7 luglio di quell’anno Caterina Latorre di Messignadi si recò dal notaio e, per discarico di sua coscienza, volle che venisse registrato un evento in cui, suo malgrado, era stata coinvolta. Il giorno 1 la predetta stava in uno stabile di c.da Gurna, quando delle voci concitate ne attirarono l’attenzione. Fattasi presso per vedere cosa succedeva, le si parò innanzi il p.Anania molto pallido con volto cadaverico, ma non rese conto di nulla. Apprese dopo da Giuseppe Lumbaca e dal di lui fratello ch’era scoppiato una lite tra detto frate ed il sac. d. Vincenzo Malarbì. Questi, apostrofando l’altro con parole ingiuriose come cornuto, malandrino, gli tirò un colpo di ronca quasi per tagliargli la testa, al che il malcapitato proruppe in un becco cornuto mi ammazzasti. Ciò accaduto, si diede corso ad una causa criminale presso la reverenda curia e la donna, com’era logico attendersi, dovette rispondere quale teste, ma, prima di potersi esprimere liberamente, venne subornata dai parenti del Malarbì, in particolare da rev. d. Domenico Gagliardo di Messignadi, Giuseppe Malarbì fratello dell’offensore, Elisabetta Martello Donna di casa ed Antonio Aracri zio del medesimo e fu convinta a testimoniare il falso. La sua condotta le valse l’offerta di un quartuccio di olio, fave ed altro, nonché di 5 carlini [19].

     Nel 1764 era correttore p. Gaetano Anania. Altri frati risultavano Marco Mancuso, Raffaele Grande, Tommaso Riolo, Luigi Labuccetta e Giuseppe da Zungri. Quattro anni dopo il primo figurava in veste di Vicario del Collegio Provinciale e di Procuratore della Fabbrica del Convento [20]. Ancora un rogito fa presente nel 1773 il nucleo dei frati minimi ricettato in Oppido. Si rilevavano al tempo i pp. Giuseppe Pratticò correttore, Ignazio Gasparro definitore, Giuseppe Alessi, Giuseppe Mazzitelli, Giuseppe Laganà ed il laico f.Giuseppe da Zungri, di certo lo stesso che Giuseppe Antonio, varie volte citato [21]. Nel 1784 si configurava la presenza di 6 paolotti, cui assicuravano una tranquilla esistenza 40 fondi rustici. Tali fondi, che facevano assegnare il cenobio in 2a posizione rispetto a quello di Seminara, vantavano un’estensione di 138 tomolate e si ponevano al 5° posto dopo gli altri di Borrello, Seminara, Rosarno ed Anoia ed un valore di duc. 236,26, che permettevano di risalire al 4° [22]
   
   Distrutto come gli altri dal sisma del 1783, il convento dei minimi fu ripristinato nella Oppido nuova, ma ebbe vita breve essendo stato soppresso dai francesi con decreto del 7 agosto 1809 [23]. I frati, di cui risultava superiore nel 1801 f. Andrea Grillo e priore nel 1804 un f. Giovanni non meglio identificato[24], ebbero assegnato in c.da Tuba un suolo, quello stesso dove ora sorge la chiesa di S. Giuseppe, nel quale vennero a sistemare, come si legge in una lettera del 1868 indirizzata da Marcello Grillo al papa e conservata nell’archivio di curia, una Cappelluccia di tavole, nella quale officiavano quei Religiosi e che si tenne aperta al Culto Divino per molti anni dopo la loro espulsione. Partiti i frati, nella cappella s’intruppò una congrega di laici avente titolo della Santissima Annunziata (1816), ma successivamente, passata quest’ultima ad una chiesa nuova di zecca, certamente l’Oratorio, la costruzione fu liquidata ed il materiale di risulta venne acquistato dal padre del detto Grillo, che se ne servì per edificare una casa di campagna [25]

 Un’interessante conferma sul rifacimento del monastero nella nuova sistemazione urbana ci viene da una relazione che il vescovo Alessandro Tommasini spedì nel 1799 al marchese di Fuscaldo a Napoli. Vi si legge chiaramente che i Paolotti cominciano a fabricare, e nell’atto, che fanno il commodo per la loro abitazione, affittano i bassi, e le botteghe [26]. Ancora nel 1836 era dato rilevare le fabriche dell’abolito convento de’ PP. Paolini (sic!). Nel novembre, per il muro posto a scirocco, cui si trovavano addossate due beccherie e la pescheria e che minacciava di crollare, il sindaco Fedele Grillo, dietro le proteste degli abitanti, fu costretto a spedirvi un perito, il quale, resosi conto ch’era indispensabile provvedere all’eliminazione del manufatto, considerò in 8 duc. le spese necessarie. All’inconveniente si ovviò a dicembre successivo ed i lavori richiesero tre giorni e 3 operai con esborso di 6 duc. La canna ed un quarto di pietra risultante, del valore di duc. 4,50, venne consegnata, per applicarla alla fabbrica della nuova cattedrale, al vescovo, che l’aveva richiesta [27]

    Malgrado l’annullamento del cenobio decretato dal governo murattiano, il culto per S. Francesco in Oppido non venne certamente meno, anzi, se nella chiesa di S. Giuseppe rimase il simulacro un tempo di proprietà dei paolotti, nella prima chiesa adattata a cattedrale risultava nel 1821 una cappella in suo onore, cappella, che venne confermata anche nel nuovo tempio inaugurato nel 1844 [28]. Dal manoscritto Grillo del 1860 abbiamo infatti che, nella seconda cappella a destra per chi entrava appositamente dedicata si trovava sistemato un quadro del santo di Paola opera dell’artista Ulisse Griffon [29], sicuramente lo stesso che ancora oggi è posto nella sala d’aspetto dell’appartamento vescovile. Molto probabilmente, doveva esserci anche quel San Francesco ligneo opera di maestro serrese, che fino agli anni ’50 era abbandonato in un vano del seminario, e che nello stesso periodo l’amministratore apostolico mons. Nicodemo concesse alla chiesa di S. Giuseppe e che il popolino, sulla scia della tradizione comune a tanti altri posti, reputava autore di solenni e salutari bastonature. Un nuovo simulacro in gesso, acquistato subito dopo la conclusione della IIa guerra mondiale dal vescovo Canino, è tuttora allocato in una nicchia della cappella del S.mo Sacramento della cattedrale. Si trovano ancora nei locali della sede diocesana la statua prima ospitata in S. Giuseppe ed un grande quadro su tela. La prima si conserva in seminario, il secondo è stato affisso sulla parete di destra del salone della cattedrale. Nel 1860, come si legge nel prefato manoscritto, si svolgeva la festa del Taumaturgo di Paola dopo il 2 aprile, a cura del Procuratore D. Francesco Italiano, con la questua [30]. Nel 1929 esisteva ancora in Oppido un mendicicomio intitolato Ricovero S. Francesco di Paola fondato vari anni prima dalla nobile Beatrice Grillo, la cui famiglia, che a tutt’oggi custodisce un dipinto, era molto devota del Santo.

    Sono molti in Oppido a rimembrare la festa, che, soprattutto negli anni tra il 1930 ed il 1940 si celebrava in ogni 2^ domenica di luglio dai responsabili della chiesa di S. Giuseppe, con pulpito tenuto da valenti paolotti ed inni e canti profusi dal maestro Saverio Lentini all’organo e dalle cinque figlie, le cui voci assai intonate estasiavano e indirizzavano al canto i fedeli. Dalla memoria dell’amico Antonio Epifanio, che fu tre anni con i frati a Paola e ch’è appassionato frequentatore del santuario, siamo stati spinti a contattare la famiglia Lentini e dalla signora Ines, che ricorda quasi alla perfezione musica e parole, abbiamo ottenuto due inni in voga nel periodo citato e ch’è il caso di far conoscere in quest’occasione. Eccoli di seguito:


O vegliardo Paolano, 
gloria e onor dei Calabresi, 
ti onoriamo Oppidesi 
per Tua grande santità.
 
Inni cantiamo a Te che sei beato 
nello splendore della carità. 

Tu nascesti dopo un voto 
dai Tuoi umili parenti 
e quantunque indigente 
Tu gridasti: Carità! 

Inni cantiamo ecc. 

Giunto agli anni novantuno 
la Tua morte fu un sorriso. 
Ben ti accolse in Paradiso 
 la Divina Trinità.

Inni cantiamo ecc.
_______ 

O Francesco di Paola, un inno 
a Te innalzano i calabri liti, 
misto al canto dei sacri levìti 
il lor cuore consacrano a Te.

                              Tu benigno ne guarda e il sorriso 
                              di Tue grazie concedi a chi geme, 
                            fa che l’alme ritrovin la speme 
                       nelle amare tempeste del cor!

Le lor ansie le madri pudìche, 
i sospiri le giovani spose, 
le fanciulle le candide rose 
del lor core consacrano a Te.

                   Tu benigno ne guarda ecc.
 
Dalle valli ubertose, dai colli 
e dai campi baciati dal sole 
qual profumo di olenti viole 
…. emana a Te.

                       Tu benigno ne guarda ecc.. [31]



                                                                                                    Rocco Liberti
________________________
[1] FIORE, Della Calabria …, II, libro II, cap. VIII, p. 424; C. ZERBI, Della Città, Chiesa e Diocesi di Oppido Mamertina e dei suoi Vescovi, Roma 1876, p. 294; ROBERTI, Disegno …, p. 159. 
[2] ASV, Relationes …, f. 502. Il Martire (D. MARTIRE, Calabria sacra e profana, II, Cosenza 1878, p. 465) indica il fondatore del convento come Andrea di Tropea. 
[3] SASP, Libro del prot. di nr. Camillo Vistarchi, S. Cristina, a. 1664. 
[4] ASV, Relationes ad Limina, Oppido, 598 A, vescovo P. Diano Parisio, a. 1666, f. 126v. 
[5] Ibidem, a. 1673, f. 142v. 
[6] Ibidem, vescovo V. Ragni, aa. 1675 f. 176v; 1678 f. 155; 1685 f. 157v; 1688 f. 163; 1692 f.171. 
[7] Ibidem, vescovo B. Plastina, a. 1695, f. 1°. 
[8] ROBERTI, Disegno …, pp. 643-646. 
[9] SASP, Libri del prot. dei notai Teodosio Fossare, Santa Cristina e Giuseppe Fossare, Oppido. 
[10] ASV, Relationes …, vescovo B. Fili, aa. 1699, f. 183; 1705 f. 199v. 
[11] Ibidem, a. 1702 f. 190; a. 1705, f. 199v. 
[12] SASP, Libri del prot. dei notai Giuseppe Vistarchi, Santa Cristina e Nicola Francesco Zerbo, Oppido. 
[13] ASV, Relationes …, vescovo G. M. Perrimezzi, aa. 1715 f. 206; 1729 ff. 238v-239; 1733 f. 248v; ZERBI, Della Città…, p. 354; AVO, Origine della Diocesi di Oppido, ms. a. 1860, pgf. 57. 
[14] SASP, Libri del prot. dei notai Domenico Fossare II, Oppido, a. 1725 e Domenico Romeo, Oppido, a. 1777; G. M. PERRIMEZZI, Prima Dioecesana Synodus, Neapoli 1728. 
[15] SASP, Libro del prot. di nr. Francesco Cananzi, Oppido, a. 1741. 
[16] Ivi, nr. D. Fossare II, a. 1750. 
[17] ASV, Relationes…, vescovo F. Mandarani, a. 1751, ff. 316-316v. 
[18] SASP, Libro del prot. di nr. Diego Francesco Argirò, Acquaro, a. 1769. 
[19] Ivi, nr. Antonio Costarelli, Iatrinoli, a. 1768. 
[20] Ivi, nr. G. A. Tropeano, Varapodio, a. 1764. 
[21] Ibidem. 
[22] PLACANICA, I redditi … 
[23] CALDORA, Calabria Napoleonica…, p. 226. I registri parrocchiali tramandano la presenza in Oppido nel 1801 anche di p. Fortunato Gemma. Sia il sisma che il decreto murattiano fecero sì che molti monaci andassero raminghi a cercarsi una qualsiasi sistemazione. Tra tanti, dagli atti dell’archivio diocesano ricaviamo che il 13 sett. 1785 p. Pietro Mastrodomenico di Cosoleto, d’accordo col parroco di Castellace, chiedeva al re di essere secolarizzato al fine di recare aiuto in parrocchia, non riuscendo nello stato in cui si trovava di veruno giovamento ne per se, ne per il paese, ne per i suoi, mentre in data successiva a detta legge ed a sua norma l’ex-correttore p. Francesco Surace fu secolarizzato, quindi potè essere inviato a fare da economo curato a Sitizano (AVO, fasc. vari). 
[24] AVO, atti vari; registri parrocchiali. 
[25] AVO. 
[26] AVO. 
[27] ARCHIVIO STATO REGGIO CAL. (=ASRC), Inv. 3, b. 110 n. 4809, Demolizione dei ruderi dei padri Paolotti. 
[28] R. LIBERTI, La Cattedrale e l’Abazia, “Calabria Sconosciuta”, VIII (1985), n. 30, p. 90. 
[29] AVO, Origine della Diocesi di Oppido, pgf. 52. 
[30] FIORE, Della Calabria…, p. 424; ROBERTI, Disegno…, p. 159; AVO, Origine della Diocesi…, pgf. 64. 
[31] Naturalmente, trattandosi di canti ricordati sul filo della memoria, qualche verso risulta incompleto e qualche altro, giocoforza, si è dovuto ricostruirlo.