mercoledì 24 dicembre 2025

L'OCCHIO POTENTE ( racconto di Bruno Demasi )


     Non mancava niente a Francisca: aveva una casa bella comoda con un grande basso, una cammara di sopra e un cammarino sotto il tetto in uno dei vicoli più larghi della Tuba; un marito, Geppino, che lavorava come un pedale di tilaro, parlava pochissimo e non aveva vizi, a parte qualche bicchiere di vino la domenica; i baulli pieni di biancheria; un grande cascione in cui non mancavano mai le cose da mangiare e la lettiera del pane sospesa alle travi del basso sempre piena di pani e di biscotti di casa che erano una bellezza. Una cosa però la tormentava da sempre: non riusciva a imparare a memoria le formule e i rituali per precantare e per cacciare il malocchio con piatto, olio e acqua. Più di una volta, per chiudere la gargia alla gente che parlava poi assai male delle donne maritate che uscivano sole allo scuro, aveva trascinato quasi di peso nella cattedrale baracca la notte di Natale il marito, che non frequentava quasi mai la messa, con lo scopo di incontrare lì qualche celebrata magara oppidese che le aveva promesso di insegnarle le formule che, secondo il rituale, dovevano essere imparate proprio quella notte. Ogni volta però si pigliava di nervi e non riusciva mai a ripeterle e a tenerle a mente, si impappinava subito e, arrabbiata con se stessa, lasciava perdere tutto.

     Il tormento tuttavia rimaneva e quando la figlia Cuncettina, che era intelligentissima e aveva le sette bellezze, cominciò ad andare per i sedici anni, prese a farle ogni giorno la mattana per convincerla a imparare a sdocchiare e a precantare. Inizialmente, e per buoni due anni, la ragazza si impuntò peggio di una mula, rifiutandosi categoricamente con grande rammarico e rabbia della madre e non ci fu verso di convincerla a memorizzare il rituale. Quando però , nel 1925, sul filo dei diciotto anni ella si innamorò di Lorenzo, un giovane della sua età che inizialmente sembrava darle fortissima udienza, ma che nel giro di qualche mese si ingardasciò con una ricchissima femmina molto più grande di lui, grassa e più brutta dello scuro, la povera ragazza cominciò a soffrire assai e a diventare intrattabile.

- Sei docchiata, ancora non l’hai capito? – le sparava a bruciapelo la madre ogni sera di nascosto da Geppino – Ancora non ti sei resa conto che l’occhio della gente è potente e ti ha cacciato dalle mani il giovine che ti piaceva.

- Lasciami in pace – urlava focata Cuncettina.

- Se pigliavi le mie parole – riprendeva con insistenza la madre – a quest’ora l’occhio a te non poteva fare niente e in quattro e quattr’otto ti potevi alleggiare da sola mandando dove meritano tutte queste bagasce che non hanno niente da fare e badano a buttare secche le figlie di mamma belle e oneste come te!

     E dalla oggi e dalla domani, Cuncettina finalmente si convinse ad accettare le parole materne e Francisca si mise subito in moto per scoprire quale tra le tante magare più conosciute di Oppido detenesse la formula migliore e più efficace contro il malocchio. Con la scusa di avere un morbo di testa e di avere bisogno di essere alleggiata cominciò a fare il giro delle sdocchiatrici più anziane insieme alla figlia. Uscivano di casa appena faceva scuro con un mandile ciascuna sulla testa per non essere riconosciute dalla gente che non si fa mai i cazzi suoi. 

   Le varie donne visitate bisbigliavano le formule in modo incomprensibile, ma comunque dalla loro lunghezza si capiva che ognuna aveva la propria. La tecnica che usavano invece era uguale per tutte, al massimo variava il numero delle gocce d’ogghio d’aliva che ogni dito mignolo faceva cadere nel piatto mezzo pieno di acqua. C’era chi ne faceva cadere tre o quattro da un’altezza massima di dieci centimetri, chi ne usava invece tassativamente cinque fatte cadere da 20 centimetri e passa, chi, come la più anziana e rinomata tra tutte, avendo avuto una botta di sangue spuria, si ritrovava con la mano offesa e non riusciva più a governare il movimento del dito mignolo che andava per i fatti suoi e faceva cadere dentro o fuori dal piatto un numero imprecisato di gocce d’olio che variava da due a ventidue e passa.

- Non è cosa…! – disse una sera Francisca rientrando furtivamente a casa con la figlia – Con queste bagasce il morbo di testa se non ce l’ho mi viene davvero! Dobbiamo trovare una scusa per farci dire tutta la giaculatoria che recitano, così vediamo qual è la migliore, e poi per capire quante devono essere le gocce d’ogghio e i movimenti giusti da fare se ne parla…

     L’indomani mattina, appena Geppino svoltò l’angolo per andare al lavoro, mamma e figlia si misero all’opera: prelevarono dalla giarra un cafiso d’ogghio buono e riempirono quattordici fiaschi di quasi un litro, uno ciascuno per le quattordici magare più rinomate in tutto il paese; li tapparono a regola d’arte e li posarono sotto la caddara nel basso. La sera stessa ne presero uno ciascuno e uscendo lo nascosero sotto il mandile. E incominciarono il giro delle prime due magare: entrando nella casa, senza grandi preamboli offrivano l’olio in cambio della recita ad alta voce della formula dello sdocchiamento, poi si procedeva alla pratica; infine si salutava e si usciva. Cuncettina stava con le orecchie aperte per memorizzare subito quanto ascoltava.

     Impiegarono sette sere per fare il giro e l’ultima sera, rientrando a casa, tirarono le somme di tutta l’operazione: tutte e quattordici le esperte erano state unanimi nella diagnosi: Francisca doveva essere precantata assai e non poco in quanto aveva un tremendo morbo di testa causato dall’occhio potente di una imprecisata vicina di casa. Una volta assodato questo, tra tutte le esperte solo una rifiutò di esprimere la formula ad alta voce perché, a suo dire, valeva almeno mezzo cafiso d’ogghio e non un fiasco di meno di un litro; ben nove invece risultarono abusive perché, anzichè recitare una formula precisa durante il rituale, balbettavano sillabe in libertà a mo’ di cantilena, che non avevano nessun significato; una, essendo muta, si sforzò a lungo di farsi capire , ripetendo a modo suo la formula per quattro volte, ma Cuncettina non capì il resto di niente. Restarono in tre, le più serie, che in qualche modo fecero intendere la loro formula raccomandandosi ripetutamente di non farne mai parola con nessuno. La prima delle tre , che abitava in una barracca del rione Caciagna, dopo aver recitato insierme all’inferma di morbo di testa una lunghissima preghiera sbadigliando dieci volte in un minuto, fu Sarina La Bifara, che recitò con chiarezza a Cuncettina tutta la lunga formula di scongiuro che si concludeva significativamente con un’invocazione reiterata parossisticamente per molte volte con accompagnamento di mano scossa a destra e a sinistra:

Quattru pani e cincu pisci
Occhiu bruttu scumparisci!

     La seconda fu Maddalena Larosa che invece intervallò una lunga preghiera, improvvisata sicuramente sui due piedi, con un ritornello ripetuto ogni mezzo minuto che si concludeva così:

Occhiu potenti, occhiu picciusu 
Vatindi fora di carchi pertusu! 
Vatindi fora, dassila stari 
Ca ‘sta cristiana nd’avi a sanari.

 
   La terza fu Mararosa Brogna , anch’ella dimorante in una baracca verso Zigunadi, che fu la più onesta e seria anche se molto teatrale: appena l’inferma di testa con la figlia si accomodarono nel suo ufficio, cominciò infatti a far voci e a lanciare anatemi contro un nemico invisibile che mostrava di scorgere ora sotto il letto, ora dietro un vecchio casciabanco, ora nella colonnetta a lato del letto, che aprì e chiuse decine di volte facendo intravvedere chiaramente un vecchio e puzzolente càntaro ivi custodito, e dando ovunque botte sonore con un bacolo di castagno nodoso e leggero.

     Alla fine sembrava individuare qualcosa sul pavimento di tavole e vi si avventava dando ripetuti colpi nello stesso punto, come per uccidere l’essere invisibile. A tal punto, stanca e sudatizza, faceva sedere l’inferma, con la sinistra prendeva il piatto pieno d’acqua e cominciava a intingere il mignolo della destra in una chicchera piena d’olio, poi spargeva con lo stesso dito alcune gocce d’olio nell’acqua: se le stesse confluivano tra loro, riunendosi in grosse chiazze, l’occhio era in via di coglimento; se, invece, si frammentavano in mille gocce sparse, l’occhio era presente e occorreva ripetere l’operazione più e più volte fino a quando le gocce oleose non iniziavano a riunirsi…

     Mararosa a ogni giro di piatto emanava sonorissimi sbadigli misti a lamenti, che venivano sentiti dalle baracche vicine in rispettoso silenzio, e recitava a voce bassissima la sua lunga giaculatoria, intervallata almeno tre volte per ogni giro da un ritornello che poteva essere ascoltato da tutti i presenti e, meglio ancora, ripetuto in coro anche da loro:

Occhiu, malocchiu, 
occhiu di mari 
a ‘sta cristiana 
dassala stari! 
Occhiu picciusu, 
occhiu di mpami, 
vattindi via, 
nesci di ccani!! 
E quandu nesci, 
quandu sparisci 
a nui ndi resta 
lu pani e li pisci…


     Si vide subito che la Brogna sapeva il fatto suo e che sicuramente la formula da lei recitata a vuci vascia vascia , a giudicare dal ritornello, era la più completa e quindi la più efficace. Francisca e Cuncettina con uno sguardo d’intesa si capirono al volo e pigliarono subito accordi per la trasmissione segreta dell’intera formula nell’ormai vicina notte di Natale nella cattedrale di tavola. Di nascosto da Geppino una mattina presto madre e figlia le portarono mezzo cafiso d’olio per la frittura delle zeppole, un panaro pieno di grosse uova di gallina e di papara, una limba colma di liva di giarra , una cartata di carne salata e tre grandi schiocche di fichi secchi. 

     Francisca non stava più nella pelle insistendo per convincere con le buone e con le cattive il riluttante Geppino ad accompagnare madre e figlia alla messa di mezzanotte. La vigilia di Natale sbrigò tutto quanto in un baleno: persino le zeppole alle due del pomeriggio erano state fritte e Geppino nella distrazione di moglie e figlia ne consumò mezza nzalatera insieme a vari bicchieri di vino prima di uscire per concedersi una partita a Patruni e Sutta nella cantina di Onna Gianna.

     Alle tre del pomeriggio madre e figlia, recando due sedie ciascuna, si fecero aprire la cattedrale di tavola dal sacrestano, a cui avevano regalato una soppressata, posarono le sedie con le nzinghe che erano tutte occupate per loro due, Geppino e la Brogna in un angolo arribbato sulla destra e poi se ne tornarono a casa in attesa che facesse notte.

     Si fece scuro e Geppino non era ancora rientrato: Francisca fremeva. Quando sentì la prima campana della messa, si mise il mandìle sulla testa e arrivò col cuore in gola fino alla cantina di Onna Gianna, bussò dalla porta laterale che si apriva sul vicolo e dopo varie insistenze la padrona aprì:

- Che catinazzo volete a quest’ora di scuro? 
- Geppino qua è ?– domandò con un filo di voce Francisca, scoprendosi appena il volto 
- Qua è, ma si è combinato per le feste per i lavoranti! Se lo volete, trasite e ve lo prendete voi, se no per me può passare la nottata di Natale pure qua…

     Francisca si strinse il mandile al viso per lo scorno ed entrò. Geppino, sbalasciato su una sedia e appoggiato al tavolo, russava come un cignale e non dava altri segni di vita. La vinaia gli versò sulla testa una piccola cannata di acqua fredda.., ma niente! Poi le due donne lo presero per le ascelle e lo accompagnarono alla porta laterale. Appena sentì l’aria fredda sul viso, l’uomo si svegliò tossendo. Poi si mise a ridere come una scimmia, mentre Francisca, coprendosi bene il viso per lo scorno e santiando, lo incitava di brutto a camminare.

- Guarda che mi ‘mbatte proprio la notte di Natale! – borbottava la donna esacerbata - A quando a quando quella povera figlia poteva’ mparare l’arte di alleggiare, questo fetuso mbriacone ci fa fallire tutto, ma se la vedrà con me per quanto è vera questa santa notte!

     Arrivarono, come Dio volle, a casa e Geppino si sbracò su una cascia a bocca aperta riprendendo a russare. 

- Andiamo solo noi in chiesa! – disse Cuncettina indispettita. 
- E che sugnu vedova e tu orfanazza ? Se andiamo sole alla messa della notte, da domani in poi mamma e figlia per la gente diventiamo due bagasce – rispose tra sé e sé Francisca.

     Studiarono di riempire una limba d’acqua gelata e la misero fuori. Dopo mezz’ora alzarono con le buone e con le cattive il povero Geppino, lo fecero uscire e lo costrinsero a immergere il viso nella limba una, due, tre, quattro volte, finchè non si mise a tossire guardandole con gli occhi di fuori. Poi lo asciugarono alla meglio e partirono per la chiesa reggendolo come potevano ai fianchi. 

   La cattedrale di legno era quasi piena e l’arciprete voleva erba per cento cavalli per lo scalafascio che c’era. Individuarono miracolosamente in un angolo Mararosa Brogna coperta da una pesante mantella che li aspettava e , mentre Geppino ricominciava a ridere peggio di prima, raggiunsero le quattro sedie con le nzinghe rimaste per fortuna vuote. Si sedettero: marito e moglie davanti, Cuncettina e Mararosa dietro di loro. Geppino continuava a scatasciare risate una dopo l'altra, punzonato sotto matafaro ai fianchi da Francisca, mentre Cuncettina e la magara cominciavano la lezione che si protrasse sottovoce per tutta la durata della messa e che fu interrotta solo per un attimo da Geppino che si era addormentato di nuovo pesantemente e, svegliato bruscamente dalle campane del Gloria, si era scosso e aveva cominciato a battere le mani come un pazzo. La moglie e la figlia lo immobilizzarono immediatamente e tutto filò poi liscio fino alla fine, quando Mararosa, dopo le ultime raccomandazioni operative all’allieva, domandò:

- Ma che aveva tuo padre? 
- Non lo vedete? – rispose sottovoce Cuncettina – si è addubbato a vino come una scimmia nella cantina di Onna Gianna proprio stanotte , l’errimo!
- No! Non è ‘mbriaco! – sentenziò la magara – E’ docchiato, anzi assai docchiato, fuoco che abbruciasse quella caiorda che l’ha buttato sicco! - Siete sicura, Mararosa? – intervenne allarmatissima Francisca. 
- Come no? Cuncettina, quando arrivate a casa, alleggialo come ti ho insegnato io. E tu, Francisca, prenditi un bacolo e se senti movimento dentro la cammara durante lo sdocchiamento, mina paro!

     Le due donne eseguirono le istruzioni della magara per filo e per segno: appena giunti a casa, trascinarono dentro Geppino, che aveva ripreso a ridere, e lo fecero sedere sulla cascia. Poi Cuncettina sotto lo sguardo vigile della madre partì col suo primo sdocchiamento vero e proprio, iniziando con una serie lunghissima di sbadigli preliminari mentre preparava il piatto, una limba d’ acqua e un’ogghiera colma. Quando afferrò il piatto con la sinistra e lo posizionò sulla testa del padre, la mano le andava naca naca per l’emozione e così anche il mignolo della destra con cui fece cadere nel piatto le prime gocce d’olio. Appena le stesse piombavano nell’acqua sparavano in mille scintille…

- Aveva ragione Mararosa! – esclamò trionfante la madre – Tuo padre altro che lofio di vino, è docchiato, anzi docchiatissimo!

     Il primo giro di piatto servì – si può dire – solo per una prima diagnosi. Gli altri che seguirono dovevano essere curativi, ma dopo sei tentativi con relative preghiere, sbadigli e attentissime ricognizioni col bacolo, la situazione restava immutata: ogni goccia d’olio, cadendo, si frammentava in mille pezzi che non ne volevano assolutamente sapere di ricomporsi. Urgeva continuare e continuava anche l’emozione e il tremore di mano di Cuncettina che era diventata livida e con la mascella anchilosata a furia di sbadigli, mentre le mani le ballavano la tarantella.

     Al dodicesimo giro bisognò fermarsi, come prescriveva tassativamente il rituale, e le due donne esauste lasciarono Geppino che dormiva sbracato sulla cascia e andarono a buttarsi sul letto di sopra in preda a un sonno piombigno.

     L’indomani mattina Francisca fu la prima a svegliarsi e ad alzarsi: Geppino e la figlia, vestiti com’erano la sera prima, continuavano a dormire pesantemente e ne approfittò per uscire e correre alla barracca di Mararosa, recandole ammucciata sotto la mantella una pezzotta di caso frisco che aveva lasciato per il giorno di Natale.

- Che fu? – eclamò allarmata Mararosa appena la vide. 
- Lasciatemi stare! – rispose pietosamente Francisca – Geppino è rimasto docchiato pure dopo dodici passate di piatto! Non è cosa giusta! - Non è che Cuncettina ha dimenticato qualche parola, no? 
- Che Catinazzo dite, Mararosa? – esclamò risentita Francisca - Vedete invece qualche riparo perché quella povera figlia non sa più che fare! 
- Arricchiate a me – sibilò in un soffio la magara – pigliate questa boccetta e appena arrivata a casa, prima che Cuncettina ricominci con piatto e olio, la gettate tutta sulla testa a vostro marito…
 
   Appena arrivò a casa, vide Geppino che continuava a russare smandalato sulla cascia come lo aveva lasciato e gli versò immediatamente sul viso e sulla testa il contenuto della boccetta, spandendo intorno un grande feto, ma l’uomo non si svegliò. Quindi preparò altra acqua e altro ogghio e salì nella cammara dove Cuncettina ancora dormiva; la svegliò facendo vociate e la costrinse a scendere e a riprendere daccapo il lavoro di alleggiamento del padre. Ci vollero otto nuove passate di piatto e centinaia di sbadigli prima che Geppino spalancasse occhi e bocca e domandasse a bruciapelo a moglie e figlia:

- Che fu?

     Tutta la triste vicenda fu immediatamente risaputa nel vicolo e dal vicolo si diffuse in poche ore in tutto il paese. Si raccontava in giro che Geppino era quasi morto a causa dell’occhio potente di Onna Gianna, ma poi era stato letteralmente resuscitato in virtù delle grandi opere eseguite da Cuncettina con piatto e ogghiera. La sua rinascita a nuova vita inoltre - si continuava a sussurrare in giro - lo vedeva ormai allergico anche al vino che fino a qualche giorno prima gli faceva tanta gola...

     Alle quattro del pomeriggio bussarono alla porta di Cuncettina. Era la moglie di Saveri Pinna che sorreggeva il gigantesco marito ciondolante . Lo fece entrare a forza col suo terribile feto di vino e lo mise a sedere come un pupo sulla solita cascia che già sorreggeva la limba dell’acqua e l’ogghiera. Saveri alternava balbettii confusi a terribili frasi urlate non si sa contro chi, tanto che Francisca, per il si e per il no, andò a prendere il bacolo che teneva nascosto dietro la cristallera.

     Geppino si ritirò nella cammara di sopra e Cuncettina incominciò il rituale con dodici lunghissimi e lamentosi sbadigli. Poi, cercando di tenere a bada il tremore della mano, afferrò il piatto mezzo d’acqua e lo pose salla testa di Saveri che, urlando, con una manata glielo scaraventò a terra facendolo finire in mille pezzi. Francisca, vigilissima, incominciò a dare botte da orbi sul pavimento al nemico invisibile che si stava permettendo di disturbare il rituale di sdocchiamento e Saveri si quetò, consentendo a Cuncettina di riprendere. Le prime gocce d’olio spararono nel piatto come scintille accese, poi , mano mano che il tremore delle mani si calmava, anche le gocce d’ogghio cominciarono a stare ferme e ad allargarsi, mentre Saveri, dopo due grandi sbadigli sentiti anche dai vicini di casa, si addormentò. Appena il trattamento fu finito, Cuncettina e Francisca dissero alla moglie che tutto era passato e che doveva stare attenta e non mandarlo più con le buone o con le cattive nella cantina di Onna Gianna altrimenti l’occhio sarebbe tornato con effetti tremendi. La moglie rispose:

- Non v' allattariate: a costo di tenerlo legato con un lazzo, quella caiorda non la vedrà più e lui quella cantina e quella femmina se le deve dimenticare se vuole e se non vuole e se insiste me lo mangio vivo!

     Alle sei del pomeriggio bussarono di nuovo e stavolta per precauzione Francisca prese il bacolo e lo appoggiò dietro la porta. Era Nunziata, la vicina di casa:

- Può essere mai che state aiutando tutti contro l’occhio di Onna Gianna e mio marito no? Guardatelo, pare una mappina questo fetuso! E’ tornato ora dalla cantina e mi pare una spagnatura di ciciri, ride come una scimmia e fete di vino a tre miglia di via. Vedete qualche riparo…!

     Cuncettina e Francisca si misero all’opera e dopo una decina di passate di piatto anche Nunziata fu contentata, afferrò come un pupo il marito addormentato e se lo riportò a casa sacramentando che mai e poi mai gli averebbe più permesso di andare in quella schifezza di cantina.

     Fino alla sera Cuncettina e Francisca lavorarono con almeno altre quattro mogli allarmatissime e con i rispettivi mariti e l’indomani mattina la viatica riprese e continuò per tutto il giorno e quando Geppino, ispirato dal forte tanfo di vino che si respirava ormai nella sua casa, cercò di uscire a un piede a un piede per andare nella cantina, Francisca col bacolo in mano lo costrinse a tornarsene di sopra facendo terribili vociate.

     La sera tardi si sentì bussare prima a leggio e poi sempre più forte e con calci alla porta accompagnati da imprecazioni. Quando Cuncettina aprì, si vide investita dalla faccia rossissima e sudatizza di Onna Gianna che voleva erba per cento cavalli:

- Come vi siete permesse di dire che sono io che docchio i mariti alle femmine di mezzo Oppido? Se non la finite di sdocchiare tutti i miei clienti, non solo vengo e vi spacco tutti i piatti e pure le garge, ma vi brucio la casa di notte – E se ne andò col barbazzale peloso e tremante alzato imprecando peggio di un uomo.

    Francisca e Cuncettina si guardarono sconcertate e pallide, spensero la lumera e il fuoco, chiusero il basso e se ne andarono a dormire di sopra, ma    alle sette albe sentirono bussare e un insolito scatafascio nel vicolo. Quando aprirono la porta, videro varie persone con le rispettive mule che aspettavano.

- Ho la mula docchiata, disse il primo, vedete che dovete fare per alleggiarla: è da ieri che si lamenta e se la fa cacariando e dormendo, ma , appena si sveglia, tira calci all’orbisca…
   
 Francisca portò fuori la limba con l’acqua e l’ogghiera e Cuncettina si mise all’opera: se ne andò tutta la mezza mattinata fino a mezzogiorno per sdocchiare tutte le mule e anche qualche mulattiere che si sentiva debolizzo. Alla fine, esausta, Cuncettina senza nemmeno mangiare andò a buttarsi sul letto nel suo cammarino.

     Non passò manco mezz’ora che cominciò la viatica delle fanciulle lasciate o non corrisposte dagli ziti o dagli innamorati: erano tante e tutte fortemente deluse oppure assai arraggiatiate. Cuncettina cominciò a sdocchiarle a una a una e fu fortemente provata perché in ognuna di loro si ritrovava lei appena qualche merse prima lasciata da Lorenzo per una caiorda più brutta dello scuro, come si diceva in giro... Lavorò fino a tarda sera tremando per la debolezza e la fame e finalmente riuscì a mettere nello stomaco qualcosa solo prima di andare a dormire…

    Mentre stava attraversando il catarratto per entrare nel suo cammarino e coricarsi, sentì bussare a leggio dabbasso. Pensò di non rispondere, ma la bussata continuava lenta e insistente. Poi smise e quindi riprese furiosa , tanto che Cuncettina si affacciò al finestrino e chiese urlando chi fosse.

- Sugnu Onna Marina Pillò - rispose una voce grossa da sotto -, aprite per carità che ho bisogno assai e non poco!

     Cuncettina riaprì in silenzio il catarratto , scese in punta di piedi le scale per non svegliare il padre e la madre ed aprì la porta trovandosi di fronte una donna molto corpulenta e negli anni con la faccia tonda, una pronunciata peluria sul viso e il buccularo ornato da una collana con grosso pendandiff. Entrando furiosamente, la donna lasciò dietro di sé un feto potente di sudore. La fece accomodare sulla solita cascia e le domandò cosa volesse, mentre sulla scala appariva Francisca che scendendo si teneva il naso domandando alla figlia da dove venisse quel feto di zimbaro…:

- Sto morendo – ululò pietosamente la donna sulla cascia – mi dissero che mamma e figlia siete le migliori magàre del paese : vedete qualche riparo e sdocchiatemi per carità di Dio! - Che vi successe? – domandò Cuncettina, iniziando i vari accertamenti di rito per la sua prima diagnosi. 
- Sono sicuramente docchiata, docchiata forte…la gente è ‘mbidiosa assai di mia e non mi fa stare con la mia pace. Vi basta? 
- Dite quello che volete, più so e meglio è – disse umilmente Cuncettina che non sapeva più come tapparsi il naso.

- Ve lo dico in quattro e quattro otto: – disse la donna – il mio primo zito, il migliore giovane di Oppido, poco prima del matrimonio disse che voleva cambiare aria e andare a trovare suo fratello a Novaiorca e andò. Lo avete visto più? Spa – ri – to! Non si seppe più niente. E fu uno! Stupida io che non mi feci precantare allora…

- E perché non vi siete fatta sdocchiare? – la interruppe Francisca che si teneva premuto sul naso un grande muccaturi di Geppino. 
- Perché sugnu storta! – rispose Onna Marina – Ma andiamo avanti: il secondo zito diventò il mio primo marito; mi voleva un bene dell’anima e non mi faceva mancare niente, aveva solo un leggero fastidio alle nasche, che si soffiava in continuazione quando era vicino a me, ma per il resto vendeva salute.Una notte d’estate, quando il Signore diceva fuoco, a un bel momento si alzò con l’artetica addosso dal letto e aprì il balcone perché gli mancava l’aria… 
- Amarazzo! – commentò Francisca. 
- Come fu, come non fu… – riprese la donna – forse ebbe un ferriamento di testa oppure una botta di sangue che gli fece perdere l’ equilibrio… cadde pezzolo dal balcone, lo presero pitta a terra e mi lavai le mani per la seconda volta, povera me! 
- Male avete fatto a non sdocchiarvi voi e lui! – interruppe ancora Francisca che intanto si era legato il muccatori dietro il collo coprendosi interamente naso e bocca. 
- Ora andiamo al terzo zito con cui mi devo maritare fra una simanata: – riprese la donna – buono come il pane, assai giovane per dire la verità, non mi fa mancare niente, ma da qualche tempo a questa parte , quando siamo vicini, come è capitato oggi…, va dicendo che questa vita non la sopporta più e che appena trova una timpa giusta quasi quasi vuole gettarsi… Ditemi voi, Cuncettina, sugnu docchiata o no? 
- Ora vediamo, – rispose la ragazza – ma forse lui è più docchiato di voi. Portatemelo qui e sdocchiamo pure lui. Come si chiama? 
- Lorenzo, – rispose la donna – ma ora badate a me e sdocchiatemi! 
 
   Sentendo quel nome, Cuncettina e la madre ebbero un brivido nelle ossa, ma non dissero niente e cominciarono contro voglia l’alleggiamento. Alla prima passata di piatto le gocce d’olio cadute dal mignolo di Cuncettina , appena toccavano l’acqua, non vedevano l’ora di congiungersi tra loro in un grande occhio: Francisca restò sbalordita e fece nzinga alla figlia, esclamando con furbizia:

- Avete ragione, Onna Marina, avete un’occhio potente addosso che vi sta mangiando la salute e la pace. Certo che cercate riparo, povera cristiana…! O figlia, liberala per carità… 

     Cuncettina mangiò la foglia e dopo altre nove passate di piatto che ebbero risultati molto controversi, esclamò piena di rammarico:

- E’ inutile! L’occhio non si raccoglie. Se non fate qualcosa, Onna Marina, quest’occhio vi resta addosso per sempre e sarà la vostra fine molto presto.

    La donna si mise a tremare e a sudare di brutto come una fontana balbettando…

- E che devo fare, ditemi? 
- Dovete lasciare Lorenzo una volta per tutte e al più presto possibile, anzi domani stesso e senza dirgli perché. E mandatelo da me da solo subito, altrimenti lui molto presto si getterà da una timpa e voi stessa dopo due giorni farete sicuramente la stessa fine!

    La donna svenne sulla cascia e Cuncettina, per riprenderla, tappandosi il naso, le versò sul viso tutta l’acqua della limba. Poi, appena Onna Marina si riprese e fu uscita sbuffando, piangendo e lasciando un feto terribile in tutto il basso, si rivolse alla madre:

- Da domani in poi se vuoi sdocchiare, sdocchia tu: io al massimo alleggerò solo un'altra persona, Lorenzo!

E se ne andò finalmente a dormire. 
Bruno Demasi
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( Un  caloroso ringraziamento alla signora Anna Maria Impelliccieri, vedova Timpano, di felice memoria, che mi ha fornito  i testi degli scongiuri contro il malocchio riportati in questa storia, e ai coniugi    Enzo e  Giovanna Avati/Raso, ex alunni, che hanno curato magistralmente la realizzazione delle illustrazioni di questo racconto.  Bruno Demasi)

domenica 21 dicembre 2025

Viaggiatori in Calabria nel sec. XIX: GEORGE RUSSELL (1815) ( di Rocco Liberti )

     Tra i tanti viaggiatori inglesi che nell’Ottocento subirono il fascino del Mediterraneo, e della Calabria in particolare, stavolta Rocco Liberti col suo indomito spirito di ricercatore ci presenta George Russell, il cui itinerario, iniziato a Palermo nel marzo del 1815 insieme a una piccola compagnia di studiosi tedeschi, ebbe il suo culmine nello Stretto di Messina. Sebbene Russell non sia mai sbarcato fisicamente in Calabria, la sua descrizione della costa calabra e dei mitici gorghi di Scilla e Cariddi è tra le più vivide e suggestive dell'epoca. Dalla costa siciliana, Russell osservò con occhio attento la potenza delle correnti, rivivendo quasi i versi di Omero e Virgilio per descrivere quella forza naturale che da secoli alimentava la leggenda. Dopo aver sfidato i "sette nodi" delle acque messinesi il gruppo proseguì verso Milazzo e le Eolie — seguendo le tracce del geologo Dolomieu — per poi concludere il viaggio verso Napoli. Quella di Russell non è solo una cronaca di viaggio, ma, come ha colto acutamente Rocco Liberti in questa bella pagina, un ponte tra la realtà geografica e il mito classico, che restituisce il sapore di un'epoca in cui attraversare lo Stretto era ancora un'impresa colma di meraviglia e timore ( Bruno Demasi )
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   Non conosciamo dati biografici su tale personaggio, che il Di Matteo indica di patria inglese. Di professione funzionario dell’Ufficio del Lavoro, come tanti compatrioti ha avuto la passione dei viaggi, arrivando fin nel sud dell’Italia. Non ha calcato il suolo calabro, ma soltanto quello siculo, tuttavia non ha potuto tralasciare di soffermarsi su quanto ispirava sin dall’antichità lo Stretto di Messina e guardare con occhio attento al panorama che gli si proiettava di fronte. L’opera espressa a riguardo, “A Tour through Sicily in the Year 1815”, che reca belle piante e vedute, ma anche litografie dovute a J. Clark e Strand, è andata in pubblicazione a Londra nel 1819 presso Sherwood, Neely, and Jones[1].

    Russell è partito per Palermo il 26 marzo del 1815 in compagnia di un connazionale, certo Fromm e di August Wilhem Fürster, professore di diritto e August Wilhelm Kephalides, entrambi tedeschi. Dapprima è stata la diligenza a portare la comitiva a Civitavecchia, ma da qui il 31 successivo si è presa la via del mare giungendo il 10 aprile a Palermo al termine di una non facile traversata. Ai primi di giugno i quattro si trovavano già a Messina, dov’erano pervenuti con una speronara salpata da Taormina.
 
     Del pari questo trasferimento non è risultato agevole a causa del vento e della corrente, che risultavano talmente forti che il capitano ha ordinato all’equipaggio di sdraiarsi e procedere a non più di sette nodi all’ora. Con la vista di Reggio e delle montagne della Calabria, in ultimo, superato Cariddi, l’imbarcazione riusciva a entrare nel “capiente” porto di Messina e ad ancorarsi in prossimità della Casa della Sanità. 

     Nell’importante città siciliana i viaggiatori hanno noleggiato una barca e nuovamente avvistato il temibile Cariddi. Nonostante lo specchio d’acqua fosse calmo, si rendeva evidente la continua oscillazione che facevano le acque all’interno del gorgo, un gorgo, si scrive, ch’è sempre in una situazione di incessante agitazione. E qui è tornato utile al caso il verso di Omero: «tre volte al giorno assorbe l’onda amara, e tre volte getta indietro di nuovo con un rumore pauroso». Ma pure Virgilio non si è rivelato da meno e ha descritto molto bene lo condizione della nave quando era costretta a passare attraverso i terribili golfi, naturalmente Cariddi e Scilla, che inghiottivano le navi incappate in essi. 
 
  Il 13 giugno Russell e amici dicevano addio a malincuore a Messina per spingersi a Melazzo e quindi alla isole Lipari, che hanno visitato sulla scia degli scritti del Dolomieu. La rotta seguita si è sviluppata vicino alla costa calabra e, era pacifico, c’è stato il passaggio accosto alla terrifica Scilla, che per i naviganti di un tempo remoto si offriva pericolosissima. La breve escursione è riuscita «deliziosamente piacevole». Dopo aver girovagato per il gruppo delle cinque isole, a conclusione è avvenuta la definitiva partenza per Napoli[2]

Rocco Liberti
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[1] Di Matteo, Viaggiatori stranieri…, III, pp. 67-68. 
[2] Russell, A Tour through Sicily…, pp. 262-265.

lunedì 15 dicembre 2025

LA RISATA PERDUTA: PER UNO STUDIO DELL’UMORISMO NELLA LETTERATURA CALABRESE ( di Bruno Demasi )


    Qualche nota tutt’altro che esaustiva su ciò che nella letteratura calabrese è considerato un genere assolutamente marginale: l’ umorismo . Nella grande maggioranza dei casi esso non è invece una semplice parentesi comica, ma un filtro narrativo potente, spesso intrecciato con il dramma sociale, la malinconia e l'osservazione disincantata della vita. Agisce spesso come un meccanismo di difesa intellettuale o come un bisturi per l'analisi sociologica. Le sue manifestazioni principali si concentrano in genere su tre elementi chiave: l'uso prevalente o anche episodico del dialetto o delle forme dialettali, la critica della società e l'emergere del surreale/grottesco.

   L'espressione dialettale, immediata e insostituibile, è storicamente il veicolo primario per la satira e l'umorismo schietto. Il dialetto permette di cogliere sfumature e contraddizioni che la lingua italiana (percepita come più "ufficiale") non riesce a rendere. E’ formidabile per deridere l'ipocrisia, denunciare l'ingiustizia e immortalare l'arguzia popolare. L'umorismo nasce spesso da doppi sensi, proverbi fulminanti e costituisce una sintesi espressiva che mira al bersaglio con efficacia, ma anche nella narrativa in lingua l'umorismo diventa liberatorio sebbene a volte tenda al realismo magico o al grottesco.  L'ambientazione quasi esclusiva è il contestop territoriale  di vita dove le nevrosi, le manie e l'eccentricità dei personaggi sono amplificate. Questo tipo di umorismo serve a rendere accettabile (e affascinante) una realtà spesso difficile o statica. Il riso è un elemento di catarsi, che sposta la quotidianità verso un piano più leggero e sopportabile.

   C’è infine un umorismo più amaro e di denuncia e molti autori calabresi usano l'ironia in modo obliquo, unendo l'osservazione sociale al disincanto, creando una comicità agrodolce che non nasconde le problematiche (emigrazione, burocrazia, malcostume). La risata è usata come un'arma di critica. L'eccesso e l'iperbole diventano un modo per mettere a fuoco le disfunzioni sociali e politiche della regione. Dunque l'umorismo nella letteratura calabrese è un elemento essenziale per la sua identità narrativa. È un modo per sopravvivere alla realtà attraverso l'arguzia e per raccontarla in modo indimenticabile attraverso il filtro del grottesco e del surreale. Tuttavia, mentre per il passato questa classificazione può reggere, per il presente l’evoluzione dell’iperbole umoristica e le sue sfaccettature sono talmente singolari che possono sfuggire a ogni classificazione: a titolo esemplificativo tento un brevissimo confronto di due autori del passato, Bruno Pelaggi e Michele Pane, con due contemporanei, Domenico Dara e Mimmo Gangemi. 


BRUNO PELAGGI (1839-1915)

    Noto come “ Mastro Bruno “ ( originario di Serra ), è una figura cardine della poesia dialettale calabrese. Il suo stile è passionale, ma alterna momenti di lirismo a feroci invettive satiriche a espressioni di sconforto esistenziale, spesso rivolgendosi in modo polemico a entità superiori o simboliche (la Luna, Dio). Il suo umorismo è più legato al grottesco e alla protesta che genera un riso di sfida e disperazione.Ecco un rapido esempio: Mastro Bruno si rivolge alla Luna, personificandola e lamentandosi della propria sorte con un tono che unisce sconforto a una comica e rassegnata indignazione:

...Jio sparti mo' sapìa / cà mancu 'n casa mia / puozzu muriri?! Mu mi 'ndi puozzu jiri / vurrìa, allumènu a ppedi; / cà si 'n casu adapèdi / viegnu menu, vurrìa mu sugnu armenu / si m'atterranu nudu. è puru assai!...

...Luna, si non niscìa, / quant'era miegghju! Ma mo' chi cazzu pigghju / ca ti lu dicu a ttia: para ca sienti a mmia... / Cchiù crudeli di chistu!: si tti gustasti a Cristu / chi murìa! Jio mo' chi bolarìa, / di mia mu sienti pena? Tu ti guodi la scena / e passi avanti!...


    Prevale sicuramente l'elemento divertente unito a quello grottesco: la comicità nasce dal lamento esasperato e dall'accusa diretta e blasfema alla Luna. Il poeta paragona il suo patimento a quello di Cristo e si lamenta che persino la Luna si diverte a guardare lo spettacolo. Il "è puru assai!" riguardo al fatto di essere sotterrato nudo è una nota di autoironia estrema che alleggerisce il dramma. 


MICHELE PANE (1876 – 1953) 

 
   È’una figura fondamentale e spesso sottovalutata della poesia dialettale calabrese. Originario di Decollatura (in provincia di Catanzaro), è stato un poeta dalla sensibilità complessa, capace di spaziare dal lirismo profondo e contemplativo fino alla satira sociale più aspra. La sua opera è un ponte tra la tradizione contadina e le inquietudini del Novecento, e il suo stile è caratterizzato da una lingua dialettale ricca e potente. Pane è noto per aver usato il dialetto non solo come veicolo per esprimere la nostalgia per il paesaggio e gli affetti, ma anche come "ortica e frusta" (come lui stesso definiva la sua poesia) contro l'ingiustizia e l'ipocrisia del suo tempo.A differenza di altri poeti che usavano il dialetto solo per la descrizione idillica, Pane lo elevò a strumento di protesta civile e satira morale contro i poteri locali e la corruzione Tutta la sua poesia è intrisa di un profondo amore per la Calabria rurale, descritta con un realismo che non ignora la miseria, ma ne esalta la dignità. Il suo umorismo è quasi sempre amaro o caustico. Non cerca la risata facile, ma la riflessione sulla condizione umana.

    Per mostrare il lato più pungente e satirico di Michele Pane, ecco un brano (in dialetto catanzarese/decollaturese) in cui l'autore affronta la questione del lavoro e dello sfruttamento, tipico del suo spirito di denuncia.

Mu cunta u Patre eternu: ccu 'ssi cosi jìu cchiù nci vegnu menu, mu mi fici, si li ricchi si 'ndi piglianu a li nuosi u suduri e u travagghiu cch'à li dici! 
E nci parra u Patre eternu ccu nna frevi ca nci fa tremà l'ossu e l'anima: «Vui li ricchi mi 'ndaviti 'i vvi 'ndirigi a cu fatiga 'e mori, e nun vi chjama!» 
«Cchiù jè povaru e cchiù si 'ndi suttana, cchiù l'ati chi lu vèstinu 'i ritali, si 'ndi parra 'i liggi, sunu 'na campana, ca 'ndi squatra, e nun duna lu panali!»



DOMENICO DARA (Nato nel 1971)

    Originario di Girifalco (CZ), è uno dei nomi più rappresentativi della narrativa calabrese attuale. La sua scrittura è un insieme originale di realismo magico, malinconia e umorismo sottile. L'ambientazione è sempre il piccolo paese, dove il tempo sembra essersi fermato, e consente al lettore di osservare personaggi fissati nelle loro manie e ritualità. La comicità di Dara non è data dalla battuta facile, ma dall'arguzia surreale e dall'osservazione poetica delle assurdità umane. Il protagonista del suo “ Breve trattato sulle coincidenze (2014)” è il postino di Girifalco, che, leggendo le lettere dei compaesani, crea una mappa emotiva e comica del paese. Il brano seguente è significativo in tal senso: usa l'iperbole e l'assurdo per suscitare il sorriso:

«In paese la vita era lenta. Molto lenta. Quando una persona moriva, si aspettava che trascorressero almeno due giorni prima di avvertire il prete, perché, dicevano gli anziani, “non si può disturbare il Signore per ogni sciocchezza.” Era un modo per dare a tutti il tempo di capire che la persona in questione era davvero passata a miglior vita e non stava semplicemente dormendo un sonno profondo. E poi, c’era un’altra cosa che si diceva, sussurrando: “Se vedi un defunto che ti sorride, vuol dire che si è finalmente liberato dalle pretese dei vivi e che tu, invece, sei rimasto a fare la figura dell’idiota.”»

«Capitava di frequente, specie d’estate, che la gente scambiasse per fantasmi i forestieri che si avventuravano in paese dopo il tramonto. Il fatto era che i fantasmi, a Girifalco, erano considerati una presenza discreta, quasi dei vicini di casa, mentre i forestieri erano creature esotiche, vestite male e con la fretta negli occhi, quindi molto più spaventose.»


   Dara sembra essere la dimostrazione vivente che l'umorismo calabrese contemporaneo ha abbandonato la satira politica urlata per concentrarsi sulla filosofia comica del vivere, unendo l'affetto per il proprio mondo alla consapevolezza delle sue ingenuità. 


MIMMO GANGEMI(nato nel 1950)

   Originario di Santa Cristina d'Aspromonte (RC), è noto per i suoi romanzi che affrontano temi complessi come la 'Ndrangheta, la Giustizia e la storia calabrese. Sebbene il suo genere principale sia il dramma o il thriller, la sua narrativa è costellata di un'ironia tagliente e di una capacità di disegnare personaggi e situazioni con un grottesco amaro tipico della tradizione meridionale. Il suo umorismo emerge nel contrasto tra la grandiosità dei problemi e la meschinità o l'eccentricità delle reazioni umane e molto spesso si può notare come egli usi l'ironia per descrivere la logica contorta e surreale delle dinamiche sociali e spesso anche criminali nei paesi dell'Aspromonte.

   Nel romanzo “ La signora di Ellis Island (2011)” l'autore descrive l'atteggiamento dei personaggi di paese di fronte a un'azione "fuori dall'ordinario," con una vena di ironia che trasforma il dramma in osservazione sociologica:

«L’unica cosa che in Aspromonte non destava sospetti era la normalità, e la normalità era che tutti, prima o poi, facessero qualcosa che non rientrava nella normalità. Se l’avvocato Trocino avesse cominciato a passeggiare nudo per la piazza, avrebbero detto: ‘È la sua eccentricità, l’ha sempre avuta.’ Ma se avesse cominciato a sorridere e a salutare tutti con troppa cortesia, avrebbero pensato: ‘Certo che è strano. O ha venduto la casa al mare o si è messo in testa di fare l’informatore.’»

«In quel mondo, la bugia era una valuta, la verità era un lusso. Se un uomo di rispetto ti diceva: ‘Non ti preoccupare,’ dovevi preoccuparti il triplo. Se ti diceva: ‘Sono qui per aiutarti,’ dovevi scappare più veloce di un capriolo. L'unica cosa che si poteva prendere alla lettera era quando qualcuno ti diceva: ‘Mi hai stancato,’ perché in quel caso, era quasi certo che, prima della cena, avresti avuto un problema serio.»


    L'elemento comico e ironico si concentra sul grottesco della normalità: Il primo brano è un'arguta riflessione sulla percezione sociale: in un contesto anomalo è l'eccessiva normalità (essere troppo cortesi) a destare il massimo sospetto che porta alla conclusione che un sorriso anomalo è segno di un tradimento economico o addirittura criminale. Il secondo brano invece usa l'aforisma per descrivere in modo comico-amaro il codice non scritto delle relazioni umane. Il paradosso è umoristico: più rassicurante è la parola, più grande è il pericolo e l'unica verità affidabile è l'espressione di stanchezza che precede il caos. In tal modo Gangemi sembra piegare l'umorismo a strumento per svelare la logica interna, spesso assurda e disfunzionale, della Calabria.

Bruno Demasi

giovedì 11 dicembre 2025

LA BELLA STAGIONE DEI GESUITI MAMERTINI (di Bruno Demasi)


    Nell’arco di appena tre anni, da marzo 1932 a giugno 1935 furono ben quattro i giovani di Oppido Mamertina che entrarono nelle fila dei Gesuiti per rimanerci con ferrea convinzione fino alla fine dei loro giorni. Quattro grandi figure a torto quasi dimenticate di cui non solo la loro città natale, ma l’intera Calabria può darsi vanto. Furono, in stretto ordine di ammissione ufficiale nella Compagnia di Gesù, Domenico De Giorgio; Angelo Schepis; Vincenzo Pezzimenti e Rocco Carbone, il cui contributo alla Compagnia di Gesù, sicuramente vario, ma accomunato sempre da serietà e profondità di intenti, è ancora presente nel ricordo di tanti oltre che negli annali della grande congregazione religiosa.

    Prima di delineare per ciascuno i tratti essenziali delle loro singolari vicende umane e spirituali, occorre però domandarsi quali furono l’occasione e il contesto che promossero queste quattro sincere e grandi vocazioni gesuitiche in un arco di tempo molto ridotto e in un ambito sociale e culturale tanto connotato qual era quello contadino e artigiano di un paese arroccato ai piedi dell’Aspromonte nel pieno della propaganda fascista che cercava di intridere di sé persino le istituzioni religiose.

 La spiritualità della Compagnia di Gesù era conosciuta dalla chiesa e dalla popolazione oppidese perché già in due periodi (1879 – 1881 e 1884-86 ), come documenta scrupolosamente Mons.G. Pignataro (1), alla direzione del seminario di Oppido erano stati i Gesuiti. Tuttavia tali presenze, sia pure importantissime per la loro eredità spirituale, ma ormai lontane nel tempo in riferimento all’epoca di cui si sta trattando, non sono interamente sufficienti a spiegare il sorgere delle quattro vocazioni gesuitiche. Occorre perciò andare oltre e osservare più da vicino, proprio agli albori degli anni Trenta, la statura spirituale e umana davvero gigantesca di Mons. Giovambattista Peruzzo, il vescovo di origine piemontese, appartente alla Congregazione dei Padri Passionisti, mandato a Oppido, di cui Andrea Camilleri, menzionando anche la diocesi di Oppido, ha tracciato un profilo biografico magnifico nel romanzo “Le pecore e il pastore” e di cui anche questo blog nel suo piccolo ha fatto memoria nell’articolo apribile cliccando sul seguente link:"  IL PASTORE DELLE PECORE D’ASPROMONTE - Monsignor Giovanni Battista Peruzzo, protagonista del libro di Andrea Camilleri ”Le pecore e il pastore”, vescovo indimenticato di Oppido Mamertina ".
 
   Nominato vescovo di Oppido Mamertina il 19 ottobre 1928, Mons. Peruzzo entrò in diocesi nel febbraio 1929, anno dei cd “Patti Lateranensi”, ma è proprio questo inizio del suo episcopato ad Oppido che incrocia un periodo di crescente permeazione del fascismo nella vita locale, con le sue istituzioni civili, la società, le associazioni e — in qualche misura — la Chiesa. Era stato vescovo ausiliare a Mantova dal 1924 e si era distinto per il suo zelo missionario, ma nel 1927, durante le celebrazioni per le feste centenarie di San Luigi Gonzaga aveva promosso eventi con forte partecipazione giovanile tramite l’ Azione Cattolica, e queste iniziative suscitarono intimidazioni gravi da parte di fascisti locali. Peruzzo intervenne in prima persona: denunciò gli episodi sia a livello ecclesiastico — portando i fatti a conoscenza del suo ordine e della Santa Sede — sia “politicamente”: si rivolse fino al vertice del regime, cioè direttamente a Benito Mussolini. Come osserva S.Rullo: “Insoddisfazioni,gelosie e rancori di partito fecero pressioni su Roma e il vescovo Peruzzo venne trasferito nella sperduta diocesi di Oppido tra i monti della Calabria”( 2) nella quale addirittura l’ultimo vescovo nominato, non aveva mai fatto il proprio ingresso.

   A Oppido nel brevissimo periodo del suo episcopato Peruzzo si distinse per la sua operosità e la sua intransigenza curando non solo la ricostruzione delle chiese, perseguendo serie ed efficaci forme di evangelizzazione e persino l’organizzazione di un congrersso mariano che ebbe risonanza in tutto il Meridione, ma effettuando anche onerose visite agli istituti religiosi e alle scuole secondarie tenute da religiosi e soprattutto incoraggiando con lungimiranza in ogni modo possibile l’incremento delle associazioni laicali. Chiamò subito a Oppido, quale rettore del seminario e col compito di riordinare e promuovere l’Azione Cattolica sul territorio, il sacerdote lodigiano Samuele Pandini che, secondo il Liberti ( 3), “lasciò di sé gran ricordo”, tanto che gli si dovette  la ripresa completa dell’Azione Cattolica e il miglioramento del seminario. Lo stesso riferisce che durante una visita il futuro cardinale Schuster avrebbe elogiato il seminario definendolo «il migliore del sud per condotta e studi, pietà e disciplina» e cita inoltre la comunicazione di Peruzzo al Capitolo il 26 settembre 1930 che qualificava Pandini «insigne per pietà, dottrina e zelo».

    Il nome di Samuele Pandini, che insieme al vescovo Peruzzo e all’abate Bruno Palaja, parroco della Chiesa di San Nicola (Abbazia), insigne latinista e docente del seminario, fervente zelatore della spiritualità passionista (ne è esempio lo splendido affresco della parete di destra della medesima chiesa, realizzato da Domenico Mazzullo su commissione dello stesso abate, in cui sono idealizzati i santi capostipiti della Congregazione), è sicuramente la chiave di volta di tutte le vocazioni gesuitiche nate a Oppido, ricorre esplicitamente infatti anche nel necrologio(4) di uno dei quattro gesuiti oppidesi, Domenico De Giorgio, dove il santo sacerdote lodigiano viene definito “ della gioventù d’Oppido zelante formatore e suscitatore di ideali e d’entusiasmo duraturi…” 
 
  L’azione spirituale sinergica ed entusiasta di Peruzzo e Pandini, la loro incessante e intelligente cooptazione delle leve giovanili oppidesi non potevano non suscitare invidie e gelosie nelle organizzazioni fasciste locali che si vedevano depauperate della materia prima necessaria alle loro adunate e alle loro ricorrenti parate giovanili. E quando Domenico De Giorgio, uno dei più convinti e sanguigni giovani oppidesi del gruppo di Pandini, poi divenuto gesuita,“ nel 1931, durante la crisi tra Fascismo e Azione Cattolica, in riunioni segrete per le campagne fuori paese teneva le file della Associazione, fu ‘ fermato’ e in caserma diffidato dal proseguire, pena il confino”( 5), il rancore contro il rettore del seminario e contro il vescovo esplose in modo aperto, tanto che il 26 novembre dello stesso anno Peruzzo ricevette pressante invito a firmare il proprio trasferimento nella diocesi di Agrigento.

    Il fecondo  seme vocazionale tuttavia era stato gettato e i frutti di vocazione furono tantissimi. Tra i tanti quelli dei quattro giovani oppidesi, tutti “allievi” di Pandini e Peruzzo esterni al seminario , tutti residenti a Oppido nelle strade adiacenti alla chiesa di San Nicola-Abbazia, di cui era parroco il Palaja, i quali, sia pure a qualche mese di distanza l’uno dall’altro, a parte De Giorgio e Schepis che vi furono ammessi contemporaneamente, abbracciarono con convinzione ferrea la missione gesuitica, portandola con santità fino al loro ultimo respiro. 

DOMENICO DE GIORGIO 
 
    Nacque il 12 maggio 1908 a Oppido Mamertina nella casetta posta sull’attuale Via Marconi, a pochi metri di distanza dall’incrocio con la Via Annunziata, a 24 anni entrò nella Compagnia di Gesù: era il 19 marzo 1932. Pronunciò gli ultimi voti come coadiutore temporale il 2 febbraio 1943, servendo fedelissimamente la Compagnia per ben 36 anni.

    Come apprendiamo da sicura fonte gesuitica, (6) era giunto al Noviziato nel 1931, quando era nel pieno vigore della giovinezza e subito dopo l’amaro episodio di difesa a oltranza dell’ Azione cattolica che gli era costato proprio nello stesso anno la diffida da parte delle forze dell’ordine . Chi lo conobbe prima che entrasse in Compagnia, ricorda con ammirazione la sua eccezionale forza fisica ( resta ancora  famoso nel ricordo tramandato di alcuni l’episodio che lo vide processionalmente portatore sulle spalle della pesantissima croce di ferro da allocare sulla cuspide del timpano della cattedrale in costruzione), ma anche la generosità e la forza non comune del suo carattere. Lo chiamavano tutti Giorgione con l’epiteto affettuoso e ammirativo che gli aveva dato proprio Mons. Samuele Pandini.

    Crebbe in una famiglia di grandi e onestissimi lavoratori sotto la cura di una madre davvero santa sia nel lavoro sia nell’apostolato di servizio verso tutti coloro con i quali incrociava le proprie giornate. Come osserva l’estensore del suo necrologio: ”Durante il Noviziato temprò il suo carattere, forte e non privo di angolosità, ad un amoroso servizio del Signore senza riserve, domando la sua esuberanza e vivacità.Il mese di Esercizi Spirituali, in particolare, gli dischiuse gli orizzonti interiori propri di un figlio della Compagnia”.

    Se la sua chiamata gesuitica fu forte, altrettanto forte si rivelò la sua vocazione missionaria alla quale si preparò con grande cura, cercando di apprendere quante più cose potesse per aiutar meglio la Compagnia nel servizio di Dio e rendendosi atto a molti lavori e servizi: conseguì anche il diploma di infermiere, compito che poi più a lungo avrebbe esercitato sia nella Provincia Gesuitica, sia nella terra di missione.

    Aveva acuto spirito di osservazione e anche spiccate doti di narratore, tanto che , quando nel Novembre 1934 partì per la Missione di Galle in Ceylon, sia durante il viaggio sia dalla Missione inviava dettagliate cronache delle sue esperienze missionarie, che “erano attese e lette con grande gusto e profitto” pur avendo egli un’ istruzione appena elementare. Una volta giunto a Ceylon si dedicò al lavoro senza risparmiarsi. Il Seminario di Kandy fu il suo prevalente spazio di attività . Il suo zelo trovava libero sfogo sia negli uffici che gli erano affidati sia nel tratto con gli altri, esterni e seminaristi. Come la madre, trovava spesso la parola opportuna per tutti, specialmente per i più deboli, che spesso lasciava profondamente edificati. 

   Nel suo slancio abusò spesso delle sue forze. Uno sforzo eccessivo gli provocò l’abbassamento di un rene, dando così inizio al suo calvario. Dopo la guerra dovette tornare in Italia per curarsi e fu sottoposto ad intervento chirurgico. Appena rimesso, ottenne di ritornare in Ceylon e vi riprese con ardore il lavoro. Ma dopo qualche anno dovette, e questa volta definitivamente, lasciare la terra dei suoi sogni giovanili di piena donazione al Signore. Fu sottoposto a nuovo intervento chirurgico. Riprese il suo lavoro, ma il vigore di prima non tornò più. Soggiornò a Vico Equense , all’Aquila, a Napoli. Dicono i suoi confratelli: “ Semplice e profonda la sua vita spirituale, nutrita di continua preghiera. L’attaccamento all’osservanza Regolare era spinta fino allo scrupolo, e, talora, ad una certa intolleranza, come può succedere a temperamenti forti. Costante il suo zelo che non gli lasciava sfuggire l’occasione di far del bene fino ad ottenere autentiche conversioni”.

    Il declino fu inesorabile e, specialmente dopo l’ultimo intervento chirurgico, subito nel 67 — questa volta per tumore —, non si riebbe mai pienamente e forse capì che la fine non sarebbe stata troppo lontana. Ne fu certo dall’agosto del 1968 dopo nuovi ricoveri in clinica e nuovi accertamenti. Finché ha potuto si è reso utile; poi non si è alzato più da letto. Qualche laico che fu a trovarlo ebbe a dire: «E’ ammirvole: è lui che conforta noi». Era consapevole che la preghiera rendesse serena e gioiosa l’attesa nelle grandi sofferenze. Dette così l’ultima prova della fortezza del suo carattere e della profondità della sua fede e della sua donazione al Signore. E’ deceduto al Gesù Nuovo di Napoli il 25 novembre 1968.

ANGELO SCHEPIS

     Nato il il 12 dicembre 1912 ad Oppido Mamertina nella casa ubicata sull’attuale “corso G.Mittica”, a breve distanza dall’Orfanotrofio Germanò, entrò con i primi voti nella Compagnia di Gesù il 19 marzo 1932 insieme al compaesano e vicino di quartiere Domenico De Giorgio, pronunciò gli Ultimi Voti come Coadiutore temporale il 2 febbraio 1943, è deceduto a Napoli il 9 aprile 1985 nel Gesù Nuovo. Varie delle notizie che abbiamo si riferiscono al suo commosso necrologio, pronunciato dal confratello Mario Casolaro (7) .

“ Erano passati pochi mesi dal mio ingresso nel noviziato della Compagnia di Gesù a Vico Equense,- scrive Casolaro - e le mie scarpe leggere estive si erano già in parte consumate. Mi recai nelle «officine» così si chiamava quella parte della casa dove c’erano i laboratori: falegnameria, sartoria, calzoleria, ecc., e per la prima volta incontrai il Fratello Schepis: poche parole, pochi sguardi, molta cordialità. Dopo alcuni giorni avevo il mio paio di scarpe. Ce le ho ancora davanti agli occhi, un po’ insolite per me abituato in città: erano scarpe robuste di grasso, vero cuoio ben spesso, molto curate in alcuni dettagli: ben tirate le ribattiture… poco rifinite in quanto ad eleganza formale, ma ben adatte e ottime …Ecco, se ne è costituito allora una cosa seria e solida. «Guardate, quei piedi si scarpano bene». E il F. Schepis ci diceva, sempre con il suo modo spiccio e concreto, che bisognava averli sempre bene in forma, in modo da sopportare ogni tipo di fatica… E’ insolito che un Fratello nelle Scuole di noviziato parli così: ma così era lo stile di un Fratello nelle Scuole di noviziato che ci conduceva con fermezza, ma con molta fraternità.

    Decisamente Fratello Angelo Schepis, pur nella semplicità del suo servizio, metteva in luce grandi doti missionarie e di evangelizzatore favorendo , aiutando e incoraggiando in ogni modo possibille i confratelli che partivano per la Missione e si è fatto amare molto nella comunità del Gesù Nuovo. Si notava anzitutto la sua puntualità nel rendimento dei servizi domestici: spiccio nei modi, deciso nelle espressioni: ma in fondo era semplice e si spiega così anche la sua facilità di entrare in contatto con la gente più povera e bisognosa: aveva anche fatto parte di un Gruppo Vincenziano fino al 1972, e non mancava mai agli incontri di carità al Gesù Nuovo dove erano frequenti proprio le persone bisognose. Nesso stesso anno fu trasferito a Vico Equense dentro la casa che lo aveva visto novizio: vi trovò un ambiente più ristretto, e ciò gli servì a rivivere quell’ambiente noviziato dove aveva iniziato la sua vita di Gesuita: ritrovò subito nel lavoro e negli incontri quella capacità di umanità e soprattutto quella sensibilità aperta verso la sofferenza altrui.

    Il taglio della sua vita era ormai segnato; e per questo fu molto contento quando nel 1978 i Superiori lo chiamarono a Napoli e lo inserirono nella Commissione Corrispondenti del Gesù Nuovo. Lo fece con serietà e con dedizione, senza chiedere nulla. Negli ultimi anni di vita gli si offrì la possibilità di un impegno diretto con le anime, come lettore qualificato della parola di Dio durante la liturgia eucaristica, ma soprattutto nel lavoro di accoglienza in sacrestia. Lì, infatti, coloro che andavano per fissare l'orario di una Messa o per chiedere preghiere, finivano quasi sempre spontaneamente per parlare dei problemi che li angosciavano come uomini e come credenti. Questo dialogo del F. Schepis con i fedeli si faceva profondamente concreto: partecipando alle ansie e unendosi nel ringraziamento per qualche grazia che il fedele dichiarava ricevuta, esortava a non limitarsi ad una eventuale offerta per il culto ma a partecipare più intimamente alla Grazia del Signore con la confessione e la comunione. Benchè, come abbiamo detto, il F. Schepis fosse uomo di poche parole, in queste occasioni sapeva superare se stesso, edificando per la sua semplicità e serenità.

    Un male, covato dentro forse da qualche tempo, l'ha consumato in pochi mesi; ha terminato la sua vita terrena il 9 aprile 1985 all'età di 73 anni, 53 di vita religiosa. Ha sofferto molto negli ultimi giorni, ma non era facile ascoltare dalle sue labbra un lamento che non fosse nello stesso tempo riferito alla Passione del Signore e alla salvezza delle anime. Il venerdì santo, ormai allo stremo delle forze, chiese a un Padre, che era andato a visitarlo, che giorno fosse. «È il giorno della Passione del Signore» gli fu detto; e alla richiesta se avesse bisogno di qualche cosa, rispose con quella poca, pochissima forza di voce che aveva ancora, ma distintamente: «la vita eterna».

“ A questo punto
– conclude Mario Casolaro - , se dovessi dipingere il Paradiso per il F. Schepis, rifarei la raffigurazione che ne ha dato il B. Angelico: un giardino fiorito, verde con tan- te gemme di colore, e un coro d'angeli sostenuto dal gentile e soave suono del le mandole.”

VINCENZO PEZZIMENTI

    Nacque il 6 novembre 1918 ad Oppido Mamertina nella casa ubicata sulla via Annunziata, a pochissimi metri di distanza dalla Chiesa di San Nicola Abbazia, dove il fratello Antonio, grandissimo ebanista e scultore, presto emigrato nell’America Latina, realizzò e scolpì lo splendido pergamo ligneo adornato di prodigiosi bassorilievi raffiguranti la vita di San Nicola di Mira, che è considerato e censito come vero e proprio capolavoro d’arte sacra. Entrò giovanissimo nella Compagnia di Gesù il 1 ottobre 1934, fu ordinato sacerdote dal vescovo Mons. Farina il 4 luglio 1948, pronunciò gli Ultimi Voti il 2 febbraio 1952 ed è deceduto a Napoli, anche lui al Gesù Nuovo, il 24 agosto 2019. Quando è morto Fr.. Pezzimenti, purtroppo, la rivista della Provincia non era più attiva quindi il suo necrologio non è stato pubblicato, ma è possibile ricostruirne la parabola umana e religiosa mediante qualche scheda e molteplici riferimenti reperibili negli archivi dei Gesuiti che testimoniano la sua prodigiosa intelligenza e l’altrettanto fervida spiritualità unita ad una formazione culturale fuori dal comune.

    La sua missione all’interno della Compagnia di Gesù si esplicò in modo multiforme e con delicatissimi incarichi di responsabilità che costellarono tutta la sua lunghissima vita: subito dopo il presbiterato ,nel 1949. pronunciò i terzi voti nel collegio gesuitico spagnolo di Gandia dove aveva assunto un incarico di coadiutore. Lo ritroviamo quindi nei primi anni Cinquanta docente di Italiano e prefetto degli studenti nel prestigioso convitto “Conocchia-Pontano” di Napoli. Dal 1953 al 1962 è rettore di grande fede e di grande equilibrio del Noviziato di Vico Equense e subito dopo, fino al 1967, rettore dell’Istituto “Pontano” di Napoli. Seguono due delicatissimi anni di impegno, fino al 1969, quale guida degli esercizi spirituali e presidente della “FIDAE” a Villa S.Ignazio a Napoli: periodo, questo, durante il quale ricoprì anche in maniera ineccepibilel’incarico di consultore, confessore e responsabile dell’amministrazione economica della stessa struttura. Gli anni successivi lo vedono Superiore della residenzagesuitica di Pescara e, a partire dal 1973, anche parroco della medesima, almeno fino al 1979, anno nel quale torna di nuovo a Vico Equense, restandolci fino al 1985 come superiore della casa dei novizi e contemporaneamente come padre spirituale del Seminario Diocesano. Gli anni che vanno dal 1985 al 1992 sono densi di impegni spirituali e pastorali, ma anche culturali e amministrativi al servizio ora di una ora dell’altra tra le più grandi e onerose strutture formative gesuitiche di Napoli. 

  Nel 1992 si apre per Fr. Pezzimenti un periodo intenso di lavoro quale superiore della Comunità gesuitica “Francesco Saverio” di Catania che si protrae fino al 1996, anno nel quale venne per l’ultima volta a Oppido Mamertina, suo paese natale, dove fu accolto con grande premura dal vescovo Domenico Crusco e dalla comunità scolastica che all’epoca lo srivente dirigeva, nella quale rimase memorabile la celebrazione di un “Precetto Pasquale” officiata dallo stesso don Vincenzo , concelebrata dal vescovo e arricchita da un’omelia seguita con estrema attenzione anche dagli allievi più piccoli, che si potrebbe benissimo scolpire negli annali delle cose migliori della scuola e della fede cattolica senza fronzoli e senza ridondanze.

    Il decennio successivo ( fino al 2006) lo vede ricoprire un ruolo delicatissimo e fiduciario affidatogli direttamente dalla Santa Sede, quale “delegato” presso la Congregazione Religiosa nascente “Missionari della Fede”. La fonte istituzionale (8) della stessa congregazione riferisce che P. Pezzimenti fu chiamato espressamente dalla Sede Apostolica a guidare e accompagnare il cammino dei Missionari della Fede durante un periodo di "discernimento e maturazione della comunità missionaria stessa” . Ciò indica chiaramente quanta fiducia riscuotesse la sua grande preparazione spirituale e umana presso il vaticano e quale delicatezza morale egli fosse in grado di esprimere nell’accompagnamento di una congregazione religiosa nascente. In un testo di ringraziamento interno alla stessa realtà (9) si può leggere : “Rivolgo il mio ringraziamento a P. Vincenzo Pezzimenti S.J., che in qualità di Commissario Pontificio ci ha condotti a questo traguardo con la sua ricchezza di scienza, di fortezza, di prudenza e di profonda spiritualità…” Ciò suggerisce che il suo mandato non fu solo formale, ma vissuto come un accompagnamento pastorale e organizzativo, contribuendo alla crescita istituzionale e spirituale dei Missionari della Fede, anche nei campi missionari e nelle esigenze di evangelizzazione in varie regioni.

    Gli ultimi tredici anni della sua poderosa e prodigiosa missione lo ntrovano intento a portare ancora avanti molteplici e delicatissimi impegni di consultore, guida degli esercizi spirituali, assistente CVX, assistente spirituale dell’Associazione Medici Cattolici a Napoli nelle grandi e prestigiose case di Villa S.Ignazio, al Collegio “Pantano” e nella comunità del Gesù nuovo, dove si è spento lucidissimo a 101 anni di età, tra il compianto unanime, nel pomeriggio del 24 agosto del 2019. I funerali, molto partecipati, sono stati celebrati due giorni dopo nella Chiesa del Gesù nuovo, proprio dove riposa il corpo di una delle icone più grandi dei medici cattolici, San Giuseppe Moscati.

ROCCO CARBONE

 
    Come risulta anche dal necrologio dei Gesuiti stilato da Fr. Filippo Iappelli, (10), Fr. Rocco Carbone nacque il 16 agosto 1917 ad Oppido Mamertina nella casa ubicata sull’attuale corso “G. Mittica” a pochi passi anch’essa dalla chiesa San Nicola-Abbazia. Entrò nella Compagnia di Gesù l'11 giugno 1935, pronunciò gli ultimi voti come coadiutore temporale il 2 febbraio 1948 ed è morto il 24 maggio 2004 nell’infermeria del Gesù Nuovo di Napoli.

    Si era formato come valente artigiano nella sartoria di Nicola Natale in Oppido Mamertina, frequentando con assiduità nello stesso periodo non solo le attività promosse perr i giovani oppidesi nel seminario vescovile, ma anche quelle dell’Azione Cattolica che lo stesso Mons. Pandini, rettore del seminario, organizzava per numerosi giovani esterni al seminario negli spazi nella chiesetta del Calvario, che ben presto divennero troppo angusti, oltre che fatiscenti, per il numero crescente dei partecipanti.

    Entrò nella Compagnia di Gesù l’11 giugno 1935 ed assunse le mansioni di sarto, arte nella quale si era progressivamente perfezionato nelle varie case della Provincia Napoletana, prestando anche la sua opera in altre mansioni in aiuto dei confratelli e nel servizio dei fedeli che frequentavano le chiese curate dalla Congregazione. Così al Convitto Pontano alla Conocchia (1940) con funzioni varie di responsabilità; al Gesù Nuovo, aiutando anche in chiesa gli infermi e prestandosi nelle opere assistenziali a favore dei bambini poveri nel dopoguerra napoletano (1945); all’Istituto Di Cagno Abbrescia di Bari (1949); a Villa San Luigi (Napoli, 1952); a Vico Equense (Scuola Apostolica, 1953; Noviziato, 1955). Dovunque si trovasse, superando una certa ombrosità del proprio carattere, esprimeva il meglio di sé specialmente nel servizio ai più deboli.

    Dal 1956 al 1983, per ben 27 anni, gli fu affidato l'incarico più gratificante come gesuita a Roma – quello di responsabile della sartoria nella Curia Generalizia a Borgo Santo Spirito , a ridosso delle mura del Vaticano, con il servizio quotidiano al Padre Generale, ai suoi Assistenti e ai loro collaboratori provenienti di ogni Provincia del Mondo – e come cattolico – per la vicinanza alla Basilica di San Pietro, con la facilità di partecipare attivamente e spesso anche di collaborare alle cerimonie papali e di introdurre i conoscenti nei “segreti del Vaticano”. Di questo lungo periodo della sua permanenza a Roma restano moltissime testimonianze della sua generosa accoglienza prestata, tra l’altro, ai tanti compaesani e corregionali che dalla Calabria per incombenze varie, si recavano nella Capitale. Restano anche i ricordi di molte persone, specialmente religiosi e sacerdoti, che lo erbbero guida pratica sicura nell’introduzione agli uffici della Santa Sede.

    Nel 1984 Fr. Carbone venne trasferito alla residenza del Gesù Nuovo a Napoli , col medesimo incarico di responsabilità e, dopo la morte del concittadino F. Schepis, di Vice Sacrista, con le devote mansioni di assi- stere i sacerdoti celebranti nelle Letture liturgiche e di aiutarli nella distribuzio-ne della Comunione. Un incarico nuovo per lui, abbracciato con grande devozione: il suo carattere generoso ed empatico aveva modo di esaprimersi totalmente nell’accoglienza delle persone che frequentavano quella grande chiesa e nell’aiuto morale e spirituale che spesso esse cercavano. Possedeva infatti un carattere esuberante, anche se a tratti impulsivo, ma aperto e portato ad aiutare tutti senza riseve.

    Quando superò la boa degli 85 anni si sono moltiplicarono gli acciacchi dell'età, aggravati dalla lussazione di una spalla in seguito a una caduta; ma sempre, quando si sentiva più in forze e la vista indebolita glielo permetteva, si trascinava in sartoria per collaborare con grande esperienza all’allestimento degli abiti dei confratelli. Più penosi a causa dei numerosi acciacchi gli ultimi mesi di vita, serena la fine.

   Su Fr. Rocco Carbone recentemente Rocco Liberti ha pubblicato “ Il gesuita Rocco Carbone da Oppido”(11), un contributo biografico – storico contenente notizie sulla sua nascita e sulla sua formazione legata al territorio oppidese, sul suo ingresso nella Compagnia di Gesù , sulle tappe della sua esperienza gesuitica e all’attività svolta a Napoli e a Roma con particolare attenzione al suo impegno religioso, culturale e sociale.

Bruno Demasi 
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1) G.Pignataro I Gesuiti a Oppido,Historica,1968,n.1 
2) S.Rullo, Cronografia vescovile, 2002, pag.205, 
3) R. Liberti, Momenti e figure nella storia della vecchia e nuova Oppido, Quaderni Mamertini n. 29, Bovalino (Diaco), luglio 2002 (riveduto e corretto giugno 2016), p. 36. 
4) Notizie dei Gesuiti d’Italia, 1968, n.3,pp 46-47. 
5) Ibidem 
6)Ibidem 
7) Notizie dei gesuiti d'Itali
a, 1986, n. 1, pp. 27 – 28 
8)Bollettino deli Missionari della fede, 1996/97 
9)Ibidem 
10) Gesuiti in Italia
, 2004, n. 6, pp. 391 - 392. 
11) Liberti, Rocco. Il gesuita Rocco Carbone da Oppido. 25 giugno 2022. Accademia Edu.