sabato 11 ottobre 2025

DALLA DRAMMATICA FINE DI OPPIDO VECCHIO ALL’INCREDIBILE NASCITA DELLA NUOVA CITTA’ ( di Rocco Liberti e Bruno Demasi)


    In occasione delle giornate FAI d’autunno 2025 che vedono una nuova attenzioone verso quell’unicum urbanistico, architettonico e culturale costituito dal nuovo abitato di Oppido Mamertina viene qui pubblicato un breve studio a quattro mani ( già fornito al Comune  oppidese quale contributo di idee per il progetto “New Town”), che documenta il grande travaglio attraverso cui dopo il tremendo sisma del 5 febbraio 1783, in pieno inverno, con urgenza di impegno e senza molti mezzi si diede vita a un’impresa a dir poco eroica, quella di costruire ex novo a non poca distanza della città letteralmente distrutta dal terremoto un nuovo insediamento urbano che rispettasse tutti i canoni non solo della sicurezza e della salubrità, ma anche quelli della bellezza e dell'unicità nel ricordo dell' antichissima  tradizione storica, religiosa e culturale di Oppidum..
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      Dalla “Pianta Generale dei laghi” prodotti nel territorio oppidese, allegata all”Istoria dei tremuoti avvenuti nella Provincia di Calabria Ulteriore e nella città di Messina dell’anno 1783…” di Giovanni Vivenzio, si evince con chiarezza che il sito della vecchia Oppido, distrutta completamente dal sisma dello stesso anno, e quello della nuova, pur distando tra loro pochi chilometri in linea d’aria, appaiono di fatto molto più lontani perché divisi da ben due vallate solcate da altrettanti torrenti, dissestate e rese paludose dal sommovimento tellurico, dalle neoformazioni di laghi e stagni di ogni genere , addirittura quasi impraticabili e impercorribili per i crolli che cancellarono persino ogni via di collegamento.

    Come accennano le cronistorie oppidesi di Candido Zerbi (Della città, chiesa e diocesi di Oppido) e Vincenzo Frascà (Oppido Mamertina: Riassunto cronistorico) e soprattutto come documenta Rocco Liberti a più riprese ( cfr., tra l’altro. “Quaderni Mamertini” nn. 51,78 e 83) con ampie e approfondite ricerche di prima mano da lui condotte sulla nascita e lo sviluppo del nuovo abitato, fu questo il motivo sostanziale per cui molti tra i superstiti della città distrutta si ribellarono al trasferimento coatto in un una nuova città. Infatti, all’indomani del disastro, il generale Francesco Pignatelli, inviato dai sovrani borbonici a governare la ricostruzione, il suo braccio destro Micheroux, ma soprattutto i due ingegneri Winspeare e La Vega, al suo seguito, aderendo anche al suggerimento del nobiluomo oppidese, Marcello Grillo, seguito a ruota da tanti altri notabili del luogo, optarono per la radicale costruzione della città in una nuovo sito distante da quello distrutto, ma molto più ampio, salùbre e favorevole ad uno sviluppo urbano modernamente concepito. Scriveva in proposito il Pignatelli: “ Il colle su cui poggiava la città si fonde in varij siti, cadendone de’ pezzi nelle sottoposte Valli e rimanendone in alcuni luoghi la base obliqua al di dentro e la cima posta in fuori…”, facendo chiaramente intendere che ricostruire la città nel luogo in cui era stata distrutta sarebbe stata impresa assurda oltre che impossibile anche se, per i superstiti, la scelta di fondare un nuovo paese in contrada La Tuba appariva inaccettabile in quanto tale sito veniva considerato a una distanza notevole ingigantita non solo dai motivi che ne rendevano molto difficoltoso il raggiungimento, ma anche dalla preoccupazione di dover lasciare i poderi coltivati in prossimità del paese distrutto per spostarsi a vivere in un nuovo insediamento a molti ancora pressochè sconosciuto.

    Di questo grande travaglio nel passaggio dalla vecchia alla nuova città furono dunque testimoni diretti lo stesso Pignatelli, il Micheroux, ma anche gli stessi Winspeare e La Vega, che avevano eletto a base principale per i loro spostamenti continui sul territorio della Piana di Palmi devastato dal terremoto proprio la contrada La Tuba di Oppido, da dove partivano molte delle loro corrispondenze epistolari connesse alla progettazione e alla riedificazione di tanti abitati circonvicini. In proposito essi scrivevano: “…il luogo della Tuba è fornito della condizione principalmente necessaria alla sede di una popolazione, quali sono l’aria, l’acqua ed i boschi; avremmo soltando desiderato che minore fosse stata la di lui distanza dall’antica Città; ed in terreno inculto o di seminati, e non già d’oliveti; ma per quanto siasi da noi riconosciuto l’adiacente territorio, non aviamo ritrovato luogo, che o non conservasse recenti segni del crollamento sofferto o non fosse privo di alcune delle espressate necessarie condizioni. Quindi abbiamo creduto dovere divenire alla scelta suddetta…”

     Tra le incombenze della ricostruzione di molti abitati della Piana colpiti dal terremoto, l’edificazione di sana pianta della nuova Oppido , per la sua peculiarità, appariva subito come un’impresa colossale e richiedeva il massimo sforzo, ma al contempo esaltava la professionalità dei due ingegneri per vari ordini di motivi che potrebbero essere così sintetizzati:

· la decisione irrinunciabile di costruire ex novo una gloriosa città da sempre posta sul crinale angusto di una collina , ora scarnificata dai crolli enormi prodotti dal terremoto, poneva la necessità di operare scelte tecniche e logistiche ponderate e illuminate alla luce di tutte le conquiste tecniche, ma anche anche socio-filosofiche del secolo;

· la nuova città , ancora tutta da immaginare, avrebbe potuto e dovuto incarnare e sperimentare ex novo i nuovi canoni edificativi e di convivenza che si erano fatti strada durante il Settecento non solo nel Regno di Napoli, ma nell’intera Europa;

· il nome stesso della città distrrutta e da ricostruire, Oppidum, rimandava non solo logisticamente e storicamente a un contesto urbano specifico, ma evocava un passato remoto di matrice latina di cui tenere conto persino nella nuova progettazione;

· la caratteristica peculiare di città episcopale che per secoli ( almeno dal periodo bizantino, già a cavallo tra il X e l’XI secolo ) era stata incarnata dalla città distrutta, imponeva un ampio lavoro di ripensamento e di costruzione di nuove strutture ecclesiali degne di tale importante e venusta storia.

   Erano delle vere e proprie sfide terribili che lo stesso Pignatelli, ma soprattutto Winspeare e La Vega, supportati dai notabili oppidesi più illuminati, decisero di accettare, mettendosi subito al lavoro e realizzando una pianta della nuova città che è una sintesi formidabile tra la tradizione latina antica, quella dei castra, ovverossia accampamenti militari, che dovunque nella Penisola e nell’intera Europa hanno poi dato vita ad insediamenti urbani di grande spessore e le nuove conquiste razionalistiche dell’Illuminismo che le dinastie borboniche applicavano ormai da anni almeno all’architettura. Di tali conquiste erano sono e sono emblemi per la nuova città di Oppido l’ampiezza delle strade intersecantisi sempre ad angolo retto e le geometrie non casuali e neanche improvvisate.Ma è la tradizione del castrum latino la base fondamentale sulla quale Winspeare e La Vega verosimilmente fondarono il disegno della nuova città che in origine comprendeva solo una porzione dell’attuale abitato, e precisamente quella che lato modo si estendeva intorno all’attuale piazza principale, ai margini della quale sorsero presto gli edifici amministrativi, civili e religiosi più importanti.

   Di tanto lavoro purtroppo , al di là della realizzazione progettuale, rimane ben poco, infatti contrariamente a tante realtà urbane della nuova Oppido non si conservano i piani approntati dal Winspeare e dal La Vega, tantomeno mappe che riguardino le singole cosatruzioni. Avanza soltanto una pianta del 1798 approntata dall’architetto Giuseppe Vinci e messa in luce da Ilario Principe. Riguarda essa la cattedrale,il seminario, il palazzo vescovile e altre fabbriche di pertinenza con ampi cortili. Ma si tratta di un disegno chiaramente mai mandato ad effetto. 

    Per avere un’idea dello schema progettuale della nuova città come venne di fatto realizzato da Winspeare e La Vega possiamo solo osservare attentamente l’attuale conformazione urbanistica della parte più a monte (S-E) della città, vale a dire l’attuale Piazza Umberto I, una delle più grandi e regolari del territorio calabrese con tutte le sue immediate pertinenze che la circondano, gli isolati più prossimi che si articolano nelle varie direzioni e le strade che da essa si dipanano: 

   Come si può evincere agevolmente dall’immagine, che ritrae la ricostruzione plastica di un castrum romano, cui è esattamente sovrapponibile la parte centrale del progetto di costruzione voluto da Winspeare e La Vega per la rinascita di Oppido, la città che ne è derivata, anche in seguito agli aggiustamenti apportati dopo i gli eventi sismici del 1894 e del 1908, si sviluppa intorno a due assi fondamentali: il Decumano ( la strada principale che si diparte dalla piazza maggiore e che oggi ha il nome di Corso Vittorio Emanuele II) e il Cardo, trasversale al Decumano (oggi Via Candido Zerbi) delimitante la piazza “laica” della città (Umberto I) dalla grande area contigua che si apre davanti alla cattedrale. Da questi due assi viari principali prendono origine le varie insulae (isolati di pianta quadrata o rettangolare) tracciati geometricamente e in modo molto pulito.

    Esisterebbe una sola perplessità nel sovrapporre la pianta della nuova Oppido al castrum romano: la via decumana (Corso Vittorio Emanuele II) non trae origine dal centro della piazza (oggi Umberto I), ma ne lambisce soltanto il lato sinistro per chi guarda le montagne che all’orizzonte fanno da corona alla grandissima area sulla quale la medesima piazza si adagia. Il motivo è evidente: la progettazione iniziale della piazza prevedeva uno spazio doppio rispetto all’attuale, enorme, probabilmente esagerato per l’entità dell’abitato che si stava andando a realizzare: fu quasi spontaneo dunque occupare la metà N-E dell’agorà con due maestosi isolati, e precisamente:, a monte, quello costituito dal Palazzo Grillo e, sul fianco vero e proprio della piazza, quello che aveva inizio dal palazzo di Candido Zerbi ( oggi proprietà Caratozzolo, Zuccalà, Manfredi) e si estendeva a valle fino all’angolo in cui era ubicata la Farmacia Simone (Oggi Lupis). In tal modo la piazza originaria fu praticamente dimezzata, sebbene la stessa, malgrado la drastica riduzione, rimanga la più estesa e suggestiva tra tutte le piazze dei centri della Piana, e non solo.

    Occorre aggiungere che il grande decumano, costituito dal Corso Vittorio Emanuele II, prolungato nel tempo con l’aggiunta della parziale denominazione di “Corso Luigi Razza”, andò presto a congiungere l’abitato rinato di Oppido con quello del preesistrente paese viciniore di Tresilico, tanto che i due comuni nel 1927 vennero unificati con l’unica denominazione di “Oppido Mamertina”.

    I lavori di costruzione della nuova città, seguiti direttamente dai progettisti, ma anche dai cittadini oppidesi don Girolamo Grillo e don Francesco Migliorini, che avevano ricevuto il mandato di deputati della riedificazione, furono rapidi: già il primo nucleo della città sorse nel 1785 . anche se solo dal 1795 hanno inizio le sepolture nella prima cattedrale ( l’attuale “ chiesa dell’Abbazia”, ricostruita in tempi più recenti al posto della stessa, denominata non a caso dagli Oppidesi “Chiesa Vecchia”). E’ invece del 1836 l’apertura al culto della prima sontuosa cattedrale di fronte alla grandissima piazza rettangolare ancora oggi intitolata a Umberto I, poi gravemente lesionata dal terremoto del 1908 e riedificata esattamente nel medesimo luogo della precedente ( ne fanno fede, tra l’altro i quattro enormi pilastroni che sorreggono il transetto) negli anni Trenta del Novecento, così come appare oggi nella sua rara imponenza prospettica ed architettonica.

     Nel 1799, ad appena 16 anni dalla distruzione della vecchia Oppido, la nuova città è già ampiamente delineata nelle sue linee costruttive essenziali, tant’è vero che il vescovo Tommasini, primo presule della rinata città episcopale, “ interviene a favore delle classi meno abbienti di Oppido contattando il marchese Spinelli, visitatore delle zone terremotate ed autore di un piano di risanamento, facendogli presente che la gente povera ormai non ha più bisogno di case, in quanto per suo diretto interessamento è stata competentemente alloggiata…’“ . Così scrive il Liberti, che aggiunge poi una sintesi eloquente dell’andamento dei lavori di costruzione della nuova città e dello sviluppo urbanistico iniziale di essa: “ Da principio l’area occupata è soltanto la parte alta, quella che cioè comprende la zona sacra, la grande piazza e gli isolati in parallelo. Tutt’al più può raggiungere le isole racchiuse tra le vie Marconi-Napoli e Coppola, come peraltro si avverte in alcuni schizzi allestiti intorno al 1840 e conservati nell’archivio di stato di Reggio Calabria…Rinata come Oppido in contrada Tuba, la città dell’altopiano delle Melle, nel 1864, dietro un provvedimento dello Stato scaturito dalle lotte risorgimentali, al fine di evitarsi le omonimie, assume per volere dei suoi amministratori il nome di Oppido Mamertina, che accomuna così il ricordo delle peregrinazioni della sua popolazione fin dalla più remota antichità”.

    La città che era stata dei Bruzi, degli Elleni e dei Romani nei suoi siti primigeni, poi dei bizantini e dei Normanni, con apporti non trascurabili di civiltà araba ed ebraica, nel suo sito collinare distrutto dal terremoto del 1783, la città di vescovi e feudatari, di eroi, di briganti e di santi, risorgeva in un sito lontano da quello avìto, ma aperto alle promesse di una nuova vita civile, artistica e culturale.

    Una città antica che continua a rivivere in quella nuova, e non soltanto nel nome e in una conformazione urbanistica , che costituisce un unicum nel suo genere e che rimanda a fasti antichi e a memorie lontane, ma anche in molti dettagli architettonici, come il bellissimo portale in pietra verde di Delianuova che, secondo la memoria collettiva locale proviene direttamente dalla vecchia Oppido e adorna superbamente sul lato sudorientale della piazzetta “Regina Margherita” il palazzo legnamato e antisismico che fu di don Marcello Grillo e pare abbia ospitato per almeno un decennio anche il primo presule della rinata città e diocesi, quasi a rinverdire e mantenere salde le promesse di conservazione e di sviluppo di una cittadinanza tenace e pronta ad accettare qualsiasi sfida del tempo.

    Alcune di queste promesse oggi possono interessare il visitatore attento che si rechi a Oppido Mamertina. Innanzitutto i suoi edifici sacri ricchissimi di arte e di storia , a partire dalla grandissima cattedrale con il palazzo vescovile e i suoi annessi, il seminario, il magnifico museo diocesano di arte sacra e, non ultime, le altre 6 chiese presenti nella città. Poi le sue strutture civili e i palazzi di rappresentanza, tra cui il Palazzo Grillo, succube di un anatema vescovile perché allargato a dismisura dai suoi originari proprietari fin quasi alla parete del dirimpettaio episcopio, oggi sede di raccolte museali e di attività culturali di vario genere e di vario spessore. Quindi le istituzioni scolastiche , infantili, primarie e secondarie di I e II grado , che annoverano, tra l’altro, un Istituto tecnico industriale, un liceo scientifico e un liceo classico interno al seminario vescovile. Infine l’ospedale civile, uno dei più antichi della provincia reggina, oggi trasformato in “Ospedale di Comunità”, grandi e variegati impianti sportivi che, insieme alle tante strutture di partecipazione sociale e culturale e di solidarietà, rendono sempre più attrattiva questa città all’interno di un comprensorio pedeaspromontano proiettato a trovare la propria strada per una necessaria rivalutazione non solo storica e culturale, ma anche economica, imprenditoriale e di inclusione sociale..
                            
                                                                                       Rocco Liberti e Bruno Demasi