martedì 19 novembre 2024

I PIRCHI (di Bruno Demasi)


   I Pirchi prima di spendere un solo centesimo si dovevano riunire tutti nel basso di sera tardi, discutere a lungo e capire se la spesa era indispensabile e giusta. Solo per comprare una lumèra nel ‘41 si riunirono per tre serate di seguito con tante discussioni e sciarre e alla fine con regolare votazione si decise di non comprarla perché era cara.

 Il capostipite dei Pirchi, che di cognome facevano Trupìa, era conosciuto da tutti come Filippo il Pirchio perchè era tanto avaro che si faceva sparare per non cacciare di sacchetta un solo soldo. Sapeva fare lo scarparo, il barbiere e sapeva tirare pure i denti, ma pochissimi avevano i soldi per pagarlo e subito appresso il terremoto del 1908, che aveva quasi distrutto la sua casupola, dove la madre era morta un mese prima, aspettò fino a quando il comune gli assegnò la sua baracca che gli toccò vicino al Piliere, vi trasportò tutto quello che era riuscito a salvare, la chiuse, inchiodò per bene la porta e le due finestre e a ventiinove anni fatti partì per Novaiorca con una piccola somma 'ngruppata bene in un muccaturi, ma senza biglietto per il piroscafo.

     Impiegò tre simanate per arrivare fino al porto di Napoli e per tre giorni e tre notti aspettò la partenza della nave ammuccciato in mezzo alle corde, alle casce e ai baulli dei viaggiatori.: due ore prima della partenza indossò la tuta di macchinista che si era procurato in cambio di due sicarri, si passò una mistura di pece e nerofumo sulla faccia per non farsi conoscere da nessuno, salì sul piroscafo andando direttamente nella sala macchine e cominciò immediatamente a gettare palate di carbone dentro la grande bocca di una fornace che non era mai gurda. Nessuno gli domandò mai niente per tutto il viaggio: faticava come un mulo e rendeva per tre senza mai dire mezza parola, manco quando gli portavano quello che c’era da mangiare. Allo sbarco restò nella stiva per un giorno e una notte e poi uscì solitario portando sulle spalle un pesante pezzo di motore che aveva trovato in un angolo della sala macchine facendo finta di portarlo all’officina del porto: nessuno lo fermò e uscì dal recinto libero come l’aria. Si impiegò subito in una miniera della Pennsylvania lavorando come un mulo. Nel 1914 decise che era ora di tornare a Oppido nella sua baracca, ma sentì dai banditori dei giornali che era scoppiata la guerra in Europa e che molti Italiani avevano il fuoco al culo perché volevano intervenire anche loro. Tornò in miniera e continuò a lavorare fino al 1918. Appena appurò che la guerra era finita, decise di andarsi a comprare al mercato della roba vecchia un’altra tuta da macchinista per il rientro in Italia sul primo piroscafo disponibile.

     Quando rientrò in paese, si accorse che durante la sua assenza la baracca era stata aperta: i cornuti erano entrati da una finestra darreto. Pure il materasso si erano portato; erano rimastì soltanto qualche pignata nigara, la vecchia buffetta zoppa e due trispita arruggiati del letto. Trovò un posto sicuro per ammucciare tutti i dollari che aveva portato e cominciò a guardarsi in giro per trovarsi una moglie e, quando con una scusa, quando con un’altra, era sempre alla fontana grande per guardare le donne che lavavano la biancheria: c’erano tante belle femmine da marito, ma una sola sapeva sparagnare con delicatezza il sapone, mentre tutte le altre più ne avevano più ne consumavano a morimamma. Si trattava della figlia del vaccaro Tornisi che era orfanazza di madre e di nome faceva Marastella. E stella era: bianca e rossa nella faccia come la Madonna delle Grazie. Mandò subito a casa del vaccaro il sensale al quale faceva la barba e dopo due-tre simanate, fatte passare per l’occhio della gente, il vaccaro gli mandò a dire con lo stesso sensale che Marastella lo voleva. Lo zzitaggio era oramai ufficiale , anche se Filippo era  più grande di età della donna, e ogni domenica sera era ricevuto a casa della promessa sposa. Durante quelle serate gli occhi del Pirchio andavano avanti e arreto come il nimolo del tilaro per scoprire tutti i comportamenti di Marastella, che per la verità si dimostrava sempre in ogni cosa che faceva assai sparagnatrice, pure sull’acqua e sul sale. Mancava però la prova del nove e una sera, appena Marastella gli domandò se voleva un ovo fritto, il Pirchio disse immediatamente di si, poi si alzò con la scusa di aiutarla ad accendere la fornacetta e si accorse che la ragazza usava solo mezza della mezza fascina e non una fascina intera, inoltre teneva la padella inclinata sul fuoco con una sola cucchiaiata di olio per cuocere l’uovo senza nessuno spreco. A quella vista il cuore del Pirchio si squagliò e si mise a piangere di felicità. E quella sera stessa disse che il matrimonio si doveva fare al più presto possibile. 
    Per la mangiata nuziale Tornisi voleva scannare una vitella, ma Marastella e Filippo furono irremovibili:

- Si mangiano solo maccheroni di casa con una bella grattata di caso – dissero - e poi ancora caso e pane di casa per tutti!

     Per due simanate Marastella filò fino a tarda notte i maccheroni con l’aiuto di Filippo acciocchè il pranzo per i cinquanta invitati di famiglia fosse come si deve, mentre Tornisi badava a curare le pezzotte di formaggio vaccino che erano necessarie per la scialata. Per completare il mobilio nella baracca il Pirchio intanto si fece fare dal forgiaro un altro paio di trispita e dal falegname due colonnette e un casciabanco per la biancheria, sdebitandosi con la tiratina di una mola e dieci barbe a ciascuno dei due. Un’altra mola perciata poi fu tirata al prete che celebrò il matrimonio.

     La baracca bastò e restò fino a quando arrivarono i primi due figli, uno mascolo e l’altra femmina, ma quando arrivò la terza già erano stretti e la mammina disse incazzata al Pirchio:

- Per la prima figliata mi hai pagato con un paro di scarpe della sechinenza, che appena pigliarono acqua andarono all’aceto, e va bene! Per la seconda figliata mi hai cacciato due denti che ancora potevano stare! E va bene pure! Ma per la terza figliata mi devi pagare!

     Il Pirchio fece finta di non sentire per un ferriamento di testa e cadde pèzzolo in mezzo alla strada, ma quando arrivò il quarto figlio nel 1925 la mammina parlò chiaro e si spartì i patti avanti:

- Stavolta, se non mi pagate, mi dispiace , ma Marastella si può sgravare da sola!

     In sei ora erano strettissimi nella baracca , ma Marastella sapeva quello che faceva e l’ordine assoluto regnava in quella casa. Filippo intanto aveva preso in affitto per i suoi tre lavori un basso dalle parti della chiesa del Buon Consiglio, liberando un poco di spazio nella baracca, ma i suoi occhi erano tutti per il palazzo mezzo sdarrupato dei Liccardi dalle parti della Chiesa Vecchia, che era disabitato da quella terribile mattinata del dicembre 1908 quando la terra si era messa a ballare la tarantella: il tetto era ancora spantumato, l’acqua e il vento entravano da tutti i pertusi , l’erba era cresciuta davanti alle porte e nessuno sapeva che fine avessero fatto i proprietari. Nel 1927 però, quando comparve in paese uno dei Liccardi e cominciò a dare di lingua per vendere il palazzo, il Pirchio si mise a tremare pensando che qualcuno lo poteva comprare , ma in paese a tutti mancavano ventinove soldi per un lira e nessuno poteva comprare. Fu così che a jenaro del 1928, quando ancora i dollari mericani avevano il loro grande valore, Filippo si fece avanti contrattando con quella moneta e il palazzo spantumato fu subito suo. Si affacciava sulla strada grande con due bassi e due cammare di sopra, mentre sulla strada stretta si allungava per quattro volte tanto. E, siccome i bassi erano all’asciutto, in quelli che si aprivano sulla strada grande Filippo piazzò all’ angolo il suo studio di dentista che era pure bottega di scarparo e di barbiere, mentre nell’altro basso pensò di aprire a Marastella un commercio minuto di pezzotte di caso vaccino frisco e stagionato, ricotte salate e musuluchi che Tornisi produceva in grande quantità.

    All’arrivo del mese  di maio furono chiamati due mastri d’ascia e due operai per spantumare dove era necessario il tetto di ciaramide, che il terremoto aveva spaccato come una cortara vecchia , e i muri pericolanti e a giugnetto tutto era pronto per fare il tetto nuovo e ripigliare dove era necessaria la muratura: le mule portarono carichi e carichi di legname, ciaramide e mattoni e tutti i giorni la sacra famiglia , figlio piccolo compreso, si metteva in fila quando con un ciarbune, quando con un un mattone, quando con una ciaramida in mano a ciascuno per servire i mastri sulle impalcature che se la facevano bestemmiando dalla mattina alla sera. Alla fine dell’estate il tetto nuovo era cosa fatta e la muratura pure, ma i dollari erano quasi finiti e il Pirchio pensò di mettere solo le aperture esterne e poi fermare i lavori interni sperando nell’arrivo di qualche provvidenza. A settembre pure le aperture esterne erano quasi tutte a posto, salvo un finestrino in una stanza d’angolo. Filippo disse gridando al falegname Gileppo, che era stato pagato profumatamente, che doveva portare al più presto il finestrino, ma il falegname, che era più pirchio del Pirchio, disse spronto:

- Manca una lira e mezza sul prezzo che avevamo aggiustato per tutto il lavoro: o me la dai o il finestrino non lo vedi!

    Per tutta risposta Filippo gli si lanciò contro come un gatto servaggio e lo gettò a terra. Cominciarono a rotolarsi dandosi muzzicate sulle facce e botte da orbi e dopo pochi minuti erano ridotti tutti e due a pezze da piedi pieni di sangue. Sentendo le grida della gente , si avvicinarono due regi carabinieri che li presero a terra e li divisero sacramentando , poi li portarono in caserma dove furono trattenuti due giorni e una notte. A tirata di causa per direttissima il giudice condannò Filippo a pagare a Gileppo quattro volte quello che gli doveva , e cioè sei lire, oppure a pagare solo una lira e mezza, ma a scontare un mese di carcere. Il Pirchio naturalmente scelse la seconda soluzione e fu portato subito in galera.

  Marastella per tutto il mese non sapeva più cosa fare per sparagnare qualcosa e tirare avanti: cominciò a vendere nella sua bottega anche il grano che le portava una sua cugina di notte nelle cofane della scecca per non dare all’occhio. Poi pensò che era inutile tornare a dormire ogni sera nella baracca del Piliere e per tre giorni i quattro figli trasportarono in testa nella casa in muratura materassi, trispita, sedie, pignate e tutto il resto. Invece  il casciabanco , la buffetta e altre cose più pesanti furono portate dal nonno Tornisi con un carretto trascinato da una vacca vecchissima e tutta ossa , che da Tresilico a Oppido impiegò più di due ore  lordando tutto il corso con le sue cacate continue, che fecero arraggiatiare una guardia comunale che non vide l’ora di correre subito nella bottega di Marastella gridando:

- La vacca di vostro padre ha combinato a tre tubi tutto il corso: non solo si muore dal feto, ma non si può nemmeno camminare. Dovete pagare una multa oppure ve la vedete coi carabinieri!

- Per me – rispose calma Marastella – vi potete pigliare la vacca e ve la potete tenere!

- Allora non volete capire, catinazzo? – insorse la guardia – Come ve lo devo dire che il corso non può restare com’è ? Il Comune minimo minimo deve spendere dieci lirazze per pulizzarlo.

- Sentite! – Rispose Marastella – mangiatevi un musuluco e calmatevi chè parete focàto... Di quant’è la multa?

- Sarebbero sette lire, ma a  voi faccio cinque lire e mezza! – rispose la guardia.

- Pigliatevi un altro musuluco – disse calma Marastella – e vedete di chiudere un altro occhio…

- E che volete?  Che vado io  pure a  pulizzare le cacate di vacca? – rispose risentita la guardia – Almeno una lira e mezza per due orate di fatica di un operaio volete pagarle?

- Mangiatevi quest’altro musuluco che è restato e non se ne parla più! – Disse risoluta Marastella.

- Niente…almeno mezza lira di multa per l’occhio della gente la dovete pagare – rispose sottovoce la guardia a bocca piena.

- Che mezza lira e mezza lira! – Ribattè Marastella insieme ai quattro figli – Diteci dove dobbiamo andare a pulizzare e andiamo noi…E partirono tutti in fila indiana armati di due scope di lafàce e di due limbe piene di acqua.

     La sera stessa la sacra famiglia si sistemò alla meglio in due bassi sdarrupati della nuova casa, quindi si diede di lingua in paese e subito la baracca fu affitata e quando Filippo uscì dal carcere si prese la testa a pugni domandandosi come mai non ci aveva pensato lui prima.

    Pareva che tutti i denti perciati e le barbazze del paese  aspettavano il Pirchio: appena uscito di galera, il basso  era pieno dalla mattina alla sera e per mettere la suola a qualche paro di scarpe doveva lavorare anche di notte. I soldi entravano di nuovo … e si poteva cominciare a pensare a sistemare un poco alla volta all’interno le cammare e i bassi di tutta la grande casa ancora spantumata. Ma una sera a letto Marastella ebbe una pensata e la disse al marito:

- Filippo, abbiamo quattro figli che crescono come la lattuca nel mese di giugno, anzi alle due femmine già comincia a mpinnare il petto: o prima o poi le dobbiamo maritare con l’aiuto di Dio…Ora noi abbiamo un casunale bisesto di dieci cammare e di dieci bassi. E’ vero che sono ancora quasi tutti spantumati, ma a noi che servono? Ci bastano i due bassi delle botteghe e le due cammare di sopra, mentre il resto possiamo 'ngegnarlo per fare quattro case per i figli: due bassi e due cammare ognuno con sporgenza sulla stradella davanti e sulla stratuzza darreto. Che dici?

- Hai ragione – murmuriò il Pirchio morto di sonno – ma ci vogliono quattro scale almeno di tavola. Domani vado a parlare con quel coso brutto del falegname Gileppo, da cui avanzo almeno sette-otto barbe, e se mi fa un prezzo giusto, senza poi armare sciarre come al solito suo pure per mezza lira, gli ordino di fare la prima scala con legno di castagna. Se viene bene, poi Dio provvede…

L’indomani, alle sette arbe, il Pirchio si alzò col pensiero del falegname che gli ferriava in testa; prima aprì la bottega di Marastella e poi mise mano per aprire la sua, ma rimase 'ntassato quando vide arrivare l’officiale del dazio con un milite che senza dire una sola parola di saluto gli passarono davanti ed entrarono senza permesso nella bottega di Marastella che era appena arrivata. Filippo tremava dalla nerbina e restò fuori dalla porta a sentire cosa succedeva…

- Da quanto avete questo esercizio? – disse con la nasca all’aria l’officiale a Marastella –

- Cosa di poco…. meno di un anno….- rispose la donna imparpagliata.

- Che anno e anno? – Ribattè l’officiale – Volete farci fessi? Sono tre anni che lavoro in questo comune e l’esercizio era già aperto quando sono arrivato!

- Vi sbagliate di grosso! – gridò Filippo dalla porta.

- Voi statevi zitto se no vi mando in galera! – Intimò il milite.

- Che cosa vendete? – Domandò l’officiale alla donna.

- Ccà… guardate coi vostri occhi: quattro pezzotte di caso vaccino, poche ricotte, quando ce ne sono, e due musuluchi – rispose ancora più imparpagliata Marastella.

- E in quei sacchi vicino alla parete cosa c’è ? – Riprese l’officiale con le nasche tremanti.

- Avena! Avena per le cavalcature c’è! – rispose Marastella.

Il milite si avvicinò alla parete, prese un sacco e lo mise su una buffetta , aprendolo, mentre l’officiale si avvicinava e prendeva un pugno di cereali e cominciva a sacramentare a voce altissima:

- Questa sarebbe avena dunque? Ci prendete per fessi? Questo è grano, e lo sapete meglio di me che c’è il dazio sul grano e sui farinaggi di grano. Perché non lo avete mai rivelato?

- A me pareva avena…- rispose con un filo di voce Marastella facendo infuriare di più l’officiale che non perse un solo secondo a sparare la sentenza:

- Sono 25 lire di multa. Per ora! E vi è andata pure be….

     Non potè completare la frase giacchè fuori della porta si sentì un grande scalafascio accompagnato da lamenti e grida. Saltarono tutti fuori e quando Marastella vide Filippo a terra che tremava pieno di sputazza fuori dalla bocca domandando di essere portato all’ospedale, si mise a fare voci altissime per chiamare gente. Accorsero tutti dalla ruga e quattro amici lo misero su una vecchia coperta e cominciarono a trasportarlo di prescia in ospedale, dove restò una simanata assistito dalla moglie che tenne la bottega chiusa. E quando la riaprì c’erano solo i latticini.

. . .


    Quando Palmina , la prima delle figlie femmine fu in età di marito, Filippo e Marastella la chiamarono da canto e la 'ndottrinarono per bene.

- Come deve essere un bravo marito? – domandarono insieme alla ragazza.

- Lavoratore e sparagnoso – rispose Palmina.

- Prima sparagnoso e poi lavoratore – disse il Pirchio rosso in faccia, sparando poi subito la seconda domanda:

- E come capisci che è sparagnoso?

- Non deve fumare sicarri e tabacco di nessun tipo, non deve andare nelle cantine a sollevarsi a vino, non deve giocare né a carte né a mbrigghia e quando passa la guantera nella chiesia non deve mettere più di mezzo soldo…!

     Dopo tre mesi il sensale arrivò una sera nella barberia-scarperia e denteria , aspettò che se ne andassero i clienti che erano presenti e a bassa voce si rivolse al Pirchio:

- C’è Geso Mpigna che vuole le mani di vostra figlia Palmina. E’ un bravo giovine , di poche parole e lavoratore che di un sordo ne fa tre…

- Questo si deve vedere... – disse Filippo – Ditegli di venire qui di sera dopo la jornata per aiutarmi nel lavoro di scarparo. Io lo pago e cosi vedo che pesce è.

- Sta bene! – rispose il sensale: domani sera stessa piglia servizio.
   

  Geso si mostrò subito di poche parole, imparò subito a rattoppare le scarpe spantumate e lucidarle benissimo con la sola sputazza faticando come un mulo dopo una jornata di lavoro che aveva già fatto. Bisognava studiare però una prova decisiva per vedere se sapeva sparagnare come si deve. Una sera a Filippo venne l’idea mentre tagliava i capelli a un cliente di sbattere forte più volte vicino alla buffetta di scarparo il faddale che metteva addosso a chi si serviva da lui per non riempirsi di peli, facendo così volare molte leggerissime simigge di scarparo a terra. Poi con la coda dell’occhio si mise a osservare Geso che stava lavorando in silenzio per riparare un paro di calandrelle e che posò subito il lavoro e si abbasso per raccoglierle. Il Pirchio fece finta di niente, ma fu contento dentro di sé per questo comportamento. Tanto più che Geso, dopo aver finito il lavoro, si abbuzzò di nuovo a terra guardando centimetro per centimetro e tastiando con le mani…

- Che perdesti? – Gli domandò Filippo.

- Caddero delle simigge – disse il giovine – Le ho raccolte come ho potuto, ma mi sono accorto che ne mancano tre…

- E come te ne sei accorto? – Lo provocò il Pirchio.

- Perché prima di cominciare il lavoro le avevo contate tutte nella mia mente, una per una!

     Filippo voleva mettersi a ballare per la contentezza e chiamò subito il sensale per comunicargli che lo zzitaggio si poteva fare. E presto si fece pure il matrimonio e la nuova famiglia andò a vivere nelle prime due cammare e nei primi due bassi rinnovati, serviti dalla prima scala di legname di castagno, per il pagamento della quale il Pirchio e il falegname Gileppo almeno quattro volte furono sul punto di venire alle mani di nuovo, gridando in continuazione e minazzandosi con la sputazza alla bocca.

     Quando fu il tempo di Sterina, la seconda figlia, Filippo e Marastella la chiamarono e la 'ndottrinarono come avevano fatto con Palmina. Dopo alcuni mesi arrivò l’ambasciata del sensale che si presentava a nome del padre di Micalangialo Barresi per chiedere la mano della figliola e il Pirchio chiese anche a lui, come barbiere, il solito periodo di prova di sera, ma non ce ne fu bisogno perché il giorno stesso in cui doveva pigliare servizio Micalangialo s’appresentò nella bottega di Marastella dicendo:

- Voglio tre pezze di caso frisco e tutti i musuluca che avete!

- Otto ne ho. – rispose Marastella cercando di sprovarlo – Vi abbastano per quello che dovete fare o sono pochi?

- Pochi sono, ma ci arrangeremo : – rispose Micalangialo – siamo nove amici e dobbiamo fare una schiticchiata: pago io!

Una che fu uscito dalla bottega, una che Marastella entrò affannata nel basso del marito contandogli il fatto:

- Non è cosa! – aggiunse – Questo le sacchette perciate ha e non fa per Sterina. Mandagli a dire col sensale di rigettarsi i sensi!

      Dopo qualche mese però anche Sterina trovò l’uomo adatto, che si rivelò più pidocchioso dello stesso suocero, e anche il secondo matrimonio venne presto celebrato e fu inaugurato il secondo alloggio con la seconda scala di legno di castagno e almeno altre tre sciarre sul prezzo tra Filippo e Gileppo, culminate in una ferata nella piazza della cattedrale in cui i due si sfidarono a botte di bacolo per una differenza di tre lire e mezza sui conti che avevano fatto e che non tornavano.

     Toccava ora aprire famiglia al primo figlio mascolo che di nome faceva Gelardo e che faticava come un mulo dalla mattina alla sera. Gettò l’occhio su Gialorma, una bella figliola nquartata, forzuta e rossa in viso come una paparina, ma era difficile alla famiglia Trupìa sperimentare le virtù di sparagnatrice fina della ragazza. Volle il caso però che un giorno Gialorma fu mandata nella bottega di Marastella a comprare mezza libbra di caso da grattare e Marastella, facendo finta soprapensiero di sbagliare, gliene tagliò un pezzo di quasi una chilata. Gialorma si fece ancora più rossa con le orecchie che le gettavano fuoco e disse che ne voleva mezza libbra e basta. Allora Marastella , per sprovarla, gliene pesò quasi una libbra mandando Gialorma su tutte le furie:

- Vi dissi mezza libbra e mezza libbra precisa deve essere, non una gramma di più e non una gramma di meno: noi i soldi li fatichiamo!

    Fu musica per le orecchie di Marastella e poi di Filippo e poi di Gelardo, che, se possibile, era più avaro del padre, e presto furono ncignati anche questo matrimonio e il terzo alloggio, con la terza scala di castagna, pagata dal Pirchio facendo continue ferate e sfide a quel fetuso di Gileppo, che pretendeva ancora una volta di imbrogliare sempre qualche lira in più rispetto ai patti.

    L’ultimo figlio di nome Saverino a sedici anni sdunò che voleva farsi previte e si chiuse in seminario. Pigliò messa dopo una ferriata di anni di studi, fece il concorso e vinse una bella parrocchia con rendita di due vigne e di un orto, dove per sparagnare su tutto arrostiva l’uovo alla candela , teneva una sola sedia e una buffetta, una sola zimarra per l’estate e per l’inverno, celebrava due messe tutti i giorni e tre la domenica e le feste, facendosele pagare tutte, e limosinava coi parrocchiani alla ricerca di tutte le offerte possibili e pure di quelle impossibili.

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    Gli anni volarono e la famiglia ora era formata, tra grandi e piccoli, da quattordici persone più il previte che , quando si facevano riunioni per decidere qualcosa, arrivava dal paese dove aveva la parrocchia a cavallo di una scecca sempre più affamata e malandata.

     Fu nel ’38 che il Pirchio passò un terribile quarto d’ora, quando il Fascio locale, incazzato perché né lui né il figlio né i generi avevano mai partecipato alle adunate, gli fece sapere che era fuori legge a fare il dentista e che lasciasse il mestiere a chi ne aveva il titolo.

- Ma si tratta di mole e di denti perciati che, se li tocchi, cadono da soli… – fece sapere Filippo.

- Perciati o non perciati – gli mandarono a dire -. Se continui a tirarli senza autorizzazione, ti perciamo noi e vai a finire in galera per tutto il resto della vita.

Dopo qualche mese si presentarono due uomini nella bottega per un’ispezione e gli dissero:

- Trupìa, questo esercizio pubblico è fuori legge: o è barberìa o è scarperìa. Non potete continuare a fare barbe e a tagliare capelli con la puzza e la lordìa di tutte queste scarpazze vecchie, col rischio di dare un’infettazione ai vostri clienti. O vi decidete a lasciare una delle due attività o ve le chiudiamo tutte e due.

    Filippo con la morte nel cuore passò la barberia al secondo genero e la scarperìa al primo, spostandole nei loro bassi: faticò una simanata per trasportare tutto e, quando il suo basso fu vacante, lo riempì di panche di legno in tutti i lati: da quel momento quella era la sala delle riunioni di famiglia. Poi si ritiro nell’esercizio di Marastella e cominciò a vendere pure lui caso, ricotte e musuluchi. Per spassare il tempo...

    Presto però marito e moglie pensarono di ritirarsi e passarono l’attività commerciale al figlio maggiore . Restarono però presenti a tutte le continue riunioni della famiglia, che intanto era ancora cresciuta di numero , quando c’era da prendere una decisione oppure di comprare qualcosa, anche un solo giocattolo o una sola caramella per qualcuno dei più piccoli.

    Una sera,appena finita la guerra, una riunione fu organizzata in fretta e furia perché qualcuna delle femmine della famiglia aveva sdunato che era necessario portare un tubo dell’acqua dentro casa e si doveva pagare una certa somma al comune e un’altra allo stagnino per fare il lavoro: parevano tutti d’accordo, eccetto Marastella e il Pirchio che si batterono come leoni per non far fare quel lavoro. Nemmeno il previte riuscì a convincerli e la discussione si protrasse con grida e minazze per tutta la notte. Alle mattinate Filippo, mentre ancora gridava e batteva i pugni sul tavolo, fu preso da una botta di sangue che lo lasciò a terra a bocca e occhi aperti come un pupo. Lo presero di peso e lo portarono di sopra nella cammara e, dato che era ancora scuro, Marastella , aspettando il medico, accese la lumèra sulla colonnetta, ma Filippo, ormai in fin di vita, mutariando e sacramentando, le ordinò con la bocca piena di schiuma e con le mani tremanti di spegnerla subito perché l’ogghio non lo regalavano!

                                                                                                                         Bruno Demasi